Petto in fuori e “Tette In Su”!

Vittoria Loffi, 22 anni, di cui 6 dedicati all’attivismo. Nel 1998 nasce a Cremona, ma studia e si forma politicamente a Milano. Qualche mese fa ha conseguito una prima laurea in “Scienze Internazionali e Istituzioni Europee” con una tesi su “La disciplina dell’aborto nei paesi BRICS” (BRICS: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, ndr). Oggi frequenta un corso di magistrale in “International Studies” a Roma, milita con i Radicali Italiani in qualità di membro del Comitato Nazionale e per loro ha ideato e conduce il podcast femminista “Tette In Su!”.

IG: @vittoriacostanzalow.fi

Com’è nato “Tette In Su!” e perché?
Diciamo che è nato perché ero interessata molto non solo al femminismo intersezionale, ma ai femminismi in generale e li stavo approfondendo in modo personale, singolo. Avvicinandomi ai Radicali Italiani e alla storia di Adele Faccio (attivista politica italiana, tra le prime propugnatrici del diritto all’autodeterminazione delle donne su materie riguardanti il proprio corpo e cofondatrice del centro d’informazione sulla sterilizzazione e sull’aborto, ndr), ho cercato di proporre diverse tematiche in versione podcast.
Secondo me, mancava un’analisi contemporanea, al passo coi tempi. Per esempio, si parla sempre tanto di diritto all’aborto, di sex working, di famiglie arcobaleno e persone transgender ma spesso non viene fatta un’analisi del contenitore “femminismo”. Volevo fare una sorta di “abecedario dei femminismi” per spiegarli a me, in primis, e poi agli altri. Anche se è sempre vero che studiare qualcosa significa imparare nozioni e addentrarsi in posizioni che sono magari molto lontane dalle proprie, penso a quelle del femminismo radicale. Applicare certe teorie nella vita quotidiana diventa poi tutt’altra storia. Però, secondo me, il podcast resta ugualmente uno strumento interessante per approcciarsi alle tematiche dell’oggi, in un’ottica femminista plurale. È necessario conoscere le radici dei pensieri, delle teorie, degli studi per riuscire ad esprimersi meglio.
Il nome del podcast, “Tetteinsu”, è nato guardando la serie de “La fantastica signora Maisel” durante il primo lockdown. Le cose belle della pandemia! Per me, usare il termine “tette” in modo così esplicito è stato un modo per liberare il corpo femminile. Quando parliamo di qualcosa che lo riguarda sembra sempre sia necessario trovare un linguaggio in codice, come quando diciamo “le mie cose” per parlare di mestruazioni o usiamo vezzeggiatici per parlare della vagina.

Oggi si parla tanto di “femminismo” o, meglio, di “questioni di genere”. Pensi che del femminismo, in realtà, si conosca veramente poco? Che da un lato ci sia tutto quel mondo fatto di slogan mainstream e dall’altro quelli che pensano che le femministe siano solo le donne che odiano gli uomini e che non vogliono saperne di avere figli? C’è un po’ di confusione e il podcast può aiutare a fare chiarezza?
Quando ho iniziato con il podcast, speravo proprio di sì e continuo a sperarlo, pure pensando a tutte le puntate che sono ancora in cantiere. E tra gli scopi del progetto c’era anche la rivendicazione del termine “femminista”. Indipendentemente da quale sia il femminismo in cui una persona si rispecchia (radicale, transescludente, post-strutturalista, ecc…), la volontà era proprio quella di riappropriarsi del termine e non parlarne solo come di questioni di genere. Perché è chiaro che il femminismo parli anche di questo ma usarlo come sinonimo di femminismo non è corretto.
Anche in politica capita spesso che alcune figure femminili fondamentali, che fanno un enorme lavoro in Parlamento, rifuggono il termine “femminismo”. “Perché?”, mi chiedo. Non c’è una motivazione specifica. Effettivamente nell’opinione pubblica c’è una visione stereotipata della femminista che odia gli uomini e vorrebbe sradicarli dalla faccia della terra, ma la realtà è ben diversa. Basterebbe uno sforzo in più per capirlo e il podcast voleva anche fare questo, proporre degli spunti di approfondimento.
Penso a Lorenzo Gasparrini che dice che dovremmo essere tutti femministi, riprendendo Chimamanda Ngozi Adichie. Credo sia bellissimo che lo faccia in quanto uomo e che usi proprio il termine “femminista” per sdoganarlo. Parlare semplicemente di “questioni di genere” significa, secondo me, voler negare un contenitore politico che invece è rivendicabile come è oggi definirsi “ambientalista”. L’uso del termine “femminista” dovrebbe dare subito l’idea di un insieme più ampio, “vario ed eventuale” dove ci sono tante posizioni e dove c’è anche il conflitto.
Quello che mi ha stupito in questi ultimi mesi è che, parlando del ddl Zan, si è dato per scontato che all’interno del movimento ci fosse la necessità di essere tutt* d’accordo e che il fatto che alcune femministe non lo fossero sia stato indicato come un disvalore. Una situazione che è stata sfruttata per dire: “Ecco, le donne non riescono ad andare d’accordo tra loro”, ma non è così. Le donne hanno avuto un lasso di tempo troppo ristretto per sviluppare un’ideologia unitaria ed è ovvio che ci sia uno scontro tra femministe che, per me, è comunque positivo.
Usare l’alternativa “questioni di genere” significa ridurre oggi il femminismo al rapporto uomo/donna ma è un rifiuto che nega una storia. Questo non significa che tutte le donne debbano essere femministe, ma riconoscere che una politica di genere è una politica che fa del femminismo.

A proposito di questo, perché ci sono tante persone che in qualche modo temono il femminismo, che dicono: “va bene, appoggio certe battaglie, ma non mi definisco femminista”? Cos’è che spaventa tanto?
Secondo me, la questione centrale è il tema del privilegio. Questa tematica c’è da sempre e bisogna anche vedere l’ottica dalla quale guardarla. Se una persona guarda il privilegio con un “occhio intersezionale” vedrà che nessuno gli sta chiedendo di assumersi una colpa. Questa cosa, secondo me, non è chiara.
Anche io sono una privilegiata: sono bianca, cisgender ed eterosessuale. Non sono privilegiata in quanto donna, ma per tutti gli altri fattori che compongono la mia identità. Questo privilegio però non lo sento come una colpa, ho imparato che va riconosciuto e compreso. La richiesta è prenderne atto, venirne a conoscenza.
Il discorso è chiaramente molto complesso perché la nostra identità è fatta di tanti fattori: orientamento sessuale, identità di genere, etnia, status sociale, ecc… Questi fattori si intersecano e ci fanno assumere una posizione all’interno di una società strutturata. In questo senso, chiedere a una donna di prendere coscienza del suo privilegio è più difficile rispetto al chiederlo ad un uomo perché, se storicamente esiste lo “scontro” uomo/donna, nel momento in cui le altre identità, le altre voci emergono, si chiede anche alla donna bianca, cisgender, etero di ridurre il proprio privilegio davanti a una donna nera, disabile o transgender. E il fatto che ci sia questa richiesta mette la prima in difficoltà. La reazione spesso è: “Ma anche io sono donna!”, quando non si capisce il valore dell’intersezionalità.
Su questo argomento è interessante il discorso che fa Nancy Fraser (filosofa e teorica femminista statunitense, ndr) sul femminismo che si è concentrato sull’abbattimento del famoso “soffitto di cristallo”. Fraser fa notare giustamente che non tutte le donne aspirano a diventare Ceo e si chiede: “Queste allora non sono soggetti validi di rivendicazione?”. Fa un’accusa parziale al femminismo liberale, quella di essersi dimenticato in parte dei problemi quotidiani delle donne. Questa è una conseguenza del non capire che tutt* partiamo da una condizione di privilegio rispetto al modo in cui la società ha sviluppato i concetti di “adeguato” e “non adeguato”. Si chiede semplicemente di prenderne atto per lavorare in un’ottica non negativa, ma propositiva. Rispetto agli uomini stessi, è giusto tentare di dialogare da pari. Anche se farlo è anche un talento. È chiaro che non sempre si riesce ma ci dovrebbe essere uno sforzo in questo senso.   

Rimanendo sempre sul tema del “prendere coscienza”, possiamo inserire in questo discorso anche “not all men”, “non tutti gli uomini? Possiamo dire che le donne devono prendere coscienza all’interno del movimento, ma che c’è la necessità che questo lavoro lo facciamo anche gli uomini?
Assolutamente! Secondo me, dire la famosa frase “non tutti gli uomini” è già un manifestare un privilegio, quello dell’estraniarsi da determinate dinamiche sbagliate, negative e tossiche, come quella del revenge porn, così che nessuno te ne venga a chiedere conto o che ti si richieda una maggiore partecipazione. Un uomo dovrebbe dire: “Sono in una posizione in cui la mia possibilità di essere ascoltato è maggiore, soprattutto dai miei “pari”, dal contraltare maschile” e fare lo sforzo non tanto di essere femminista, quanto piuttosto di rifiutare determinate dinamiche che hanno a che fare, banalmente, con la civiltà. Quando si parla di “cultura dello stupro”, non ci si riferisce semplicemente all’atto di stuprare concretamente una donna: la “rape culture” passa attraverso tutta una serie di pratiche sulle quali un uomo potrebbe e dovrebbe far sentire la propria voce. Per esempio, se un amico mostra una foto di nudo della propria compagna, l’uomo dovrebbe dire: “Ma che stai facendo?”.
Alla frase “non tutti gli uomini”, una donna può rispondere: “Sì, però tutte le donne…” perché ognuna di noi ha sperimentato certe dinamiche, dal catcalling, le battute sessiste, alla violenza sessuale vera e propria. Per gli uomini lo sforzo dovrebbe essere quello di fare attivamente qualcosa. Che non significa necessariamente diventare un attivista, ma quanto meno cercare di frenare il più possibile questi comportamenti, almeno con la cerchia di persone più vicine, parenti e amici.

Ultima domanda, un po’ utopica: se fossimo tutti fossimo femministi, come dice Chimamanda Ngozi Adichie, a quel punto non avremmo più bisogno del femminismo. Secondo te, che mondo sarebbe se effettivamente riuscissimo a raggiungere questo traguardo?
Allora, partiamo col dire che la maggior parte dei teorici che ho studiato dice che la disuguaglianza non si può eliminare del tutto, può essere ridotta soltanto al “minimo accettabile”. Se partiamo da questo presupposto, anche se fossimo tutti femministi, probabilmente le disuguaglianze non verrebbero completamente sradicate. La cosa importante però è organizzarsi collettivamente per cercare una risposta forse non efficace al 100%, ma utile per limitare la disuguaglianza. Oggi questo tentativo quasi non esiste perché quando si prova a farlo c’è sempre una gran discutere, in ogni ambito. Prendiamo di nuovo come esempio il ddl Zan, intorno al quale si sarebbe potuto costruire un bel confronto e invece si è finiti a fare un discorso fazioso.
A me piacerebbe tanto vedere quest’utopia realizzata, anche se ci sarebbero appunto nuove forme di disuguaglianza. Non è facile riuscire a essere empatici a sufficienza per riconoscere le difficoltà dell’altro e ascoltare le sue istanze di riconoscimento. Dipende pure di che tipo di femminismo si parla perché, come abbiamo già detto, sono tanti e c’è una pluralità di opinioni che divergono, che propongono soluzioni diverse. Le istanze delle sex workers, per esempio, riceverebbero, a seconda dei vari femminismi, delle risposte diverse.  Ma, se lo fossimo veramente tutti quanti, forse troveremmo dei meccanismi che renderebbero la risposta alla disuguaglianza immediata. E questa rimane sicuramente una speranza.

Potete trovare il podcast sul sito dei Radicali Italiani, su Spotify, Google Podcast, Apple Podcast e sulle principali piattaforme di streaming audio!

Eleonora Panseri