Oscar 2022: uno schiaffo che spiega come a Hollywood regni (ancora) una cultura patriarcale

È passata ormai qualche settimana dalla 94esima edizione degli Oscar e dopo il susseguirsi di commenti a caldo sui vincitori e le polemiche a seguito dell’accaduto durante la serata, cosa ci rimane di questi Academy Awards 2022?

Una serata all’insegna del lusso, dello sfarzo e del politicamente corretto, una patina che ha reso questa edizione estemporanea, dato il momento storico che stiamo vivendo – neanche un cenno agli avvenimenti in Ucraina, se non per qualche sporadica spilla azzurro-gialla appuntata su qualche bavero della giacca, per non parlare della totale assenza di mascherina (è proprio vero: il Covid, come dicono in molti, è finito, malgrado la risalita di contagi e la scoperta di nuove varianti).

Ma veniamo al dunque, ciò che ha fatto più discutere in queste settimane: Will Smith, in lizza per il premio Best Actor in a Leading Role, sale sul palco e di fronte a una platea a metà tra il divertito e lo sbigottito dà uno schiaffo all’attore comico Chris Rock, dopo che quest’ultimo ha fatto una battuta sull’aspetto fisico della moglie di Smith, Pinkett Smith, paragonandola alla protagonista di GI Jane (per chi non avesse visto il film, la protagonista interpretata da Demi Moore si rasa i capelli). Aspetto fisico che a dire di Chris Rock dovrebbe essere similare a quello di Pinkett Smith, affetta da alopecia.

In molti si sono schierati a favore del gesto di Smith, definendolo “obbligato” per difendere la moglie dal commento offensivo di Rock. Smith stesso durante il discorso di ringraziamento, dopo aver ritirato il premio per miglior attore, si scusa dicendo: “Love makes you do crazy things”. L’amore fa fare pazzie, appunto. Ma è forse proprio questo il punto? Si può considerare un atto di violenza come un dettato dall’amore, per l’amore?
Molte parole sono state spese in suo favore. Secondo molti stava semplicemente difendendo la moglie e, in fondo, Chris Rock se l’è meritato. Ma è proprio così? Lo schiaffo che è stato dato non è forse, invece, espressione di una cultura patriarcale e machista?

Innanzitutto, il gesto di Smith è simbolo di come ancora oggi la violenza sia strettamente correlata al concetto di uomo e di essere uomo: un uomo deve essere forte, fisicamente e non solo a parole, per sapersi e saper difendere.
Che cosa? Il proprio onore, l’onore della propria moglie e della propria famiglia – sì, suona proprio come un detto di altri tempi, eppure eccoci qui a parlarne. Come se Pinkett Smith non fosse perfettamente in grado di sapersi difendere dalle parole ignoranti e ottuse di un altro uomo, che pensa di poter fare della sua condizione – e di tante altre persone – oggetto di ridicolo.
Pinkett Smith è stata così privata della possibilità di difendersi e di esprimere sé stessa in una situazione che la riguardava direttamente. Non solo, nella propria dimostrazione di mascolinità tossica, Smith si è totalmente dimenticato di voltarsi verso sua moglie e chiederle come stesse in quel momento. Una totale mancanza di empatia verso una persona che viene derisa per la propria condizione fisica, e che si suppone sia da te amata e rispettata.

A questo, possiamo aggiungere la correlazione tra atto violento e amore: lo schiaffo come dimostrazione dell’amore che Smith prova per la moglie. Una giustificazione che troppo spesso ormai sentiamo e vediamo quasi ogni giorno sui titoli di giornali e telegiornali. Un uomo che pazzo d’amore agisce in modo violento. Giustificare lo schiaffo a Chris Rock come una pazzia dettata dall’amore non fa altro che avvallare una cultura patriarcale e machista, dove si giustifica la violenza – per fortuna questa volta non nei confronti di una donna, ma scusanti di questo tipo utilizzate nei titoli di giornali e nei commenti di molti che la pensano così se ne potrebbero elencare a bizzeffe.

Soffermiamoci, però, anche sulla battuta “comica” di Chris Rock: paragonare Pinkett Smith, affetta da alopecia, alla protagonista di GI Jane non è altro che la dimostrazione di come, ancora, la nostra società sia fortemente condizionata dal patriarcato. Una persona che per fare della comicità deride pubblicamente la condizione fisica – ma potrebbe anche essere la razza, la condizione sociale, l’orientamento sessuale, e via dicendo – di un’altra, sminuendola di fronte ad altri e sottolineando la condizione di “diversità” rispetto alla massa. Non è forse la cara e vecchia retorica del “prendersela con il più debole”?

Cosa ci rimane, quindi, di questi Academy Awards? Un senso di amaro in bocca e il pensiero che molto ci sia ancora da fare. Specialmente in un mondo, quello del cinema e dello spettacolo, dove sono ancora gli uomini a farla da padrone. Basta considerare che, escluse le categorie per cui sono nominati solo gli uomini (ad esempio miglior attore), le donne rappresentano in media il 14% delle nomination in tutte le altre categorie aperte a entrambi i sessi. Un altro esempio: il premio per miglior regista, il più prestigioso, quest’anno è andato a Jane Campion per Il potere del cane, una “mosca bianca” se consideriamo che la categoria è aperta ad entrambi i sessi e dal 1929 ad oggi, delle 449 nomination per miglior regista, solo due premi sono stati consegnati a delle donne – Kathryn Bigelow nel 2010 per il film The Hurt Locker e Chloé Zhao nel 2021 per il film Nomadland.
Nella storia degli Academy Awards solo altre quattro donne sono state nominate per questa categoria: Lina Wertmüller, la prima donna ad essere nominata a miglior regista nel 1977 per Seven Beauties; Sofia Coppola per Lost in Translation; Greta Gerwig per Lady Bird e Emerald Fennell con Promising Young Woman chiudono la (più che) breve lista. Ancora più evidente è la differenza di genere se consideriamo la categoria Miglior fotografia, dove l’unica donna ad essere mai stata nominata è stata Rachel Morrison nel 2018 per il suo lavoro su Mudbound.

Disparità di genere che non è limitata solo al cinema d’oltreoceano, ma anzi, è ben presente anche nel Vecchio Continente: un recente studio attesta che nel settore audiovisivo europeo la percentuale di donne registe si attesta solo al 23%. Tra il 2016 e il 2020 la percentuale di donne direttrici della fotografia è al 10%, mentre quella delle compositrici solo al 9%, afferma l’Osservatorio audiovisivo europeo. Nello stesso periodo, solo il 33% di donne è tra i produttori e un 17% tra gli sceneggiatori. Dati che uniti alle considerazioni fatte in precedenza, fanno pensare a come il mondo dell’audiovisivo sia pervaso da una cultura fortemente improntata al patriarcato – come dimenticare anche il caso Harvey Weinstein – e dove la disparità di genere è all’ordine del giorno.

Verrebbe da domandarsi: cosa sarebbe successo se a fare la battuta comica fosse stata una donna riferendosi a un uomo?. Ne sarebbe scaturito uno
schiaffo? Probabilmente no, forse non saremmo qui a parlarne. La strada da percorrere è sicuramente lunga, per ora possiamo perlomeno fare i complimenti a Jane Campion.

Sara Mandelli

A cosa è servito il #MeToo: da Hollywood all’ondata cinese

Xianzi, al secolo Zhou Xiaoxuan, è una delle poche donne cinesi ad aver ottenuto l’avvio di un processo per molestie sessuali contro un intoccabile della tv di Stato di Xi Jiping. Ventisette anni, il suo calvario è iniziato nel 2014 quando – durante uno stage – è stata palpata e baciata contro la sua volontà dal noto conduttore Zhu Jun. Anche lui, come il suo predecessore hollywoodiano Harvey Weinstein, deve l’interesse della stampa generalista mondiale alle sue abitudini da predatore sessuale.

Il caso – Aggredita mentre lavorava negli studi televisivi del canale CCTV, Zhou trova il coraggio di rendere pubblico l’accaduto solo nel 2018 pubblicando un lungo post online. L’accusa diventa poi virale grazie all’amica Xu Chao che la condivide via Weibo (piattaforma social cinese simile a Facebook). Da quel momento inizia la battaglia legale in cui Zhu Jun risulta già parzialmente sconfitto. Infatti, rigettando ogni accusa mossa contro di lui, fa causa a Xianzi e Xu Chao per diffamazione. La richiesta viene però archiviata dai giudici cinesi. Ora l’accusato è lui: se venisse condannato dovrebbe porgere pubblicamente le sue scuse e versare 50 mila yuan (sei mila euro circa) a titolo di risarcimento a favore della vittima.

I precedenti – Per un contesto come quello cinese, il solo fatto che l’imputato sia un personaggio pubblico è un traguardo enorme. Così come l’aver catalizzato la mobilitazione internazionale. Infatti, a differenza del #Metoo statunitense, in Cina le prime a prendere posizione contro gli abusi subiti dalle donne sono state le studentesse universitarie, facendo molto meno rumore delle attrici famose. Nel 2018, la ricercatrice Luo Qianqian è la prima a pubblicare la sua storia su Weibo con l’ashtag #WoYeShi (traduzione cinese di #MeToo). Le manifestazioni di protesta sono mal tollerate dal regime comunista, che risponde attuando la linea dura della repressione arrestando diverse attiviste.

La forza della condivisione – Xianzi individua proprio nel diffondersi del movimento #MeToo ciò che le ha dato la forza di denunciare. Lei stessa afferma che nel 2014 i poliziotti ai quali si era rivolta hanno tentato di dissuaderla dal denunciare un uomo famoso e potente. Lo stesso schema è stato smascherato dal giornalista Ronan Farrow, che del #MeToo ha fatto un libro (“Predatori. Da Hollywood a Washington, il complotto per ridurre le vittime di abusi al silenzio”, pubblicato in Italia da Solferino). Dall’inchiesta emerge chiaramente quanto la violenza sulle donne sia fondata sull’assuefazione all’intimidazione. Tra le vittime di Weinstein c’è Emily Nestor, due lauree e l’ambizione di dirigere uno studio di produzione. «La disinvoltura e la mancanza di inibizione delle molestie che aveva subito le avevano fatto pensare che si trattasse di un comportamento abituale», racconta Farrow «e la reazione incontrata quando le aveva denunciate l’aveva amareggiata. Ma aveva paura di una rappresaglia». Emily è stata oggetto di insistenti avance non richieste sul luogo di lavoro. Dopo aver segnalato l’episodio alle Risorse umane della Miramax, ha scoperto che la tutela era tutta una farsa. A causa del trauma subìto lascia il suo lavoro e abbandona completamente l’idea di fare carriera nel mondo dello spettacolo. Nonostante l’episodio di molestie risalga al 2014, trova il coraggio di parlare solo qualche anno dopo. Si è spesso chiesta: «È così che gira il mondo?». A piccoli passi, forse il mondo inizia a girare nel modo giusto anche per le donne: nel codice civile cinese le molestie sessuali sono state inserite solo nel 2005, mentre la definizione precisa è arrivata a maggio 2020. Inoltre, a partire da giugno 2021 le scuole saranno tenute ad inserire lezioni di educazione sessuale.

Chiara Barison