Violenza sulle donne: perché il sistema preventivo fallisce

Juana Cecilia Hazana Loayza aveva già denunciato Mirko Genco, 24 anni, l’ex compagno che le ha tolto la vita il 19 novembre. Era stato arrestato il 5 settembre per atti persecutori e il giorno dopo scarcerato e sottoposto alla misura cautelare del divieto di avvicinamento. Ma il 10 settembre Genco era stato arrestato di nuovo per violazione della misura, violazione di domicilio e ulteriori atti vessatori, riuscendo a ottenere i domiciliari con un patteggiamento a due anni. Anche Vanessa Zappalà, 26 anni, uccisa lo scorso agosto ad Acitrezza (Catania) a colpi di pistola, aveva denunciato per stalking l’ex compagno 37enne Antonio Sciuto. L’arresto dell’uomo, però, non era mai stato convalidato.
Nella relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidi, presieduta dalla senatrice Valeria Valente, viene riportato che solo una donna su sette uccisa tra il 2017 e il 2018 aveva denunciato il proprio assassino. Ma quelle che denunciano non vengono tutelate: lo dimostrano alcune delle storie delle 109 donne assassinate dall’inizio del 2021. A questo si aggiunge il mancato sovvenzionamento dei centri antiviolenza e un ritardo culturale che non viene colmato dal sistema educativo. Dopo ogni femminicidio il solito commento è: “Qualcosa non ha funzionato”. Ma in Italia c’è più di “qualcosa” che non funziona.

“C’è un grande problema: l’assenza di professionalità tra magistrati e forze dell’ordine”, ha dichiarato il giudice Fabio Roia, presidente vicario del tribunale di Milano e componente dell’Osservatorio sulla violenza contro le donne, in un’intervista a Repubblica pubblicata martedì 23 novembre. Avviene spesso che le denunce non vengano prese in considerazione con la necessaria serietà: alcune vittime di violenza raccontano di essere state invitate dalle stesse forze dell’ordine a pensarci due volte prima di formalizzare le accuse. In più, su 118 processi arrivati a sentenza per femminicidio considerati dalla Commissione d’inchiesta istituita sul tema, solo 98 si sono conclusi con una condanna.
“È necessario che chi si occupa di questa materia sia formato su scienze complementari, dalla psicologia all’esperienza quotidiana degli operatori dei centri antiviolenza. Occirre essere in grado di comprendere il ruolo della donna nel ciclo della violenza. Le leggi che abbiamo sono buone ma non vengono applicate con competenza”, prosegue Roia. E conclude: “Dobbiamo essere in grado di proteggere le donne senza limitare la loro libertà. Le donne stanno sei mesi chiuse nelle case rifugio in attesa che i giudici decidano eventuali misure cautelari nei confronti degli uomini che le minacciano. Ma non dobbiamo sradicare dalle loro case e dal loro quotidiano, sono gli uomini che dobbiamo togliere dalla circolazione”.

Non ci sono i soldi per le attività dei centri antiviolenza. Anzi, bisognerebbe dire piuttosto che i fondi ci sono ma non arrivano a destinazione. Lo ha denunciato qualche giorno fa l’ong ActionAid nel dossier “Cronache di un’occasione mancata”, un documento che monitora il movimento dei fondi antiviolenza sul territorio nazionale. Di quelli stanziati per il 2020 solo il 2% del totale è stato effettivamente consegnato a centri e case per donne vittime di abusi (e in sole due regioni: Liguria e Umbria).
A marzo 2020, su iniziativa della ministra per le Pari Opportunità Elena Bonetti, la cifra totale ammontava a 3 milioni di euroma solo poco più di 25mila sono effettivamente arrivati ai centri (meno dell’1%). Il mese successivo, con un bando d’emergenza per gli enti che gestiscono il sistema antiviolenza, la ministra aveva chiesto 5,5 milioni di euro: soltanto 142 hanno potuto farne richiesta perché i soldi venivano distribuiti a quanti erano in grado di offrire una garanzia pari all’80% dell’importo.
A maggio poi è stato istituito il “reddito di libertà“, misura pensata per permettere alle donne vittime di violenza di essere economicamente indipendenti con un contributo massimo di 400 euro al mese per 12 mesi. L’Inps ha pubblicato la circolare per definire le modalità e i requisiti di accesso al fondo l’8 novembre. Da maggio a oggi, quindi, nemmeno un euro dei 3 milioni complessivi stanziati a Centri e Case è stato consegnato. In più, secondo un gruppo di 84 associazioni di donne che gestiscono circa 150 realtà del sistema antiviolenza (la rete D.i.Re), per sostenere tutte le donne che avrebbero bisogno del “reddito di libertà” servirebbero almeno 48 milioni.

In una nota Istat sull’andamento del mercato del lavoro nel primo trimestre del 2021 si leggeva che il 59,3% delle donne fra i 15 e i 34 anni, cioè 6 su 10, non lavora e non cerca lavoro e che le donne inattive per motivi familiari sono più di quelle inattive per studio. Quando si tratta di indipendenza economica femminile spesso si sottovaluta l’importanza che questa assume in contesti familiari violenti.
Promuovere politiche che favoriscano l’assunzione delle donne, la giusta retribuzione e servizi che consentano di ridurre il carico del lavoro di cura, da sempre ritenuto appannaggio quasi esclusivo del genere femminile, permetterebbe a buona parte delle donne di abbandonare compagni e mariti violenti dai quali però, purtroppo, sono costrette a dipendere in assenza di impiego. Situazione che si fa ancora più complessa quando sono coinvolti anche eventuali figli minorenni. La necessità di rendere le donne sempre più autonome economicamente diventa stringente se si osserva l’ultimo report della Direzione centrale anticrimine della polizia: il 36% dei femminicidi è stato commesso da mariti o conviventi delle vittime.

Il fallimento del sistema che dovrebbe prevenire le violenze deriva, forse non del tutto ma sicuramente in parte, da una prolungata assenza della società su questi temi. Dal linguaggio sessista che riempie le pagine dei giornali e i programmi televisivi, all’assenza di progetti educativi capillari negli istituti scolastici che formino i giovani sul tema. Anche nella comunicazione delle iniziative volte a sensibilizzare la popolazione si osservano carenze non indifferenti: la nuova campagna contro la violenza di genere della polizia di Catania si chiama “Aiutiamo le donne a difendersi”, come se il problema riguardasse solo le vittime e non un sistema, una mentalità che da secoli limita l‘autodeterminazione femminile. Come se la causa di questa enorme problematica sociale non fossero gli uomini che le massacrano di botte o le uccidono.

Lavorare sugli uomini sarebbe la cosa più logica da fare e a dirlo sono le statistiche. Per esempio, a Milano è stato sperimentato il “protocollo Zeus” che obbliga gli uomini segnalati per violenze a fare percorsi terapeutici e che ha portato nel capoluogo a una riduzione dei casi recidivi del 90%.
Dal 2006 è attivo il numero di pubblica utilità 1522, tra i pochi strumenti che le donne hanno per denunciare le violenze e il reato di stalking, introdotto nel 2013. Operatrici volontarie rispondono 24h su 24, tutti i giorni dell’anno, sull’intero territorio nazionale e forniscono un primo supporto a quante ne hanno bisogno, offrendo informazioni e indirizzando le vittime, quando necessario, verso i centri antiviolenza. Il numero garantisce l’assoluto anonimato e nel secondo trimestre 2020, a causa del lockdown, l’Istat ha registrato un picco: 12.942 chiamate valide e 5.606 vittime. Uno strumento sicuramente utile ma non risolutivo.
Negli ultimi anni si è parlato con maggiore frequenza di violenza sulle donne ma spesso lo si fa male e non in maniera continuativa e trasversale, quasi a voler dedicare a un tema importante ma complesso solo un giorno, il 25 novembre. Riducendo al silenzio le vittime passate, presenti e future per il resto dell’anno.

Eleonora Panseri

Articolo originariamente pubblicato su Upday news

“No è no”: cultura dello stupro e consenso

Avete mai pensato a come cambierebbe il mondo per il genere femminile (e per quello maschile) se vivessimo in una società meno permeata dalla rape culture, la “cultura dello stupro”?

Penso spesso a tutto questo e al fatto che sostituire la prevaricazione sistemica con una “cultura del consenso”, parola di cui si parla davvero spesso negli ultimi anni, sia una delle possibili soluzioni al problema. Anche se è comprensibile il fatto che non è possibile distruggere il patriarcato dal giorno alla notte – in fondo, stiamo parlando di un sistema che esiste praticamente da sempre, come ha egregiamente raccontato Simone De Beauvoir nel suo “Il secondo sesso” -, questo non deve esimerci dal credere che un cambiamento sia necessario.

Nel testo del 1993Transforming a Rape Culture”, Emilie Buchwald, Pamela Fletcher e Martha Roth definiscono la “cultura dello stupro” come

“(…) un complesso di credenze che incoraggiano l’aggressività sessuale maschile e supportano la violenza contro le donne. Questo accade in una società dove la violenza è vista come sexy e la sessualità come violenta. In una cultura dello stupro, le donne percepiscono un continuum di violenza minacciata che spazia dai commenti sessuali alle molestie fisiche fino allo stupro stesso. Una cultura dello stupro condona come “normale” il terrorismo fisico ed emotivo contro le donne. Nella cultura dello stupro sia gli uomini che le donne assumono che la violenza sessuale sia “un fatto della vita, inevitabile come la morte o le tasse”.


Credo che il concetto così esposto sia assolutamente chiaro ma alcuni esempi di situazioni dove questo tipo di prevaricazione si palesa in maniera lampante o più sottile possono aiutare a comprendere meglio quello che Buchwalk, Fletcher e Roth sono riuscite a definire.

Il femminicidio e lo stupro (o il tentato stupro) sono le manifestazioni più evidenti della violenza di tipo fisico che l’uomo esercita sulla donna. A queste si aggiungono le molestie (sì, anche il catcalling), i ricatti sessuali, lo stalking, il revenge porn (quando materiale privato viene condiviso con terzi senza che gli attori ripresi siano d’accordo per vendetta o altri motivi ad essa legati), il victim blaming (sostenere che una survivor, una vittima di uno stupro, “se la sia cercata”) ed altre forme di violenza psicologica o economica che inficiano pesantemente la libertà e la serenità delle nostre vite.

Se osserviamo attentamente i vari fenomeni elencati qui sopra notiamo come manchi in ognuno di essi un elemento essenziale: il consenso. Lo ammetto, può sembrare un parolone ma se spiegato con l’aiuto della fidata Treccani si rivela in realtà un concetto molto semplice: “il consentire che un atto si compia” e ancora “permesso, approvazione”.

Nonostante mi sembra che fin qui la questione sia abbastanza chiara, tenterò di semplificarla ulteriormente. Non so voi, ma ho avuto spesso la sensazione che l’uomo venga cresciuto, non soltanto in famiglia – sarebbe bello, bastasse questo – ma anche dalle istituzioni e dai prodotti culturali di ogni epoca, con la convinzione che la sua virilità dipenda e sia direttamente proporzionale alla quantità di “sì” che riceve. In televisione è stato passato per anni lo spot (QUI trovate la versione dell’85) di un dopobarba che recita: “per l’uomo che non deve chiedere mai”…dovrebbe bastarci questo. La donna di conseguenza, in quanto controparte maschile, si trova a dover reprimere dei “no” perché l’essere accondiscendente e, in un certo senso “sottomessa”, le farà ottenere validità agli occhi degli uomini. Quante volte vi siete sentite dare dell’“acidona” o della “suora” nel momento in cui avete negato la vostra disponibilità all’altro sesso? Le donne che dissentono, guarda un po’, sono sempre “puntigliose“, “pesanti“, “rompiscatole“. Invece loro, gli uomini, “sono fatti così”, “boys will be boys”: impossibile che cambino, “essere uomini” è la loro natura e la giustificazione a qualsiasi scorrettezza. Prima lo impariamo, meglio è.
C’è anche un altro grande classico che alimenta questo tipo di narrazione: quante volte vi è capitato di sentire che “se ti tratta male è perché le piaci” o che una ragazza che ti dice “no” magari sta solo “facendo la difficile”? Questo in molti casi porta tanti a persistere nel tentativo di “conquistare” donne che, nel pieno delle loro facoltà mentali, li hanno rifiutati chiaramente dal giorno uno.
Ora, fatte tutte queste premesse, i concetti di “cultura dello stupro” e consenso si spiegano quasi da soli.

Io non riesco più a stupirmi davanti a chi sostiene che un determinato modo di vestire può in qualche modo mandare dei segnali ambigui e che quindi, più o meno direttamente, una minigonna giustifica uno stupro. La verità è che non bisogna arrivare a tanto, il “mondo là fuori” ci fa sperimentare diversi tipi di violenza che prescindono da femminicidi e stupri ma che possono esserne al tempo stesso causa e preludio. Finché ci sarà qualcuno che definirà “complimenti” quando parliamo del disagio che proviamo nel dover sopportare occhiate, versi e commenti di ogni tipo mentre camminiamo per strada; finché ci saranno persone che chiameranno “semplici avances” le attenzioni insistenti non richieste o non ricambiate che ci vengono rivolte sul luogo di lavoro, di studio o sui social; finché un partner, occasionale o meno, ci farà pressioni per avere rapporti sessuali che non vogliamo, lo stupro o il femminicidio saranno solo la punta dell’iceberg. E se alla voce delle donne venisse dato lo stesso peso di quella degli uomini, se un “no” pronunciato da una donna venisse considerato semplicemente come un “no” (cosa che avviene quotidianamente alla controparte maschile), se le donne non venissero considerate prede da conquistare, trofei da esibire, incapaci di esprimere la propria volontà – il proprio consenso, appunto-, una cosa come il victim blaming non esisterebbe.

C’è da rivedere dunque un intero sistema e per fare questo ci vorrà molto tempo, senza dubbio. Il primo passo però è sicuramente quello che va verso una maggiore consapevolezza, nostra e degli uomini. Noi dovremmo iniziare a dire quei “no” che potrebbero farci apparire meno desiderabili: un “sì” ottenuto con la violenza, di qualsiasi tipo esso sia, non ci farà stare meglio (fidatevi, parlo per esperienza). Il coraggio e la forza necessari, quelli che servono anche a tantissime survivors, dovremmo poterli trovare, in primis, nella solidarietà femminile di cui spesso si sente parlare ma che altrettanto spesso manca. E sarebbe bello se gli uomini aprissero gli occhi sul problema, lavorassero su se stessi per iniziare ad accettare il fatto che il rifiuto non li rende “meno uomini” e capissero che “no è no” pure se a dirlo è una donna.

Eleonora Panseri

P.s. Il 25 novembre l’Istat ha pubblicato un quadro informativo integrato sulla violenza contro le donne molto interessante. Vi lascio QUI il link, se avete voglia di capire attraverso i dati quali sono le proporzioni del fenomeno in Italia.