Una damigella rapita e un eroe che combatte contro il cattivo per salvarla. Una trama che si è ripetuta per anni nel mondo dei videogiochi, come Super Mario e Donkey Kong. Ma oggi, davanti allo schermo e con le dita sul gamepad, ci sono sempre più ragazze.
«Esiste un falso mito: si pensa che il gaming sia un’attività principalmente maschile. Invece, ci sono sei milioni di appassionati di Esports e di questi il 39 per cento è donna. È una percentuale che in tante discipline sportive tradizionali non si trova», spiega Luigi Caputo, cofondatore dell’Osservatorio italiano Esports. Dal 2019, la piattaforma si occupa di ricerche dati di mercato e di formazione e informazione per le aziende che vogliono investire in questo settore.
La pandemia ha influito sull’ampliamento al femminile della fanbase e ha accentuato l’avanzamento progressivo dell’ultimo periodo. «Abbiamo passato un anno chiusi in casa. Le persone cercano di svagarsi e così anche molte donne», analizza Michela “Banshee” Sizzi, gamer professionista di Bergamo che ha disputato diversi campionati italiani a Milano. Dello stesso parere anche Miryam Saidi, 25 anni, pro-player meneghina: «I videogiochi piacciono e basta, non c’è più lo stereotipo del nerd. Con l’arrivo di grandi eventi è diventato normale che anche le donne li seguano».
Nonostante l’avvicinamento agli Esports del pubblico femminile, all’interno del mondo dei videogiochi resta palpabile la diffidenza della componente maggioritaria maschile. Un atteggiamento che spesso si esprime attraverso forme di sessismo, discriminazione e misoginia. «Su Overwatch, che è un gioco di squadra 6 vs 6, mi è capitato che i ragazzi nel mio team si accorgessero che ero donna e mi facessero perdere apposta», racconta “Banshee”, «lo stesso succede su Rainbow Six o Call of Duty, dove i compagni si rivoltano contro di te perché sei donna». «C’è molta aggressività e a volte non ti lasciano nemmeno parlare al microfono», commenta Saidi, «l’essere una ragazza è la prima cosa su cui vengo attaccata dal giocatore “medio”». Lo stesso non avviene, invece, con il gamer agonistico, che è abituato a vincere o perdere e ha una mentalità professionale.

«Quella del gaming è una community che spesso risulta tossica. Molte ragazze si nascondono dietro a pseudonimi, usano nomi maschili per giocare nelle live o scrivere nelle chat. Per una donna è difficile esprimere la sua passione per i videogiochi», spiega Fjona Cakalli, blogger, tech influencer e conduttrice della eSerie A Tim, la competizione calcistica virtuale di Fifa e Pes promossa dalla Lega Serie A.
Di origini albanesi, Cakalli si è trasferita a Milano da piccola, assieme al suo Nintendo Nes. Da allora non ha mai smesso di giocare, una passione che è cresciuta fino a diventare un lavoro. «Mi piace raccontare storie e recensire videogiochi. Mi sono proposta ad alcuni siti che parlavano di gaming ma sono stata respinta», racconta Cakalli, «mi dicevano che non ero pronta, che non ne sapevo abbastanza ma nessuno mi dava la possibilità di informarmi. Quindi, ho aperto un blog per divertirmi». L’esperimento nato nel 2011 si chiamava Games Princess. La particolarità? Era un sito di videogiochi con una gestione interamente al femminile: «Ho conosciuto ragazze che volevano scrivere. Siamo state accusate di “autoghettizzarci”, ma in realtà era un modo per proteggerci. Molte hanno utilizzato il sito come porto sicuro», afferma la blogger.
Il numero di appassionate di Esports è aumentato nell’ultimo anno ma non dal punto di vista agonistico. «Bisogna fare una distinzione tra player competitivo e streamer o content creator», analizza Luigi Caputo, «le streamer donna sono tante e anche famose. A livello competitivo, invece, ci sono molti più uomini».
A Milano, le professioniste si contano sulle dita di una mano. «Non siamo spinte a provare seriamente a diventare gamer. Molte ragazze giocano per divertimento. Ma quelle che vogliono raggiungere un obiettivo partono svantaggiate», spiega Saidi, «all’inizio anche io ho provato a cercare un team ma nessuno ha voluto farmi fare un tentativo “per non rovinare l’ambiente all’interno della squadra”».

Ma questa è solo una delle giustificazioni che impedisce alle ragazze di provare una carriera professionistica. Spesso le gamer non trovano sponsor perché il pubblico del settore non è pronto a gestire il fatto che una donna possa competere contro un uomo. Di conseguenza, nascono anche tornei divisi per genere, nonostante negli Esports non esista una differenza di prestazione fisica che, invece, potrebbe essere presente negli sport tradizionali. «È un male necessario», afferma Cakalli, «creare team femminili è un modo per puntare il faro. Partecipare a campionati per sole ragazze dà l’opportunità di farsi conoscere, per poi entrare in squadre miste». «Sono sempre stata molto contraria», ammette Saidi, «finché non li ho guardati da un punto di vista diverso. È come se si stesse cercando di normalizzare il fatto che le donne giocano agli Esports. Si cerca di introdurle facendole giocare fra di loro, per farle sentire più a loro agio».
In ambito competitivo, come in quello lavorativo della vita quotidiana, emerge la questione degli ingaggi. In Italia non si possono ancora fare bilanci sulle differenze reali di stipendi tra player maschili e femminili perché il mercato non è ancora così sviluppato e i contratti non sono ancora così remunerativi. Ma avvicinare il pubblico femminile agli eventi di Esports (e al gaming più in generale) è uno degli obiettivi di business delle aziende e degli organizzatori per ampliare la platea degli appassionati. Un esempio è quello delle fiere del videogioco, che da tempo hanno eliminato la figura delle booth babes, le ragazze in top e shorts che avevano il compito di attirare gente agli stand.
Per normalizzare il fatto che le donne si occupino di videogiochi e tecnologica si deve partire dalla formazione, soprattutto quella scolastica. «Per creare parità c’è bisogno di strategie mirate», conclude Cakalli, «a scuola cercavo di condividere con le amichette la mia passione per i videogiochi, ma mi sentivo un alieno. Avevo solo amici maschi perché con le ragazze non avevo un interesse comune. Ma le donne possono essere coinvolte già da piccole per dire loro che è normale amare i videogiochi, le scienze e la tecnologia».
Filippo Gozzo