Papa Francesco nomina tre donne al dicastero per i Vescovi: è la prima volta

Papa Francesco ha nominato tre donne al Dicastero per i vescovi: sono suor Raffaella Petrini, suor Yvonne Reungoat e Maria Lia Zervino.

Il Dicastero per i vescovi è l’organo vaticano che si occupa del processo di selezione dei pastori che andranno a guidare le diocesi, proponendo al Pontefice per ogni sede una terna di candidati (che il Papa è però libero di rifiutare).

Suor Raffaella Petrini è dal 2021 la segretaria generale (e quindi numero due) del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, l’organo di potere esecutivo della città-stato. Suor Yvonne Reungoat è stata superiora generale delle Figlie di Maria Ausiliatrice, mentre Maria Lia Zervino è presidente dell’Unione Mondiale delle Organizzazioni Femminili Cattoliche. La loro nomina fra i membri, fino ad oggi tutti uomini, del Dicastero guidato dal cardinale Marc Ouellet era stata anticipata dal Pontefice nel corso di un’intervista alla Reuters.

La presenza di donne in Vaticano

«Io sono aperto che si dia l’occasione», ha affermato il Papa rispondendo a una domanda del giornalista Philip Pullella sulla presenza femminile in Vaticano. «Oggi il Governatorato ha una vice governatrice», ha aggiunto, facendo riferimento proprio a suor Petrini. «Adesso, nella Congregazione dei Vescovi, nella commissione per eleggere i vescovi, andranno due donne per la prima volta. Un po’ si apre in questo modo».

Negli ultimi anni, Bergoglio ha nominato diverse donne in ruoli di governo e responsabilità, che spesso in precedenza erano stati ricoperti solo da uomini. Oltre a Petrini, anche altre religiose occupano posti importanti in dicasteri vaticani: l’economista suor Alessandra Smerilli è segretaria, e quindi numero due, del Dicastero per lo sviluppo umano integrale, mentre suor Carmen Ros Nortes è sottosegretaria al Dicastero per i religiosi. E la francese suor Nathalie Becquart è sottosegretaria del Sinodo dei vescovi: un ruolo che da regolamento la porterebbe ad essere la prima donna a poter votare sul documento conclusivo del Sinodo, l’assemblea che raduna vescovi da tutto il mondo ogni tre anni per discutere di questioni importanti per la vita della Chiesa universale.

Durante il pontificato di Francesco è anche aumentata la presenza di donne laiche all’interno delle istituzioni vaticane: ci sono ad esempio Francesca Di Giovanni, sottosegretaria per il Settore multilaterale della Sezione per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato e le Organizzazioni Internazionali o le sottosegretarie al Dicastero per i laici, famiglia e vita Linda Ghisoni e Gabriella Gambino. Ma anche la direttrice dei Musei Vaticani Barbara Jatta, la professoressa Emilce Cuda che è segretaria della Pontificia commissione per l’America Latina, la direttrice della Direzione teologico-pastorale del Dicastero per la comunicazione Nataša Govekar e Cristiane Murray, vicedirettrice della Sala Stampa della Santa Sede.

Praedicate Evangelium e il ruolo delle donne

Dal 5 giugno è in vigore la nuova Costituzione apostolica sulla Curia romana Praedicate Evangelium, punto di arrivo del lavoro di riforma degli organismi della Santa Sede. Uno dei principi fondamentali contenuti in Praedicate Evangelium è il coinvolgimento anche di laici e laiche nei ruoli di governo della Curia romana. Rispondendo su questo punto specifico a una domanda di Pullella, il Papa ha sottolineato che in futuro come prefetti di alcuni dicasteri (che di solito sono guidati da cardinali) potrebbero essere nominati uomini o donne laiche e ha fatto come esempi quello del Dicastero per i laici, famiglia e vita o quello per la cultura e l’educazione.

Le reazioni delle donne cattoliche

«È una cosa importante e ne sono felice», è stato il commento della teologa e femminista americana Natalia Imperatori-Lee sulla futura nomina al Dicastero dei vescovi. «Ma – ha aggiunto – rimane scoraggiante la sensazione di dover celebrare il minimo cenno alla nostra partecipazione paritaria in questa chiesa. Due donne. Due». (Nell’intervista a Reuters il Papa aveva parlato di due donne e non tre, ndr).

Sul fronte italiano, l’associazione Donne per la chiesa ha accolto la notizia in maniera meno calorosa: «Non sono le nomine di singole donne a scardinare un sistema clericale maschile».

Francesco si è più volte detto contrario alla possibilità di ammettere le donne al sacerdozio. Nel 2020 il Papa ha costituito una seconda commissione di studio sul diaconato femminile: i lavori di una prima commissione, incaricata di studiare le forme in cui le donne ricoprivano questo ministero oggi riservato agli uomini nella Chiesa primitiva, avevano secondo il Pontefice portato a un “risultato parziale”. Mentre nel 2021, Francesco ha aperto le porte dei ministeri laicali – dunque non parte dell’Ordine sacro, come è invece il diaconato – del lettorato e dell’accolitato.

Maria Tornelli
(IG: @torn.maria)

Senza “Roe v. Wade” l’indice di mortalità materna è destinato a crescere

Dopo la revoca del diritto all’aborto negli Stati Uniti, le morti legate alle gravidanze sono sicuramente destinate ad aumentare, specialmente tra le persone appartenenti alle minoranze, secondo gli esperti, che raccomandano azioni urgenti per proteggere i diritti riproduttivi e la salute delle pazienti nel Paese.

Come riportato dal Guardian, che ha intervistato Rachel Hardeman, professoressa di salute riproduttiva egualitaria e ricercatrice alla University of Minnesota School of Public Health, ci saranno molte più persone che verranno costrette a portare a termine una gravidanza, e questo significa che aumenterà anche il numero di quelle a rischio. “Più gravidanze significano anche più morti materne“, ha osservato la professoressa.

I divieti statali che verranno approvati nelle prossime settimane faranno registrare un aumento di 75.000 parti all’anno. E questi avranno effetto in maniera sproporzionata soprattutto sulle persone più giovani, più povere, su quante hanno già dei figli e sulle donne appartenenti a minoranze.

Ma gli Stati Uniti è un paese dove è estremamente difficile essere una donna incinta, con il più alto tasso di mortalità tra i Paesi sviluppati, che negli ultimi anni è anche rapidamente aumentato. Per ogni 100.000 nascite, quasi 24 persone sono morte a causa della gravidanza o per altre complicanze legate al parto nel 2020, per un totale di 861 donne, secondo il US Centres for Disease Control and Prevention (CDC).

A seguito della decisione della Corte Suprema di ribaltare la “Roe v. Wade“, c’è anche chi, come l’ex vicepresidente USA Mike Pence, un divieto a livello nazionale, ma questo determinerebbe un aumento del 21% della mortalità legata alle gravidanze in tutto il Paese, ma sarebbe ancora peggiore per le donne nere, indigene e latine: il dato che le riguarda salirebbe al 33%, secondo uno studio condotto dall’University of Colorado Boulder.

Secondo la professoressa Hardeman, infatti, “il fatto che le donne delle comunità nere, indigene e latine saranno maggiormente colpite dal mancato accesso all’aborto farà crescere ancora di più il gap razziale nella mortalità materna che già esiste negli Stati Uniti”. Le persone incinte appartenenti alle minoranze sono state a lungo marginalizzate e trascurate dal sistema sanitario, e hanno spesso sperimentato razzismo e discriminazione a tutti i livelli.

Gli stati che hanno vietato o applicato restrizioni registrano alcuni dei più alti tassi di mortalità legati a gravidanza e parto, così come i più alti tassi di mortalità infantile. Il Mississippi, per esempio, dove ha avuto origine il caso Roe versus Wade, ha un tasso di mortalità materna due volte superiore a quello del resto del Paese e il più alto tasso di mortalità infantile.

E mentre la metà del Paese è in procinto di vietare l’aborto, altri Stati e città hanno lavorato per garantire questo diritto, anche alle pazienti non residenti. Ma restano comunque limitazioni importanti per raggiungere questi luoghi sicuri. Molte persone delle comunità marginalizzate che devono ogni giorno affrontare barriere sistemiche per avere accesso al sistema sanitario potrebbero non avere gli strumenti, le risorse, il denaro e il tempo per poter abbandonare il lavoro o la cura di casa e figli per viaggiare in un altro Stato e ricevere le cure di cui avrebbe bisogno.

Articolo originariamente pubblicato su theguardian.com
Traduzione di Eleonora Panseri

La decisione della Corte Suprema ci insegna una grande lezione: mai dare per scontati i diritti che altr* hanno conquistato per noi

Da alcune ore continuo a ricevere mail da parte di associazioni pro-choice e pro-aborto statunitensi che chiedono aiuto. È un’enorme macchina, quella che le attiviste del Paese in poche ore hanno messo in moto, ma già mesi fa stavano pensando a come organizzarsi nel caso in cui la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America avesse deciso di ribaltare la “Roe v. Wade“, la sentenza del 1973 che quasi 50 anni fa aveva riconosciuto l’aborto come diritto federale, basandosi su un’interpretazione del XIV emendamento della Costituzione. Non solo a maggio, quando era stata diffusa la bozza di sentenza, ma anche in momenti precedenti le attiviste avevano pensato a tutte le possibili soluzioni che contenessero i danni di questa catastrofe giuridica.

Negli scorsi mesi, una sentenza così sembrava un’eventualità, seppur terribile, che ancora si poteva evitare. Oggi, purtroppo, è divenuta una triste realtà. Da questo momento ai singoli Stati spetterà legiferare in materia di aborto e molti di questi, mesi fa, hanno approvato le tristemente note “trigger laws“, ovvero leggi che sarebbero entrate in vigore soltanto se la Corte avesse deciso come poi ha effettivamente fatto. Leggi che ostacoleranno in tutti i modi chi avrà la necessità di interrompere una gravidanza e che criminalizzeranno l’aborto, facendo rischiare a chi cercherà di aiutare queste donne multe e anni di prigione. Tra quelli che già erano pronti a negare questo diritto e quelli che lo faranno a breve dovrebbero essere circa 25 su 50 gli Stati, quasi tutti a trazione repubblicana, che renderanno l’aborto illegale. In alcuni, abortire diventerà impossibile anche in caso di stupro o incesto.

Molti governatori dei restanti 25, soprattutto democratici, hanno già fatto sapere che si muoveranno per tutelare ulteriormente il diritto all’aborto nelle loro giurisdizioni. Ma la decisione della Corte Suprema penalizzerà inevitabilmente, anche se non esclusivamente, le donne che risiedono negli Stati dove sarà illegale interrompere una gravidanza, soprattutto quelle che non hanno le possibilità economiche per recarsi laddove invece i loro diritti verrebbero rispettati. Il rischio che dilaghino gli aborti illegali c’è, questa potrebbe essere l’alba di una strage perché, come mi ha detto un’attivista statunitense che ho intervistato qualche tempo fa, “chi avrà bisogno di abortire, non smetterà mai di cercare un modo per farlo”. La depenalizzazione dell’interruzione di gravidanza, al contrario, garantisce non solo il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione delle donne, ma anche del rispetto della loro salute riproduttiva.

Dagli anni ’70 a oggi la vita di molte donne è cambiata, possiamo dire in meglio. Ci sono tante, troppe cose che ancora non vanno, dobbiamo però riconoscere che alcuni traguardi sono stati raggiunti. Ma la grande lezione che abbiamo da imparare dalla sentenza “Dobbs v. Jackson” è che purtroppo non possiamo e non dobbiamo darli per scontati. Non possiamo e non dobbiamo dimenticare che prima di noi qualcun* ha lottato, e in alcuni casi è anche mort*, per consentirci oggi di fare cose che per queste persone erano impensabili, immorali o illegali. Non possiamo e non dobbiamo dimenticare che in molte parti del mondo c’è ancora chi combatte per andare a scuola e lavorare o per non doversi coprire integralmente, come sta succedendo alle nostre sorelle in Afghanistan, che il mondo sembra aver dimenticato. Non possiamo e non dobbiamo dimenticare che ci sarà sempre qualcuno che vorrà negarci dei diritti, perché una società patriarcale si nutre di violenza, di esclusione, di prevaricazione, di ingiustizia e prospera solo in presenza di queste.

Credo fermamente nella possibilità di ogni individuo di autodeterminarsi: di cambiare idea, di trovare una soluzione a eventuali errori commessi, di non dover subire quelli fatti da altri. Dobbiamo lasciare alle persone il diritto di scegliere, a patto che questo non leda il resto della comunità. Io non so se mai abortirò e probabilmente avrei la risposta solo trovandomi nella condizione di doverlo fare o meno. Ma a oggi non posso pensare che una democrazia costringa un individuo vivente a dover compiere un passo, quello della maternità, che per tante ragioni non è pronto o non vuole fare. Non posso pensare che uno Stato intenda tutelare una potenziale vita, distruggendone milioni di altre.

Eleonora Panseri

Ai figli anche il cognome della madre: la Corte costituzionale abolisce l’attribuzione automatica di quello paterno

D’ora in avanti i figli porteranno entrambi i cognomi dei genitori (a meno che siano gli stessi, di comune accordo, a decidere il contrario). Lo ha deciso il 27 aprile la Corte Costituzionale con una sentenza storica, dove si legge che la regola che attribuisce automaticamente il cognome del padre è “discriminatoria e lesiva dell’identità del figlio”.

Più nello specifico, la Corte si è pronunciata sulla norma che non consentiva ai genitori, di comune accordo, di attribuire al figlio il solo cognome della madre e su quella che, in mancanza di accordo, imponeva il solo cognome del padre, anziché quello di entrambi i genitori.

L’Ufficio comunicazione e stampa della Consulta ha fatto sapere, in attesa del deposito della sentenza, che le norme censurate sono state dichiarate illegittime per contrasto con gli articoli 2, 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli articoli 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

A portare la questione davanti alla Consulta sono stati due avvocati, Domenico Pittella e Giampaolo Brienza. “La storia parte da lontano”, ha spiegato Pittella a Skytg14. “La coppia (protagonista del caso, ndr), ancora non sposata, ha due figli riconosciuti solo successivamente dal padre e che quindi portano il solo cognome della madre. Dopo alcuni anni i due decidono di sposarsi, il papà riconosce i figli ma la coppia chiede di non aggiungere ai ragazzi, oramai cresciuti, il cognome del padre”. La situazione si fa problematica con l’arrivo del terzo figlio: “I genitori chiedono, per un principio di armonia e omogeneità, di poter dare il solo cognome materno”, prosegue Pittella, “una richiesta fino ad oggi non consentita dalla legge“.

I due però non si sono dati per vinti e, grazie alla loro determinazione, si è arrivati alla decisione della Consulta. “Una grande soddisfazione. La coppia che ha intrapreso questo complesso e faticoso iter giudiziario mi ha chiamato poco fa: sono commossi e consapevoli di avere scritto una pagina storica, loro ci hanno sempre creduto”, ha detto Pittella all’ANSA, dopo aver appreso la notizia.

La decisione, che ha ricevuto il plauso della classe politica e della società civile, arriva però in ritardo rispetto a quasi tutti gli altri Paesi europei. Le leggi degli altri Stati, infatti, in forme diverse, riconoscono la libertà ai genitori di attribuire ai propri figli il cognome paterno, materno o quello di entrambi.

In Francia e in Belgio, ad esempio, senza un accordo tra i genitori, si assegnano entrambi i cognomi in ordine alfabetico, mentre in Portogallo i genitori sono liberi di scegliere quale e quanti cognomi mettere, fino a un massimo di quattro. Nel Regno Unito, un caso curioso, i genitori possono attribuire anche un cognome diverso dai propri. Ma il caso più virtuoso è sicuramente quello della Spagna, dove esiste l’obbligatorietà nell’attribuzione di entrambi i cognomi. I genitori sono liberi soltanto di scegliere in quale ordine vadano posti.

Eleonora Panseri

Oscar 2022: uno schiaffo che spiega come a Hollywood regni (ancora) una cultura patriarcale

È passata ormai qualche settimana dalla 94esima edizione degli Oscar e dopo il susseguirsi di commenti a caldo sui vincitori e le polemiche a seguito dell’accaduto durante la serata, cosa ci rimane di questi Academy Awards 2022?

Una serata all’insegna del lusso, dello sfarzo e del politicamente corretto, una patina che ha reso questa edizione estemporanea, dato il momento storico che stiamo vivendo – neanche un cenno agli avvenimenti in Ucraina, se non per qualche sporadica spilla azzurro-gialla appuntata su qualche bavero della giacca, per non parlare della totale assenza di mascherina (è proprio vero: il Covid, come dicono in molti, è finito, malgrado la risalita di contagi e la scoperta di nuove varianti).

Ma veniamo al dunque, ciò che ha fatto più discutere in queste settimane: Will Smith, in lizza per il premio Best Actor in a Leading Role, sale sul palco e di fronte a una platea a metà tra il divertito e lo sbigottito dà uno schiaffo all’attore comico Chris Rock, dopo che quest’ultimo ha fatto una battuta sull’aspetto fisico della moglie di Smith, Pinkett Smith, paragonandola alla protagonista di GI Jane (per chi non avesse visto il film, la protagonista interpretata da Demi Moore si rasa i capelli). Aspetto fisico che a dire di Chris Rock dovrebbe essere similare a quello di Pinkett Smith, affetta da alopecia.

In molti si sono schierati a favore del gesto di Smith, definendolo “obbligato” per difendere la moglie dal commento offensivo di Rock. Smith stesso durante il discorso di ringraziamento, dopo aver ritirato il premio per miglior attore, si scusa dicendo: “Love makes you do crazy things”. L’amore fa fare pazzie, appunto. Ma è forse proprio questo il punto? Si può considerare un atto di violenza come un dettato dall’amore, per l’amore?
Molte parole sono state spese in suo favore. Secondo molti stava semplicemente difendendo la moglie e, in fondo, Chris Rock se l’è meritato. Ma è proprio così? Lo schiaffo che è stato dato non è forse, invece, espressione di una cultura patriarcale e machista?

Innanzitutto, il gesto di Smith è simbolo di come ancora oggi la violenza sia strettamente correlata al concetto di uomo e di essere uomo: un uomo deve essere forte, fisicamente e non solo a parole, per sapersi e saper difendere.
Che cosa? Il proprio onore, l’onore della propria moglie e della propria famiglia – sì, suona proprio come un detto di altri tempi, eppure eccoci qui a parlarne. Come se Pinkett Smith non fosse perfettamente in grado di sapersi difendere dalle parole ignoranti e ottuse di un altro uomo, che pensa di poter fare della sua condizione – e di tante altre persone – oggetto di ridicolo.
Pinkett Smith è stata così privata della possibilità di difendersi e di esprimere sé stessa in una situazione che la riguardava direttamente. Non solo, nella propria dimostrazione di mascolinità tossica, Smith si è totalmente dimenticato di voltarsi verso sua moglie e chiederle come stesse in quel momento. Una totale mancanza di empatia verso una persona che viene derisa per la propria condizione fisica, e che si suppone sia da te amata e rispettata.

A questo, possiamo aggiungere la correlazione tra atto violento e amore: lo schiaffo come dimostrazione dell’amore che Smith prova per la moglie. Una giustificazione che troppo spesso ormai sentiamo e vediamo quasi ogni giorno sui titoli di giornali e telegiornali. Un uomo che pazzo d’amore agisce in modo violento. Giustificare lo schiaffo a Chris Rock come una pazzia dettata dall’amore non fa altro che avvallare una cultura patriarcale e machista, dove si giustifica la violenza – per fortuna questa volta non nei confronti di una donna, ma scusanti di questo tipo utilizzate nei titoli di giornali e nei commenti di molti che la pensano così se ne potrebbero elencare a bizzeffe.

Soffermiamoci, però, anche sulla battuta “comica” di Chris Rock: paragonare Pinkett Smith, affetta da alopecia, alla protagonista di GI Jane non è altro che la dimostrazione di come, ancora, la nostra società sia fortemente condizionata dal patriarcato. Una persona che per fare della comicità deride pubblicamente la condizione fisica – ma potrebbe anche essere la razza, la condizione sociale, l’orientamento sessuale, e via dicendo – di un’altra, sminuendola di fronte ad altri e sottolineando la condizione di “diversità” rispetto alla massa. Non è forse la cara e vecchia retorica del “prendersela con il più debole”?

Cosa ci rimane, quindi, di questi Academy Awards? Un senso di amaro in bocca e il pensiero che molto ci sia ancora da fare. Specialmente in un mondo, quello del cinema e dello spettacolo, dove sono ancora gli uomini a farla da padrone. Basta considerare che, escluse le categorie per cui sono nominati solo gli uomini (ad esempio miglior attore), le donne rappresentano in media il 14% delle nomination in tutte le altre categorie aperte a entrambi i sessi. Un altro esempio: il premio per miglior regista, il più prestigioso, quest’anno è andato a Jane Campion per Il potere del cane, una “mosca bianca” se consideriamo che la categoria è aperta ad entrambi i sessi e dal 1929 ad oggi, delle 449 nomination per miglior regista, solo due premi sono stati consegnati a delle donne – Kathryn Bigelow nel 2010 per il film The Hurt Locker e Chloé Zhao nel 2021 per il film Nomadland.
Nella storia degli Academy Awards solo altre quattro donne sono state nominate per questa categoria: Lina Wertmüller, la prima donna ad essere nominata a miglior regista nel 1977 per Seven Beauties; Sofia Coppola per Lost in Translation; Greta Gerwig per Lady Bird e Emerald Fennell con Promising Young Woman chiudono la (più che) breve lista. Ancora più evidente è la differenza di genere se consideriamo la categoria Miglior fotografia, dove l’unica donna ad essere mai stata nominata è stata Rachel Morrison nel 2018 per il suo lavoro su Mudbound.

Disparità di genere che non è limitata solo al cinema d’oltreoceano, ma anzi, è ben presente anche nel Vecchio Continente: un recente studio attesta che nel settore audiovisivo europeo la percentuale di donne registe si attesta solo al 23%. Tra il 2016 e il 2020 la percentuale di donne direttrici della fotografia è al 10%, mentre quella delle compositrici solo al 9%, afferma l’Osservatorio audiovisivo europeo. Nello stesso periodo, solo il 33% di donne è tra i produttori e un 17% tra gli sceneggiatori. Dati che uniti alle considerazioni fatte in precedenza, fanno pensare a come il mondo dell’audiovisivo sia pervaso da una cultura fortemente improntata al patriarcato – come dimenticare anche il caso Harvey Weinstein – e dove la disparità di genere è all’ordine del giorno.

Verrebbe da domandarsi: cosa sarebbe successo se a fare la battuta comica fosse stata una donna riferendosi a un uomo?. Ne sarebbe scaturito uno
schiaffo? Probabilmente no, forse non saremmo qui a parlarne. La strada da percorrere è sicuramente lunga, per ora possiamo perlomeno fare i complimenti a Jane Campion.

Sara Mandelli

Cosa ci ha lasciato questo 8 marzo

Un’altra Giornata internazionale dei diritti delle donne è passata e come ogni anno necessita forse di qualche momento di riflessione. Purtroppo, anche l’8 marzo 2022 è stato viziato dalla solita zuccherosa retorica “rosa”, ormai trita e ritrita. In occasione di questa ricorrenza, così importante per alcun* e così redditizia per altr*, viene profuso un impegno incredibile nel produrre un florilegio di spot, manifesti, iniziative e simili che posizionano le donne su un piedistallo dal quale vengono automaticamente spinte giù nei restanti 364 giorni dell’anno.

Come avviene anche per il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne (ricordiamo che dall’inizio del 2022 ne sono state uccise 13, l’anno scorso sono state 119), i toni usati prevalentemente sono quelli, da un lato, della “specie protetta da difendere” (le donne, per esempio, si trasformano in fiori da curare), dall’altro, delle “wonder womaninvincibili. A queste, e qui cito, “magnifiche creature” viene ricordato il loro ruolo di madri, sorelle, compagne e amiche e ci si chiede: “Che mondo sarebbe senza le donne?“.

Non abbiamo la risposta a questa domanda. Invece sappiamo bene qual è la situazione di un mondo dove le donne esistono. Secondo Eurostat, nel 2021 la retribuzione oraria delle donne europee è stata del 13% inferiore rispetto a quella dei colleghi uomini. E nello stesso anno, come si legge in un articolo de La Stampa, in Italia è stata uccisa una donna ogni 72 ore. Nel 2020 invece, secondo un’indagine condotta da Save the Children su adolescenti tra i 14 e i 18 anni, il 70% delle ragazze intervistate dichiarava di aver subito molestie nei luoghi pubblici e apprezzamenti sessuali e il 64% raccontava di essersi sentita a disagio per commenti o avance da parte di un adulto di riferimento. Nel Rapporto Donne Manageritalia 2020, poi, si legge che le donne in posizione dirigenziale erano, solo due anni fa, il 18,3% del totale, poco meno di 1 su 5. Un dato che, tuttavia, non stupisce se, nello stesso anno, le donne italiane svolgevano 5 ore e 5 minuti di lavoro non retribuito di assistenza e cura al giorno (gli uomini un’ora e 8 minuti), il 74% del totale. Ed è forse anche per questo che il 21% delle donne in età lavorativa dichiarava di non essere disponibile o di non ricercare lavoro attivamente proprio a causa dell’impegno totalizzante che la cura della casa, di bambini e anziani richiede loro.

Di fronte a questo quadro decisamente desolante (meno male che siamo nel XXI secolo, dicono alcuni), celebrare i successi delle donne non è forse così sbagliato, anzi. Farlo regalando la mimosa, poi, è senza dubbio un gesto da apprezzare. Sarebbe però ancora più bello se chi ne fa dono conoscesse anche la storia di questo simbolo. Il fiore venne scelto nel secondo dopoguerra su proposta di Teresa Mattei, ex partigiana e dirigente del Partito Comunista Italiano (PCI), in prima linea per tanti anni nella lotta per i diritti delle donne. Insieme a Rita Montagnana e Teresa Noce, scelse un fiore economico, facile da trovare anche in natura, per permettere a tutte le donne di riceverlo. «La mimosa era il fiore che i partigiani regalavano alle staffette. Mi ricordava la lotta sulle montagne e poteva essere raccolto a mazzi e gratuitamente», raccontò Mattei, morta nel 2013 a 92 anni, in un’intervista. «Quando nel giorno della festa della donna vedo le ragazze con un mazzolino di mimosa penso che tutto il nostro impegno non è stato vano».

È proprio dall’impegno di Mattei e delle donne di tutto il mondo che il Women’s Day nacque molti anni prima rispetto ai fatti raccontati poco sopra. Celebrata per la prima volta negli Stati Uniti del 1909, la Giornata della donna fu all’epoca un’occasione per rivendicare il diritto di voto femminile, che in quegli anni veniva negato, e maggiori tutele sindacali. La società dei consumi l’ha poi trasformata nella festa commerciale che conosciamo oggi ma in molt* è ancora forte la consapevolezza che si tratta invece di una giornata di riflessione su quanto è stato fatto o che ancora c’è da fare, una giornata che ha un profondo significato politico.

Equo salario e riforme per una più giusta divisione tra i due sessi del lavoro di cura, tutela della maternità e, allo stesso tempo, del diritto all’aborto, sono solo alcuni dei temi sui quali anche le società occidentali più “avanzate” devono ancora fare passi avanti. E se pensiamo che nel mondo le donne sono ancora vittime di violenze fisiche, psicologiche, economiche, è davvero così strano o poco lecito chiedersi a cosa servono i grandi proclami che vengono fatti in queste occasioni?

Le mimose le accettiamo volentieri, ma anche alcuni diritti in più non sarebbero male.

Eleonora Panseri

Violenza sulle donne: perché il sistema preventivo fallisce

Juana Cecilia Hazana Loayza aveva già denunciato Mirko Genco, 24 anni, l’ex compagno che le ha tolto la vita il 19 novembre. Era stato arrestato il 5 settembre per atti persecutori e il giorno dopo scarcerato e sottoposto alla misura cautelare del divieto di avvicinamento. Ma il 10 settembre Genco era stato arrestato di nuovo per violazione della misura, violazione di domicilio e ulteriori atti vessatori, riuscendo a ottenere i domiciliari con un patteggiamento a due anni. Anche Vanessa Zappalà, 26 anni, uccisa lo scorso agosto ad Acitrezza (Catania) a colpi di pistola, aveva denunciato per stalking l’ex compagno 37enne Antonio Sciuto. L’arresto dell’uomo, però, non era mai stato convalidato.
Nella relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidi, presieduta dalla senatrice Valeria Valente, viene riportato che solo una donna su sette uccisa tra il 2017 e il 2018 aveva denunciato il proprio assassino. Ma quelle che denunciano non vengono tutelate: lo dimostrano alcune delle storie delle 109 donne assassinate dall’inizio del 2021. A questo si aggiunge il mancato sovvenzionamento dei centri antiviolenza e un ritardo culturale che non viene colmato dal sistema educativo. Dopo ogni femminicidio il solito commento è: “Qualcosa non ha funzionato”. Ma in Italia c’è più di “qualcosa” che non funziona.

“C’è un grande problema: l’assenza di professionalità tra magistrati e forze dell’ordine”, ha dichiarato il giudice Fabio Roia, presidente vicario del tribunale di Milano e componente dell’Osservatorio sulla violenza contro le donne, in un’intervista a Repubblica pubblicata martedì 23 novembre. Avviene spesso che le denunce non vengano prese in considerazione con la necessaria serietà: alcune vittime di violenza raccontano di essere state invitate dalle stesse forze dell’ordine a pensarci due volte prima di formalizzare le accuse. In più, su 118 processi arrivati a sentenza per femminicidio considerati dalla Commissione d’inchiesta istituita sul tema, solo 98 si sono conclusi con una condanna.
“È necessario che chi si occupa di questa materia sia formato su scienze complementari, dalla psicologia all’esperienza quotidiana degli operatori dei centri antiviolenza. Occirre essere in grado di comprendere il ruolo della donna nel ciclo della violenza. Le leggi che abbiamo sono buone ma non vengono applicate con competenza”, prosegue Roia. E conclude: “Dobbiamo essere in grado di proteggere le donne senza limitare la loro libertà. Le donne stanno sei mesi chiuse nelle case rifugio in attesa che i giudici decidano eventuali misure cautelari nei confronti degli uomini che le minacciano. Ma non dobbiamo sradicare dalle loro case e dal loro quotidiano, sono gli uomini che dobbiamo togliere dalla circolazione”.

Non ci sono i soldi per le attività dei centri antiviolenza. Anzi, bisognerebbe dire piuttosto che i fondi ci sono ma non arrivano a destinazione. Lo ha denunciato qualche giorno fa l’ong ActionAid nel dossier “Cronache di un’occasione mancata”, un documento che monitora il movimento dei fondi antiviolenza sul territorio nazionale. Di quelli stanziati per il 2020 solo il 2% del totale è stato effettivamente consegnato a centri e case per donne vittime di abusi (e in sole due regioni: Liguria e Umbria).
A marzo 2020, su iniziativa della ministra per le Pari Opportunità Elena Bonetti, la cifra totale ammontava a 3 milioni di euroma solo poco più di 25mila sono effettivamente arrivati ai centri (meno dell’1%). Il mese successivo, con un bando d’emergenza per gli enti che gestiscono il sistema antiviolenza, la ministra aveva chiesto 5,5 milioni di euro: soltanto 142 hanno potuto farne richiesta perché i soldi venivano distribuiti a quanti erano in grado di offrire una garanzia pari all’80% dell’importo.
A maggio poi è stato istituito il “reddito di libertà“, misura pensata per permettere alle donne vittime di violenza di essere economicamente indipendenti con un contributo massimo di 400 euro al mese per 12 mesi. L’Inps ha pubblicato la circolare per definire le modalità e i requisiti di accesso al fondo l’8 novembre. Da maggio a oggi, quindi, nemmeno un euro dei 3 milioni complessivi stanziati a Centri e Case è stato consegnato. In più, secondo un gruppo di 84 associazioni di donne che gestiscono circa 150 realtà del sistema antiviolenza (la rete D.i.Re), per sostenere tutte le donne che avrebbero bisogno del “reddito di libertà” servirebbero almeno 48 milioni.

In una nota Istat sull’andamento del mercato del lavoro nel primo trimestre del 2021 si leggeva che il 59,3% delle donne fra i 15 e i 34 anni, cioè 6 su 10, non lavora e non cerca lavoro e che le donne inattive per motivi familiari sono più di quelle inattive per studio. Quando si tratta di indipendenza economica femminile spesso si sottovaluta l’importanza che questa assume in contesti familiari violenti.
Promuovere politiche che favoriscano l’assunzione delle donne, la giusta retribuzione e servizi che consentano di ridurre il carico del lavoro di cura, da sempre ritenuto appannaggio quasi esclusivo del genere femminile, permetterebbe a buona parte delle donne di abbandonare compagni e mariti violenti dai quali però, purtroppo, sono costrette a dipendere in assenza di impiego. Situazione che si fa ancora più complessa quando sono coinvolti anche eventuali figli minorenni. La necessità di rendere le donne sempre più autonome economicamente diventa stringente se si osserva l’ultimo report della Direzione centrale anticrimine della polizia: il 36% dei femminicidi è stato commesso da mariti o conviventi delle vittime.

Il fallimento del sistema che dovrebbe prevenire le violenze deriva, forse non del tutto ma sicuramente in parte, da una prolungata assenza della società su questi temi. Dal linguaggio sessista che riempie le pagine dei giornali e i programmi televisivi, all’assenza di progetti educativi capillari negli istituti scolastici che formino i giovani sul tema. Anche nella comunicazione delle iniziative volte a sensibilizzare la popolazione si osservano carenze non indifferenti: la nuova campagna contro la violenza di genere della polizia di Catania si chiama “Aiutiamo le donne a difendersi”, come se il problema riguardasse solo le vittime e non un sistema, una mentalità che da secoli limita l‘autodeterminazione femminile. Come se la causa di questa enorme problematica sociale non fossero gli uomini che le massacrano di botte o le uccidono.

Lavorare sugli uomini sarebbe la cosa più logica da fare e a dirlo sono le statistiche. Per esempio, a Milano è stato sperimentato il “protocollo Zeus” che obbliga gli uomini segnalati per violenze a fare percorsi terapeutici e che ha portato nel capoluogo a una riduzione dei casi recidivi del 90%.
Dal 2006 è attivo il numero di pubblica utilità 1522, tra i pochi strumenti che le donne hanno per denunciare le violenze e il reato di stalking, introdotto nel 2013. Operatrici volontarie rispondono 24h su 24, tutti i giorni dell’anno, sull’intero territorio nazionale e forniscono un primo supporto a quante ne hanno bisogno, offrendo informazioni e indirizzando le vittime, quando necessario, verso i centri antiviolenza. Il numero garantisce l’assoluto anonimato e nel secondo trimestre 2020, a causa del lockdown, l’Istat ha registrato un picco: 12.942 chiamate valide e 5.606 vittime. Uno strumento sicuramente utile ma non risolutivo.
Negli ultimi anni si è parlato con maggiore frequenza di violenza sulle donne ma spesso lo si fa male e non in maniera continuativa e trasversale, quasi a voler dedicare a un tema importante ma complesso solo un giorno, il 25 novembre. Riducendo al silenzio le vittime passate, presenti e future per il resto dell’anno.

Eleonora Panseri

Articolo originariamente pubblicato su Upday news

Perché “The Last Duel” di Ridley Scott è anche un film femminista

Francia, anno domini 1386. Due uomini si sfidano a duello. Uno per difendersi da un’accusa di stupro, l’altro invece si batte per il proprio onore di marito offeso. Al centro dell’arena, posta in alto rispetto ai duellanti, una donna, Marguerite de Carrouges, osserva la scena. Inizia così il nuovo film di Ridley Scott, “The Last Duel“, uscito nelle sale italiane il 14 ottobre e tratto dall’omonimo romanzo del 2004, scritto da Eric Jager. Il noto regista de “Il gladiatore” (vincitore di ben 5 premi Oscar) non poteva che proporre al suo pubblico un film ben fatto, consigliato a chi ama quelli di genere storico-drammatico. Tuttavia, al di là delle belle riprese e della sceneggiatura avvincente, chi ha gli strumenti per notarlo si accorgerà che il vero cuore del film non è il duello riportato nel titolo, ma quella donna che, tremante e incatenata, prega che il marito Jean de Carrouges, trionfi sullo sfidante ed ex amico Jacques Le Gris. Parlare della trama potrebbe in qualche modo portare a spoiler involontari. Quindi, in questo contesto, l’analisi verrà limitata alle tematiche femministe che, più o meno volontariamente, non ci è dato sapere, Scott ha inserito nel suo film.

Dal XIV secolo a oggi possiamo dire che, fortunatamente, la condizione della donna sia migliorata. Ma tra le qualità del regista capace sta quella di saper parlare, attraverso il passato, del presente. Il film racconta la storia di una donna stuprata nel Medioevo ma che ricorda molto da vicino quella delle survivors di tutte le epoche. Infatti, Marguerite, che trova il coraggio di denunciare il suo stupratore, finisce per affrontare tutte le prove che anche una vittima di stupro contemporanea vive sulla propria pelle.

In primis, l’atteggiamento del marito che sfida a duello l’ex amico e compagno d’armi non per un affetto sincero nei confronti della moglie, ma semplicemente per senso di rivalsa e di orgoglio maschile ferito. Marguerite è per Jean un oggetto di sua proprietà sul quale lo stupratore ha impresso un marchio d’infamia: solo il duello all’ultimo sangue potrà cancellarlo e restituire all’uomo la dignità perduta per colpa della consorte. A de Carrouges non interessa la sorte della donna che, nel caso lui perdesse il duello, verrebbe bruciata viva per aver mentito, o l’impatto che questo evento traumatico può aver avuto su di lei. L’uomo vive il fatto in virtù della propria visione del mondo e di come l’evento ha influenzato la sua, di vita.

Qui si passa a un altro interessante esperimento fatto dal regista: la divisione del film in tre parti, ognuna dedicata a uno dei protagonisti, intitolata “La versione di…”. Con questa divisione Scott enfatizza il diverso modo con cui prima Jean, poi Jacques e, per ultima, Marguerite, vivono quello che accade. In ogni versione notiamo particolari che in quella precedente o successiva non erano presenti o sfuggiti allo spettatore perché trascurati dal personaggio al centro di quel momento del film. Ne “La versione di Jacques Le Gris“, l’uomo accusato di stupro pronuncia una frase con la quale fa intendere che le resistenze della donna di fronte a un rapporto sessuale non consenziente per lui fanno parte del rituale della seduzione. Il consenso non è contemplato nella scala di valori di un uomo del Medioevo ma sembra che, in ogni secolo, anche quello attuale, non lo sia nemmeno per molti nostri contemporanei. Almeno questo è quello che emerge spesso dalle storie di donne sopravvissute ad una violenza sessuale. Ogni volta la responsabilità di uno stupro risiede nell’abbigliamento della vittima o nel fatto che fosse ubriaca o drogata e solo dopo nel comportamento criminale dell’uomo.

Le prime che fanno questo tipo di allusioni spesso sono altre donne. E’ ciò che accade anche in “The Last Duel”. Dopo la denuncia di Marguerite, le poche che lei considerava amiche le voltano le spalle, sostenendo in tribunale che, quello stupro, la donna lo desiderava perché una volta aveva riconosciuto a Les Gris di essere un bell’uomo. Il “se l’è cercata” aleggia prepotentemente in ogni scena post-denuncia.

Tra le detrattrici di Marguerite, anche la madre di suo marito che racconta alla nuora di essere stata stuprata a sua volta in gioventù. Ma questo non basta a farla empatizzare con la vittima del nuovo crimine: l’anziana donna la svilisce dicendo che lei, al contrario della ragazza, ha semplicemente scelto di stringere i denti, dimenticare il fatto e continuare con la sua vita. E da questo episodio si può trarre l’insegnamento più bello della pellicola: trovare la forza per denunciare un fatto, per non rimanere in silenzio di fronte a qualcosa che, sì, la società condanna, ma per il quale ti ritiene in parte colpevole pur non essendoci da parte tua alcuna responsabilità, non è facile. Ma alzare la testa e reagire consente non solo di cambiare il proprio destino, anche se tutti credono che sia già scritto, ma pure la sorte delle donne che verranno dopo.

Un film crudo, che lascia allo spettatore sensibile a questi fatti tanti temi su cui riflettere per giorni.

Le conseguenze della pandemia sull’istruzione femminile

Le bambine che nei prossimi anni dovrebbero frequentare la scuola primaria ma che probabilmente non vi accederanno mai sono 9 milioni. Un numero tre volte superiore rispetto a quello dei coetanei maschi. A dirlo è Save the Children in un report uscito in questo mese che offre un’analisi completa delle conseguenze della pandemia di Covid-19 sull’istruzione nel mondo e in Italia. La prolungata chiusura degli istituti e le difficoltà nell’accedere alla rete Internet per seguire le lezioni a distanza potrebbe far crescere nei prossimi anni i tassi di analfabetismo e l’abbandono scolastico. Le persone analfabete nel mondo sono quasi 800 milioni, due terzi di queste sono donne. I paesi più penalizzati sono quelli dell’Asia meridionale e dell’Africa subsahariana. Un esempio: in Sud Sudan il tasso di scolarizzazione e di alfabetizzazione delle ragazze è il più basso del mondo, ogni cento maschi, solo 75 femmine sono iscritte alla scuola elementare, e meno dell’1 per cento la conclude.

La principale causa di esclusione di bambine e ragazze dal contesto scolastico è la discriminazione di genere. Nei paesi più poveri le difficoltà per accedere all’istruzione interessano in maniera indiscriminata maschi e femmine, ma se una famiglia ha la possibilità di investire sul futuro dei propri figli la scelta ricadrà sempre sui maschi. Appena raggiungono la giusta età per farlo, alle figlie femmine si impone la cura della casa e dei fratelli più piccoli. In molte realtà del mondo, infatti, specialmente in quei paesi dove gli stereotipi sessisti sono più forti, l’unico futuro possibile per le bambine è quello di mogli e madri. Quelle poche studentesse che riescono a frequentare la scuola non trovano personale docente femminile che possa in qualche modo costituire un modello per loro e la mancanza di servizi igienici adeguati le costringe a dover rinunciare alle lezioni per tutto il periodo delle mestruazioni. Anche le strade poco sicure da percorrere per tornare a casa sono un grave problema perché, se non avviene già all’interno della famiglia, le bambine rischiano di essere vittime di violenze e abusi. A tutti questi problemi spesso si aggiunge quello della guerraSecondo il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef), nei paesi interessati da conflitti armati “le bambine hanno una probabilità doppia di interrompere le lezioni rispetto alle coetanee negli Stati politicamente stabili”.

In un’indagine pubblicata l’8 marzo sempre dall’Unicef, è stato segnalato il pericolo di un aumento esponenziale a causa del Covid dei matrimoni forzati tra ragazze minorenni e uomini adulti. Si legge nel rapporto che prima della pandemia si prevedeva che le bambine costrette a sposarsi prima dei 18 anni sarebbero state più di 100 milioni in 10 anni. Oggi a queste potrebbero aggiungersene altri 10 milioni. Molte famiglie, a seguito della recessione economica, si sono trovate senza i mezzi per sostentare l’intera famiglia. Per questo, il matrimonio di una figlia, anche se minorenne, a molti sembra la scelta migliore. Per non parlare del fatto che con la chiusura delle scuole e la sospensione di molti servizi di assistenza alle famiglie le ragazze sono tornate a occuparsi, insieme alle madri, di tutta una serie di mansioni di cui gli uomini non sono in grado di occuparsi o rifiutano di farlo. A tutto questo si aggiunge, in molti paesi dove a mancare sono anche l’acqua potabile o la corrente elettrica, l’assenza della rete Internet e dei dispositivi necessari per seguire eventuali lezioni da remoto.

Impedire a una ragazza di frequentare la scuola è, in primis, la negazione di un diritto fondamentale della persona. Infatti, come si legge nel primo comma dell’articolo 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo approvata dall’ONU nel 1948, “ogni individuo ha diritto all’istruzione. L’istruzione deve essere gratuita almeno per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali. L’istruzione elementare deve essere obbligatoria. L’istruzione tecnica e professionale deve essere messa alla portata di tutti e l’istruzione superiore deve essere egualmente accessibile a tutti sulla base del merito”. In più, la promozione delle pari opportunità in ambito scolastico permetterebbe alla società di crescere e progredire nel suo insieme. Consentire alle bambine di avviare un percorso di studi che gli permetta di inserirsi in futuro nel mondo del lavoro porterebbe a un aumento della produttività, del reddito delle famiglie e, di conseguenze, alla crescita economica di un paese. L’Unicef ha anche sottolineato come spesso le donne istruite siano più attente e informate riguardo alla propria salute e a quella dei propri figli. Nei paesi dove alle ragazze è consentito studiare si è verificata una diminuzione significativa di violenze, sfruttamento, gravidanze precoci o indesiderate e di malattie come l’infezione da HIV.

Eleonora Panseri

Articolo originariamente pubblicato su news.upday.com

La rivoluzione dei videogiochi: gli Esports sempre più al femminile

Una damigella rapita e un eroe che combatte contro il cattivo per salvarla. Una trama che si è ripetuta per anni nel mondo dei videogiochi, come Super Mario e Donkey Kong. Ma oggi, davanti allo schermo e con le dita sul gamepad, ci sono sempre più ragazze.
«Esiste un falso mito: si pensa che il gaming sia un’attività principalmente maschile. Invece, ci sono sei milioni di appassionati di Esports e di questi il 39 per cento è donna. È una percentuale che in tante discipline sportive tradizionali non si trova», spiega Luigi Caputo, cofondatore dell’Osservatorio italiano Esports. Dal 2019, la piattaforma si occupa di ricerche dati di mercato e di formazione e informazione per le aziende che vogliono investire in questo settore.

La pandemia ha influito sull’ampliamento al femminile della fanbase e ha accentuato l’avanzamento progressivo dell’ultimo periodo. «Abbiamo passato un anno chiusi in casa. Le persone cercano di svagarsi e così anche molte donne», analizza Michela “Banshee” Sizzi, gamer professionista di Bergamo che ha disputato diversi campionati italiani a Milano. Dello stesso parere anche Miryam Saidi, 25 anni, pro-player meneghina: «I videogiochi piacciono e basta, non c’è più lo stereotipo del nerd. Con l’arrivo di grandi eventi è diventato normale che anche le donne li seguano».

Nonostante l’avvicinamento agli Esports del pubblico femminile, all’interno del mondo dei videogiochi resta palpabile la diffidenza della componente maggioritaria maschile. Un atteggiamento che spesso si esprime attraverso forme di sessismo, discriminazione e misoginia. «Su Overwatch, che è un gioco di squadra 6 vs 6, mi è capitato che i ragazzi nel mio team si accorgessero che ero donna e mi facessero perdere apposta», racconta “Banshee”, «lo stesso succede su Rainbow Six o Call of Duty, dove i compagni si rivoltano contro di te perché sei donna». «C’è molta aggressività e a volte non ti lasciano nemmeno parlare al microfono», commenta Saidi, «l’essere una ragazza è la prima cosa su cui vengo attaccata dal giocatore “medio”». Lo stesso non avviene, invece, con il gamer agonistico, che è abituato a vincere o perdere e ha una mentalità professionale.

«Quella del gaming è una community che spesso risulta tossica. Molte ragazze si nascondono dietro a pseudonimi, usano nomi maschili per giocare nelle live o scrivere nelle chat. Per una donna è difficile esprimere la sua passione per i videogiochi», spiega Fjona Cakalli, blogger, tech influencer e conduttrice della eSerie A Tim, la competizione calcistica virtuale di Fifa e Pes promossa dalla Lega Serie A.

Di origini albanesi, Cakalli si è trasferita a Milano da piccola, assieme al suo Nintendo Nes. Da allora non ha mai smesso di giocare, una passione che è cresciuta fino a diventare un lavoro. «Mi piace raccontare storie e recensire videogiochi. Mi sono proposta ad alcuni siti che parlavano di gaming ma sono stata respinta», racconta Cakalli, «mi dicevano che non ero pronta, che non ne sapevo abbastanza ma nessuno mi dava la possibilità di informarmi. Quindi, ho aperto un blog per divertirmi». L’esperimento nato nel 2011 si chiamava Games Princess. La particolarità? Era un sito di videogiochi con una gestione interamente al femminile: «Ho conosciuto ragazze che volevano scrivere. Siamo state accusate di “autoghettizzarci”, ma in realtà era un modo per proteggerci. Molte hanno utilizzato il sito come porto sicuro», afferma la blogger.

Il numero di appassionate di Esports è aumentato nell’ultimo anno ma non dal punto di vista agonistico. «Bisogna fare una distinzione tra player competitivo e streamer o content creator», analizza Luigi Caputo, «le streamer donna sono tante e anche famose. A livello competitivo, invece, ci sono molti più uomini».

A Milano, le professioniste si contano sulle dita di una mano. «Non siamo spinte a provare seriamente a diventare gamer. Molte ragazze giocano per divertimento. Ma quelle che vogliono raggiungere un obiettivo partono svantaggiate», spiega Saidi, «all’inizio anche io ho provato a cercare un team ma nessuno ha voluto farmi fare un tentativo “per non rovinare l’ambiente all’interno della squadra”».

Ma questa è solo una delle giustificazioni che impedisce alle ragazze di provare una carriera professionistica. Spesso le gamer non trovano sponsor perché il pubblico del settore non è pronto a gestire il fatto che una donna possa competere contro un uomo. Di conseguenza, nascono anche tornei divisi per genere, nonostante negli Esports non esista una differenza di prestazione fisica che, invece, potrebbe essere presente negli sport tradizionali. «È un male necessario», afferma Cakalli, «creare team femminili è un modo per puntare il faro. Partecipare a campionati per sole ragazze dà l’opportunità di farsi conoscere, per poi entrare in squadre miste». «Sono sempre stata molto contraria», ammette Saidi, «finché non li ho guardati da un punto di vista diverso. È come se si stesse cercando di normalizzare il fatto che le donne giocano agli Esports. Si cerca di introdurle facendole giocare fra di loro, per farle sentire più a loro agio».

In ambito competitivo, come in quello lavorativo della vita quotidiana, emerge la questione degli ingaggi. In Italia non si possono ancora fare bilanci sulle differenze reali di stipendi tra player maschili e femminili perché il mercato non è ancora così sviluppato e i contratti non sono ancora così remunerativi. Ma avvicinare il pubblico femminile agli eventi di Esports (e al gaming più in generale) è uno degli obiettivi di business delle aziende e degli organizzatori per ampliare la platea degli appassionati. Un esempio è quello delle fiere del videogioco, che da tempo hanno eliminato la figura delle booth babes, le ragazze in top e shorts che avevano il compito di attirare gente agli stand.


Per normalizzare il fatto che le donne si occupino di videogiochi e tecnologica si deve partire dalla formazione, soprattutto quella scolastica. «Per creare parità c’è bisogno di strategie mirate», conclude Cakalli, «a scuola cercavo di condividere con le amichette la mia passione per i videogiochi, ma mi sentivo un alieno. Avevo solo amici maschi perché con le ragazze non avevo un interesse comune. Ma le donne possono essere coinvolte già da piccole per dire loro che è normale amare i videogiochi, le scienze e la tecnologia».

Filippo Gozzo

Il distanziamento impossibile delle sex workers transgender

«Non disponiamo di dati precisi, ma si parla di circa 5mila persone che si prostituiscono indoor (in appartamenti, ndr) e circa 600 su strada, di cui il 50 per cento è transessuale», racconta Vincenzo Cristiano, presidente dell’associazione Ala Onlus. Il territorio meneghino è diventato così in particolare il centro della prostituzione transessuale di origine sudamericana in Italia. Perché proprio il capoluogo lombardo? «È la città con la maggiore dimensione internazionale», dichiara Cristiano, «c’è un grande via vai di uomini d’affari e turisti».

«Scappano da Paesi machisti in cui la loro sessualità non è accettata e per questo non riescono a lavorare», afferma Antonia Monopoli, attivista e responsabile dello sportello di Ala. «Lasciano la famiglia e vedono nella prostituzione l’unica via possibile di fuga». «Ricordo però anche il racconto di una ragazza trans che faceva la parrucchiera: tutte le sere si presentavano uomini che pretendevano di fare sesso con lei. Se non si fosse concessa le avrebbero distrutto il locale».
La vendita del proprio corpo come scelta quasi obbligata, ma non significa che il sex work sia necessariamente sinonimo di sfruttamento. «Spesso sono persone che arrivano nel nostro Paese consapevoli di esercitare questa professione», chiarisce Cristiano.

Ph. Ted Eytan 

A causa delle misure relative a distanziamento sociale e coprifuoco, sulle strade non si sono più viste le ragazze che erano solite lavorare outdoor. L’assenza di entrate ha reso loro difficile provvedere al sostentamento: «Per due mesi abbiamo aiutato 54 ragazze transgender con pacchi alimentari». Chi lavora in appartamento ha visto solo diminuire i propri clienti, i quali hanno continuato a rivolgersi alle sex worker nonostante l’emergenza sanitaria. «Il cliente tipo va dai 30 ai 50 anni, tendenzialmente con famiglia, per compensare una vita sessuale poco soddisfacente tra le mura domestiche», dice il presidente, «tutte le estrazioni sociali sono coinvolte, dall’operaio al manager affermato».

Inevitabili i contagi. «Un paio di sex worker sono decedute, ma a causa di patologie pregresse», chiarisce Cristiano, «paradossalmente sieropositive e tossicodipendenti non sono state più colpite della media della popolazione. Molte hanno pensato di avere una banale influenza». Magari non emarginate, ma sicuramente poco tutelate giuridicamente anche in questa situazione. Nel 1958, la senatrice Lina Merlin ha proposto e fatto approvare la legge che ha chiuso le case di tolleranza e introdotto i reati di sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione. Di ispirazione abolizionista, la normativa aveva l’obiettivo di tutelare le donne, ma di fatto impedisce il riconoscimento del sex work quale professione, «escludendo dall’erogazione di bonus e ammortizzatori sociali quelle che sono lavoratrici a tutti gli effetti. Noi di Ala Onlus ci battiamo affinché la prostituzione ottenga un riconoscimento legislativo», sostiene Cristiano.

Da sfatare il binomio fra transessualità e prostituzione: «Quando trovano un lavoro decidono di lasciare perché è un mondo in cui non si sentono serene», rivela ancora Monopoli, «in strada non mancano le violenze da parte dei clienti». E non solo.
«Riceviamo moltissime telefonate di genitori i cui figli vogliono intraprendere la transizione. Una volta la famiglia li rifiutava», aggiunge Vincenzo Cristiano, «da questo punto di vista la realtà milanese è molto più progredita di altre città». «Possiamo definire l’Italia un Paese accogliente, ma c’è ancora molto da fare», conclude Antonia Monopoli, «non mancano gli episodi di mobbing a danno delle ragazze trans che trovano un lavoro».

Chiara Barison

Regola numero uno del lockdown: non guardare vecchie serie tv

È di questi giorni la conferma dell’uscita di un sequel di Sex and the City, telefilm cult degli anni 2000: si chiamerà “And just like that…” e seguirà la vita di 3 delle quattro protagoniste della serie originaria.

Ora, qui scatta una grande domanda, e non si tratta di valutare se bannare Trump dai social media sia giusto o sia una lesione della libertà di espressione. La questione è: ci serve davvero l’ennesima serie fintamente femminista nel 2021? Non ho la soluzione universale al problema, ma di sicuro mi sono fatta un’idea, e da donna voglio condividere il mio rapporto di amore e (più recentemente) odio con questa serie per rispondere.

Ho 15 anni e sono iscritta al liceo Classico di una cittadina di provincia del Piemonte orientale che mi sta terribilmente stretta. Ho mille sogni nel cassetto e altrettante ambizioni rinchiuse nell’armadio. I fighetti vanno in giro con degli improbabili jeans Richmond con l’inequivocabile scritta RICH stampata sul sedere (non negatelo, è come la mutanda con l’elastico logato di Calvin Klein… l’abbiamo fatto tutt*.)

Il mio telefilm preferito è Sex and the City (non era ancora uscito Lost, non giudicatemi). Carrie Bradshaw, la protagonista, 30enne bionda magrissima, scrive un editoriale su “The New York Star” dove parla di sesso, cuori spezzati et similia, vive a Manhattan, ha più scarpe che fidanzati e va in giro con le stesse borse firmate che ogni tanto vedo anche nell’armadio di mia madre (e che puntualmente le rubo, scusa mamma).

Insomma il dream factor di questa serie colpisce e rapisce quell’adolescente un po’ superficiale e illusa che è in me.

Ho 31 anni, è un pomeriggio di metà novembre, affronto l’ennesimo momento di lockdown dell’anno e, tra lo scocciata e l’annoiata, accendo la tv. La rivelazione: su Sky Atlantic trovo Sex and the city, la serie completa. Emozionata, decido di iniziare una maratona della serie che ha segnato la mia adolescenza. Seleziono la prima puntata della prima serie e incomincio.

In un secondo torno nel 1998, il pilot esce il 6 giugno* ed è una serie rivoluzionaria perché per la prima volta sul piccolo schermo compare, signori e signori…la donna single! Anzi, ancora meglio.

La donna single indipendente, con un buon lavoro, che le permette addirittura di mantenersi da sola accumulando baguette di Fendi e vestiti disegnati da John Galliano. La donna single che in macchina da sola, allo sportello del drive-in, chiede “un cheeseburger, patatine grandi e un Cosmopolitan”. La donna single che osa addirittura parlare di sesso in modo disinibito, di uscire con un uomo una mezza sera, che se lo porta a letto e il mattino dopo lo restituisce al mondo, o dove l’ha trovato, dimenticandoselo per sempre. La donna che nella secolare diatriba “donna riproduttrice / produttrice” sceglie di ignorare gli istinti materni per dedicarsi alla carriera.

Tra l’altro Carrie Bradshaw è talmente moderna che lavora da casa (nel suo piccolo ma meraviglioso bilocale nel West Village, ça va sans dire) con quella bomba del suo Macbook, quando noi eravamo ancora i fedelissimi di quei pc squadrati, pesanti, brutti, di quell’orripilante grigio antracite ed è quindi antesignana dello “smartworky contiano”, passatemi il neologismo.

Ora, dimentichiamoci per un attimo di alcune incoerenze devastanti che riporterò con la stessa brutalità con cui gli autori ce le hanno sbattute in faccia all’epoca: Carrie scrive quattro righe al mese su un giornale, ma vive a Manhattan, compra scarpe da 400$ a paio (quattrocento dollari, nei primi anni 2000), frequenta locali e feste esclusive e concediamoglielo, ogni tanto ammette di avere il conto in rosso (guarda un po’!) ma continua imperterrita la sua vita scintillante, e beata lei!, mi permetto di aggiungere.

Torniamo a noi. Dicevamo: vent’anni fa è una serie innovativa. Oggi…no. Quindi il punto è: cosa non funziona oggi della serie e perché io, che mi sento fortissimamente donna, sento l’esigenza di condividere alcune questioni che mi hanno scosso.

Il problema fondamentalmente è a monte, ed è molto semplice: è scritta da un uomo, Darren Starr, e di conseguenza il punto di vista è maschile.

Le protagoniste sono tratteggiate secondo i soliti cliché: Carrie e le sue amiche sono quattro gnocche (scusate il francesismo) super perfette in tutto. Io sono una normalissima single che non cambia pettinatura ad ogni stagione (i miei capelli sono lunghi e spettinati dal 1989), che deve rinunciare all’ennesimo paio di scarpe firmate perché una persona che si mantiene da sola non si può permettere di vedere il conto in rosso, che apprezza anche le relazioni complicate per non annoiarsi troppo ma si stufa comunque di un uomo in 30 ore massimo, e che nonostante vada a correre per km da anni, inizia a intravedere i primi segni di cellulite.

Alle certezze granitiche che Carrie poeticamente scrive sul suo spazio media contrappongo insicurezze quotidiane e indovinate un po’? Neanche un terzo delle mie problematiche è dovuto agli uomini (come diceva Jay Z, “I got 99 problems but the man ain’t one”. No, forse non faceva così ma comunque…).

E ho tantissime amiche che stanno costruendo carriere grandiose senza l’aiuto di nessuno, che si risolvono i loro problemi da sole, rimboccandosi le maniche, e che vivono benissimo con o senza un uomo (pazzesco, no?). E farò nomi perché è arrivato il momento di supportarci e valorizzarci, sempre: Giulia, Sofia… forse non ve lo dico mai, mea culpa!, ma a voi va il mio più grande moto di stima.

Ma torniamo a Carrie e al suo mondo dorato. Non esiste ancora il movimento Me too, ma siamo nel 1998 (il 1968 è passato da trent’anni ma la situazione rimane questa), e la posizione sociale della donna ce la vuole raccontare…un uomo. Per citare Rebecca Solnit, che scrive meglio di me, sintetizzerei il tutto con…”gli uomini che spiegano le cose”. Con la prospettiva di oggi parleremmo di mansplaining, o il “minchiarimento” di murgiana memoria. Il Post lo definisce come “l’atteggiamento paternalistico di alcuni uomini (ma non solo) quando spiegano a una donna qualcosa di ovvio, oppure qualcosa di cui lei è esperta, perché pensano di saperne sempre e comunque più di lei oppure che lei non capisca davvero.” Qui l’articolo in cui se ne parla, e qui potete trovare un “bell’esempio” recente: il caso “Parrella-Augias” che ha coinvolto la scrittrice Valeria Parrella, Giorgio Zanchini e Corrado Augias. Gli ultimi due sono giornalisti, a mio parere, validi e indubbiamente competenti ma sulla questione femminista hanno fatto obiettivamente un fin troppo evidente scivolone. E, non senza una certa arroganza, in questi momenti dovremmo rispondere: “Scendi dal piedistallo, tu sei un uomo e, quindi, questa questione vorrei spiegartela io”. Visto che abbiamo subito il patriarcato per secoli, se una volta ogni tanto vi spieghiamo noi qualcosa, miei cari uomini, va bene così.

Il punto è: gli uomini possono parlare di femminismo? Si, certo. Devono. Vogliamo sapere il loro punto di vista. E abbiamo bisogno di uomini femministi. Ma devono abbandonare quell’atteggiamento saccente che si portano dietro dalla notte dei tempi, perchè sulla questione non ne sanno più di noi. Esempio pratico: io, donna bianca e privilegiata, dall’altro della mia fortuna, posso parlare di “Black Life Matters”? Probabilmente si e sinceramente mi sento in dovere di supportare questo movimento. Ma posso mai permettermi di spiegarlo ad una donna di colore che subisce il suo destino da millenni? Assolutamente no.

Un’altra tematica che ho sempre sottovalutato, ma questa volta non mi sono fatta sfuggire: il rapporto tra donne. La narrazione è fortemente stereotipata, per usare un eufemismo. Le 4 amiche si supportano tra loro, hanno un rapporto così perfetto che può esistere solo ed esclusivamente nella finzione cinematografica: il tipo di rapporto che forse alcune di noi vorrebbero avere con le loro amiche. Ma la cosa che mi colpisce di più (in negativo, sia chiaro) è la cattiveria con cui scagliano giudizi nei confronti delle altre donne, avvalorando quel tremendo cliché che vede le altre donne come le più temili nemiche delle donne. Se non fai parte del mio ristretto gruppo sociale, sei la nemica. Terribile.

E infine, quello che ha definitivamente distrutto il mito: la realtà è che, tra alti e bassi, cuori più o meno spezzati, relazioni più o meno lunghe e più o meno significative, tutte e quattro le protagoniste cercano, per ben sei stagioni e due film, il grande amore della loro vita e si sposano. Se questa cosa non vi ricorda niente, vi dico io con una parola sola che cosa ricorda a me. Patriarcato.

L’obiettivo della donna, anche se indipendente, è quello: accasarsi. Vogliamo veramente tutte solo questo? Il grande amore da sposare un giorno?

Tra l’altro Carrie, la super esperta di sentimenti, alla fine sceglie proprio lui, “Mr Big”, il gran figo che mette sempre davanti il suo lavoro a tutto il resto, quello che la prende e la lascia mille volte, quello che ogni tanto è così inebetito e indifferente che viene lasciato perché non ha neanche voglia di lasciare, quello che alla fine le chiede di sposarla e la abbandona all’altare senza nessuna ragione (se non quella narrativa di riempire due ore di film, voglio sperare).

E no, questa non è una relazione romantica, non è un amore struggente, M.r Big non è Heathcliff, e Carrie non è “una di noi“. Questo è proprio un messaggio sbagliato (del resto mi piace ricordarlo di nuovo, la serie l’ha ideata un uomo). E ragazze: se un uomo vi tratta così, per favore, non accettate questo tipo di comportamento. Il mio consiglio è di riportarlo dove molto probabilmente l’avete trovato: nel cassonetto del non riciclabile.

Ho passato l’adolescenza a sognare Carrie, le sue amiche, le sue gambe perfette, il suo guardaroba, la sua Saddle di Dior, il suo Mac, il suo lavoro, New York, i Cosmo, i taxi che si fermano con uno schiocco delle dita, i discorsi osé di Samantha, Mr. Big, Hayden, la fuga d’amore a Parigi…

Oggi a pensarci impallidisco. Sono sicura che, se la donna che sono diventata oggi avesse visto Sex and the city quindici anni fa, probabilmente avrebbe abbandonato tutto alla seconda puntata. Sicuramente chi sostiene la tesi secondo la quale questa serie sia femminista risponderebbe a qualsiasi mio commento con una frase del genere: “Ricordiamoci che è una serie del 1998.”

Vero. Ma vorrei comunque ribattere, e lo farò nel seguente modo.

1929, Virginia Woolf pubblica “Una stanza tutta per sé”.

Era femminista quando è stato pubblicato? Si.

Lo si può considerare tale anche oggi? SI.

1949, Simone de Beauvoir pubblica “Il secondo sesso”.

Era femminista allora? Si.

Lo è ancora oggi? SI.

Leggere per credere. Non capisco se la serie sia anacronistica, se siamo cambiate, se il mondo è diverso da 15 anni fa e la dinamica femminista negli ultimi anni si è fortunatamente evoluta. Forse, come canta Mia Martini “quando la moda cambia, la gente cambia”. E io, che sono indubbiamente cambiata, non sono più tanto sicura che una serie così faccia bene a noi donne. Quindi reiterare questi messaggi attraverso una serie sequel forse non è una scelta femminista. Anzi. E tu, mia cara Carrie Bradshaw, perdonami, ma sei esattamente il tipo di donna che io oggi non voglio essere.

*(una nota: in Italia, la nazione in cui si arriva sempre in ritardo su ogni cosa, va in onda il 10 marzo 2000, non ridiamo).

Le donne e le arti: tutto è permesso ma nulla conta

“Chi le capisce è bravo”: il più grande luogo comune di sempre. Noi donne siamo misteriose, chiuse, “dolcemente complicate”. E siamo state tenute nascoste per bene, prima che iniziassero a capirci e si accorgessero che siamo anche valide. Infatti, nei secoli una gran parte dei personaggi memorabili è uomo. E spesso lo siamo tutt’ora…


Quante donne ci sono nei libri di storia? Nelle antologie di letteratura e di filosofia?
Quanti teoremi portano un nome di donna?
Quante prime ministre?
E potrei andare avanti così per ore.

Da donna c’è questa cosa che mi domando sempre: perché in secoli di cultura, arte, scrittura, etc… ci sono così poche donne note?
Sicuramente una coincidenza. Oppure esiste davvero qualcuno che crede che per ogni Dante, per ogni Shakespeare, per ogni Picasso non possa esistere un corrispettivo femminile?

Ammettiamolo, sì, fa male ma è vero: l’accesso alla formazione superiore è stato negato alle donne di qualsiasi estrazione sociale per secoli. Potremmo essere capaci di scrivere “La Divina Commedia” senza studiare letteratura? No. E quando abbiamo avuto la possibilità di studiare si trattava comunque di un privilegio delle élite. Mentre sappiamo che alcuni grandi autori passati alla storia arrivavano anche da ceti sociali inferiori, non elitari.
E se teniamo conto del fatto che le donne hanno avuto accesso all’istruzione più elevata, da quanto? Un centinaio di anni? Mi piacerebbe esser viva tra altri 100 anni per riprendere questi temi e fare un confronto.
Ora, facciamo quella cosa divertente che si fa a volte ma che spesso si preferisce ignorare perché i numeri rendono le cose molto più evidenti: contiamo.

Facciamo un giro alla Pinacoteca di Brera (VIRTUALE, QUI). Ho contato 3 donne: Fede Galizia, Marianna Calevarijs, Antonietta Raphael de Simon Mafai. Quasi quasi spero di aver visto male e di non averne contate altre per errore mio, accecata dal nervoso. Infatti, per gli uomini ho smesso quando sono arrivata a 58. La disparità mi sembrava già abbastanza evidente e ormai mi borbottava anche il colon (e, comunque, basta uno scroll sulla pagina per vedere che si va ben oltre i 58 artisti…).

Prendiamo la musica, oggi apparentemente più egualitaria di altre arti e, come dice Marina Abramovic, in una gerarchia artistica, la più elevata di tutte. Facciamola facile e consideriamo solo la musica moderna (perché se torniamo indietro nel tempo la situazione è tragica: in anni di studio di pianoforte, in mezzo agli spartiti di Chopin, Bach, Beethoven, Mozart, ricordo solo una compositrice, Clara Wieck Schumann, che è pure passata alla storia con il nome del marito!).
A prescindere dalle disparità di trattamento nell’industria musicale, dalla credibilità, dai sacrifici che si chiedono alle donne ma non agli uomini, guardiamo solo il risultato finale. Aprite Spotify e selezionate la vostra ultima playlist: quante canzoni cantate/scritte da donna e quante da uomini ci sono?
Io amo il cantautorato italiano ma indovinate un po’ nelle playlist tematiche di Spotify quante cantautrici troviamo? Ve lo dico io, c’è spazio per una sola: Carmen Consoli. L’unica in un mondo di uomini, brava da lacrime agli occhi e più sottovalutata di Samuele Bersani (e tra l’altro confesso che “En e Xanax” è stata la canzone che più ho ascoltato nel 2020, maledette statistiche di Spotify che mi fanno notare che anche se non vuoi rischi di essere maschilista perché il patriarcato è talmente radicato nel mondo di oggi che abbatterlo è difficile pure se ti definisci “femminista”!). Vi prego, ditemi che la vostra ultima playlist è composta al 100% da canzoni di Beyoncè e fatemi felice.

E parliamo di letteratura, il mio argomento preferito.
Si pubblicano tante donne, vero. Si pubblicano da tanti anni, vero. Ma vengono prese in considerazione come gli autori? No.
Non guardiamo il mercato per un attimo, ma concentriamoci sulla qualità delle opere. Analizziamo il premio per eccellenza della letteratura italiana, lo Strega: 11 vincitrici e 72 vincitori dalla prima edizione del 1947 (e se la disparità non vi sembra abbastanza, pensate che ci sono anni in cui non c’è neanche una scrittrice candidata). E facciamo pure i loro nomi, perché sono immense e se lo meritano: Elsa Morante, Natalia Ginzburg, Anna Maria Ortese, Lalla Romano, Fausta Cialente, Maria Bellonci, Maria Teresa di Lascia, Dacia Maraini, Margaret Mazzantini, Melania Mazzucco, Helena Janeczek.
Sottovalutate e mai considerate degne abbastanza, c’è sempre quel “pff, l’ha fatto una donna” come sottofondo maschilista ad ogni opera. Ed è tutto causa e conseguenza. Si leggono poche donne, perché se ne pubblicano poche. In libreria si vendono poco e nelle classifiche dei libri più venduti non ne appaiono troppe, diciamocelo. Quindi, se il mercato non le recepisce, non si pubblicano ma, se non si pubblicano, non c’è possibilità di vendere. Si apre allora un circolo vizioso che dovrebbe essere interrotto. Ma come e quando non è ancora chiaro.

A conti fatti, una sola domanda: MA PERCHE’?
Credo sia estremamente difficile dare un’unica risposta che tenga conto della moltitudine di fattori che in millenni di storia ci portano a questi risultati.
E probabilmente è proprio questo il punto: la storia ci insegna che ci hanno tenuto nascoste e ci hanno considerate inferiori. La situazione sta forse cambiando negli ultimi anni ma con una lentezza pachidermica che da donna più o meno giovane faccio fatica ad accettare.
E siamo oneste: nonostante millenni di storia, i primi movimenti femministi nascono negli anni ‘60. Come possiamo pensare di ribaltare completamente la situazione in meno di un secolo? I cambiamenti epocali sono tali perché effettivamente ci mettono epoche ad avvenire.

Siamo forse pronti ad accettare che una donna sia valida quanto un uomo? Siamo pronti ad accettare che una donna possa scrivere un romanzo migliore di uomo? Possiamo accettare che una donna sia preparata tanto quanto, se non più di un uomo? Forse no. Ma dobbiamo incominciare a farlo ora.

Ci hanno tenuto nascoste, è vero, ma ci siamo, abbiamo valore, siamo brave tanto quanto gli uomini. Abbiamo fatto la storia anche noi, pure se non emergiamo nei libri di scuola. Abbiamo aspettato secoli che ci rivalutassero e ci considerassero degne a prescindere dagli uomini (non è Simone de Beauvoir ad essere l’ombra di J.P. Sartre, ma allo stesso tempo è lei che si è presa l’onere di mettere a punto “La Nausea” fino a renderlo uno dei capisaldi della letteratura francese del ‘900, lo sapevate?).

Confesso che sogno da sempre che dietro Elena Ferrante ci sia un uomo perché, dopo secoli in cui noi donne ci nascondiamo dietro pseudonimi maschili, vorrei tanto che un uomo sentisse la necessità di nascondersi dietro un nome di donna per essere riconosciuto come uno dei massimi scrittori italiani contemporanei.
E vi assicuro che siamo stufe di esser considerate meno di un uomo, di esser viste come quelle inferiori e di leggere articoli di giornale che fanno notare che ogni tanto siamo “brave come un uomo“, che siamo mamme prima che professioniste, che il Nobel per la letteratura l’ha “vinto una donna” e non “Louise Gluck, Poetessa”.

di Eleonora Scialo,
milanese di fatto, ma non di nascita, una laurea in economia per lavorare nell’azienda di famiglia ma a 31 anni non è ancora sicura sia quello che vuole fare da grande. O forse lo sa e sta lentamente aprendo il cassetto per liberare il suo sogno. Arriva sempre in ritardo per colpa del suo cane ed è femminista non estremista.

Sessismo linguistico, l’importante è parlarne

La nozione di sessismo linguistico (linguistic sexism) è stata elaborata negli anni ’60-’70 negli Stati Uniti. In quel periodo era infatti emersa la marcata discriminazione nel modo di rappresentare la donna rispetto all’uomo attraverso l’uso della lingua, e di ciò si discuteva anche in Italia soprattutto in ambito semiotico e filosofico. Nel 1987 esce un volume rivoluzionario, Il sessismo nella lingua italiana di Alma Sabatini, pubblicato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, che allargò il dibattito all’ambito sociolinguistico e arrivò a interessare attraverso la stampa anche il grande pubblico.
Lo scopo del lavoro era politico e si riallacciava a quello di ristabilire la “parità fra i sessi”, attraverso il riconoscimento delle differenze di genere (inteso come l’insieme delle caratteristiche socioculturali che si legano all’appartenenza a uno dei due sessi).

Al linguaggio viene riconosciuto un ruolo fondamentale nella costruzione sociale della realtà e, quindi, anche dell’identità di genere maschile e femminile: è perciò necessario che sia usato in modo non “sessista” e non privilegi più, come fa da secoli, il genere maschile né tantomeno continui a tramandare tutta una serie di pregiudizi negativi nei confronti delle donne, ma diventi rispettoso di entrambi i generi. Che cessi di avere, come afferma Sabatini, «un’impostazione “androcentrica”».

La lingua infatti manifesta e allo stesso tempo condiziona il nostro modo di pensare, incorpora una visione del mondo e ce la impone. Il pensiero è profondamente influenzato dal linguaggio che, a sua volta, influenza il pensiero stesso. Non solo l’esistenza di una parola riferita a una situazione o esperienza trasmette l’importanza dell’esperienza stessa, ma anche l’assenza di una parola suggerisce che non c’è niente che riguarda l’esperienza descritta che meriti di essere menzionato.

La lingua è viva e si modifica con il cambiamento della società:
se cambia la realtà cambia anche il linguaggio.

Un’azione diretta a modificare il linguaggio potrebbe sembrare artificiosa e privare la parola del senso di deposito della storia di un contesto sociale che tendiamo ad attribuirle. Ma è l’impellenza di un intervento sui costumi della disparità, tanto diffusi nel nostro Paese, che rende questa presunta artificiosità necessaria e tollerabile.
In un tempo in cui ancora ci troviamo a riflettere sui troppo numerosi femminicidi travestiti da delitti passionali, ci accorgiamo quanto siano importanti le parole che si riferiscono alle battaglie sostanziali perché si affermino modelli educativi e di comportamento in grado di mettere in comunicazione tra loro tutte le differenze, in primis quella tra uomini e donne.

La lingua è una struttura dinamica che cambia in continuazione, tuttavia la maggior parte della gente è conservatrice e mostra diffidenza, addirittura paura, nei confronti dei cambiamenti linguistici perché disturbano le proprie abitudini o sembrano una forzatura. Ciononostante, in modo del tutto contraddittorio, si accettano neologismi come “cassintegrato”, o inglesismi come “selfie”, “taggare” (da “tag”). Perché mai questi passano senza problemi? Forse perché non coinvolgono a livello profondo? O solo perché entrano nel linguaggio in modo subliminale senza che ce ne accorgiamo? Certo è che, posti davanti al problema se accettare o meno un cambiamento, spesso si assume un atteggiamento “moralistico” in difesa della lingua, vista come qualcosa di sacro e intoccabile. In realtà noi siamo tanto attivi quanto passivi nei confronti della lingua. Il processo di classificazione linguistica è dinamico perché la lingua ci offre sia le forme già codificate, sia una serie di operazioni che ci permettono di classificare nuovi contenuti o di riclassificare la nostra realtà.

Negli anni ci sono stati cambiamenti di tipo ideologico per parole riferite a classi e razze discriminate. Dopo l’olocausto, il termine “giudeo” fu sostituito dapprima da “israelita” e ora anche da “ebreo”; l’uso di “nero” anziché “negro” è entrato in Italia. Sono scomparsi dalla lingua ufficiale e da quella quotidiana termini quali “facchino”, “mondezzaro”, “spazzino”, sostituiti da “portabagagli”, “netturbino”, “operatore ecologico”. Molti di questi cambiamenti non si possono definire spontanei, ma sono frutto di una precisa azione socio-politica, che dimostra l’importanza che la parola ha rispetto alla realtà sociale e il fatto che siano già stati assimilati significa che il problema è diventato di senso comune o che, quantomeno, la gente si vergogna di poter essere tacciata come classista o razzista.

Quando ci si vergognerà altrettanto di essere considerati sessisti molti cambiamenti diverranno realtà normale. Qual è dunque la ragione di questo atteggiamento linguistico? Le risposte più frequenti fanno riferimento all’incertezza di fronte all’uso di forme femminili nuove rispetto a quelle tradizionali maschili (è il caso di “ingegnera”), la presunta bruttezza delle nuove forme, o la convinzione che la forma maschile possa essere usata tranquillamente anche in riferimento alle donne. Ma ciò non è vero, perché maestra, infermiera, modella, cuoca, nuotatrice, ecc. non suscitano alcuna obiezione: nessuno definirebbe mai Federica Pellegrini nuotatore. Termini come “architetta”, “assessora”, “avvocata”, “chirurga” vengono spesso bollati come cacofonici. Si tratta di nomi che indicano lavori o cariche in passato riservati agli uomini, ma perfettamente regolari dal punto di vista grammaticale. La parola “avvocata”, poi, indica la Madonna nella preghiera “Salve Regina”. Allora il problema qual è? È davvero la parola a suonare male o il fatto che le donne scelgono carriere diverse dal passato? Le resistenze all’uso del genere grammaticale femminile per molti titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne sembrano poggiare su ragioni di tipo linguistico, ma in realtà sono, celatamente, di tipo culturale.

In una concezione della lingua come depositaria di cultura, come prodotto della società che la parla, appare vano tentare di modificare la lingua e pretendere che sia un tale cambiamento a influenzare la società, se questa è stata ed è ancora una società sessista. Ma se è invece vero che la realtà sociale italiana è in via di modificazione, la discussione di quegli aspetti della lingua e del discorso che non riflettono ancora tale realtà e che anzi perpetuano stereotipi è quanto mai necessaria.

di Anna Miti

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Perché parlare ancora di “femminismo”?

Questa domanda si sente ripetere spesso da un po’ di tempo a questa parte. Esiste ancora la necessità di parlare di “femminismo” in un mondo in cui “le donne hanno ormai raggiunto la parità”? Il termine stesso è arrivato ad assumere in certe occasioni una connotazione negativa e l’aggettivo “femminista” ad essere usato anche come “insulto”: “NON SARAI MICA UNA DI QUELLE FEMMINISTE?”.

La verità è abbastanza evidente, anche se, forse, non agli occhi di tutti: la parità, reclamata proprio dalle femministe nel corso dei decenni, è stata raggiunta solo in alcuni ambiti. In tanti altri la si è raggiunta in parte, in molti casi non esiste.

Va anche detto che “la parità”, intesa in senso stretto, può essere un’arma a doppio taglio: ciò che viene ritenuto valido per un uomo potrebbe non esserlo per una donna. Non è soltanto la parità quello che il femminismo ha chiesto da sempre e che continua oggi a chiedere, quanto piuttosto che il mondo smetta di essere un posto non adatto o ostile per il genere femminile.

Il motivo per cui crediamo sia necessario oggi parlare di femminismo e dare voce alle donne di ogni età, cultura ed estrazione (da questo desiderio nasce “Quote rosa”) è perché la vita per molte di esse può ancora essere un inferno. E, chi più, chi meno, spesso inconsciamente, tutte sperimentiamo diversi tipi di oppressione, tutte siamo spesso chiamate a giustificare le nostre scelte di fronte a quella cosa che tanti faticano a riconoscere e nominare chiamata “patriarcato”. Il modo in cui ci prendiamo cura di noi stesse, in cui ci vestiamo, quello con cui approcciamo l’altro sesso e la nostra sessualità, le nostre decisioni lavorative e personali: tutto viene analizzato e giudicato secondo un filtro che ci impedisce di fare scelte libere. Veniamo fin da bambine educate, condizionate, portate a credere che il mondo sia un posto dove i “maschi” possono fare e noi rimanere sullo sfondo a battere le mani. Quelle che rifiutano questo ruolo subalterno, quelle che “ce la fanno”, vedono i loro meriti a volte ridimensionati, se non proprio sviliti, e si tace sul fatto che loro, le donne che hanno sfondato il “soffitto di cristallo”, sono il più delle volte costrette a fare rinunce che all’uomo non verranno chieste mai. E il successo non risparmierà loro la critica costante, anzi, al minimo passo falso verranno immediatamente messe al rogo.

Tutto questo potrà sembrare un vuoto sproloquio ma saranno proprio i contenuti del nostro blog a raccontarvi cosa significa vivere una vita da “quote rosa” in un mondo dove il prototipo ideale è un uomo.
Lo diremo noi e lo diranno altre voci di donne che potranno raccontare la loro esperienza su questa piattaforma.

Fiere di essere donne, fiere di essere “femministe”.

Chiara ed Eleonora, “Quote Rosa”

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