Il distanziamento impossibile delle sex workers transgender

«Non disponiamo di dati precisi, ma si parla di circa 5mila persone che si prostituiscono indoor (in appartamenti, ndr) e circa 600 su strada, di cui il 50 per cento è transessuale», racconta Vincenzo Cristiano, presidente dell’associazione Ala Onlus. Il territorio meneghino è diventato così in particolare il centro della prostituzione transessuale di origine sudamericana in Italia. Perché proprio il capoluogo lombardo? «È la città con la maggiore dimensione internazionale», dichiara Cristiano, «c’è un grande via vai di uomini d’affari e turisti».

«Scappano da Paesi machisti in cui la loro sessualità non è accettata e per questo non riescono a lavorare», afferma Antonia Monopoli, attivista e responsabile dello sportello di Ala. «Lasciano la famiglia e vedono nella prostituzione l’unica via possibile di fuga». «Ricordo però anche il racconto di una ragazza trans che faceva la parrucchiera: tutte le sere si presentavano uomini che pretendevano di fare sesso con lei. Se non si fosse concessa le avrebbero distrutto il locale».
La vendita del proprio corpo come scelta quasi obbligata, ma non significa che il sex work sia necessariamente sinonimo di sfruttamento. «Spesso sono persone che arrivano nel nostro Paese consapevoli di esercitare questa professione», chiarisce Cristiano.

Ph. Ted Eytan 

A causa delle misure relative a distanziamento sociale e coprifuoco, sulle strade non si sono più viste le ragazze che erano solite lavorare outdoor. L’assenza di entrate ha reso loro difficile provvedere al sostentamento: «Per due mesi abbiamo aiutato 54 ragazze transgender con pacchi alimentari». Chi lavora in appartamento ha visto solo diminuire i propri clienti, i quali hanno continuato a rivolgersi alle sex worker nonostante l’emergenza sanitaria. «Il cliente tipo va dai 30 ai 50 anni, tendenzialmente con famiglia, per compensare una vita sessuale poco soddisfacente tra le mura domestiche», dice il presidente, «tutte le estrazioni sociali sono coinvolte, dall’operaio al manager affermato».

Inevitabili i contagi. «Un paio di sex worker sono decedute, ma a causa di patologie pregresse», chiarisce Cristiano, «paradossalmente sieropositive e tossicodipendenti non sono state più colpite della media della popolazione. Molte hanno pensato di avere una banale influenza». Magari non emarginate, ma sicuramente poco tutelate giuridicamente anche in questa situazione. Nel 1958, la senatrice Lina Merlin ha proposto e fatto approvare la legge che ha chiuso le case di tolleranza e introdotto i reati di sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione. Di ispirazione abolizionista, la normativa aveva l’obiettivo di tutelare le donne, ma di fatto impedisce il riconoscimento del sex work quale professione, «escludendo dall’erogazione di bonus e ammortizzatori sociali quelle che sono lavoratrici a tutti gli effetti. Noi di Ala Onlus ci battiamo affinché la prostituzione ottenga un riconoscimento legislativo», sostiene Cristiano.

Da sfatare il binomio fra transessualità e prostituzione: «Quando trovano un lavoro decidono di lasciare perché è un mondo in cui non si sentono serene», rivela ancora Monopoli, «in strada non mancano le violenze da parte dei clienti». E non solo.
«Riceviamo moltissime telefonate di genitori i cui figli vogliono intraprendere la transizione. Una volta la famiglia li rifiutava», aggiunge Vincenzo Cristiano, «da questo punto di vista la realtà milanese è molto più progredita di altre città». «Possiamo definire l’Italia un Paese accogliente, ma c’è ancora molto da fare», conclude Antonia Monopoli, «non mancano gli episodi di mobbing a danno delle ragazze trans che trovano un lavoro».

Chiara Barison

2 giugno 1946: il primo voto nazionale delle donne italiane

Monarchia o Repubblica?

La fine della dittatura fascista rappresentò per l’Italia l’inizio di una nuova fase politica.

75 anni fa nasceva la Repubblica italiana ma questa non fu l’unica novità portata da quel 2 giugno.

Per la prima volta in una votazione nazionale venne chiesto anche alle donne di esprimere una preferenza. Le italiane esercitarono il diritto di voto per cui tante avevano lottato (tra loro, la partigiana Marisa Rodano).

Con l’introduzione del suffragio femminile in Italia (il 10 marzo in occasione delle elezioni amministrative) alle donne venne riconosciuto lo status di cittadine a tutti gli effetti, quello fu il primo passo verso una parità che purtroppo non è stata ancora raggiunta.

Tuttavia, le rivendicazioni che vennero dopo, per il diritto all’aborto, il divorzio, la parità salariale, e quelle che verranno partono anche da quel 10 marzo e da quel 2 giugno.

Quando, per la prima volta, le donne uscirono di casa e dissero: “Oggi vado a votare”.

Eleonora Panseri

Treccani.it elimina i riferimenti sessisti dalla voce “donna”

Due mesi fa un gruppo di donne guidate dall’attivista italiana Maria Beatrice Giovanardi aveva fatto un appello all’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani chiedendo di rimuovere i riferimenti sessisti presenti sull’enciclopedia online alla voce “donna”. Queste espressioni infatti, secondo le 100 firmatarie della lettera inviata all’Istituto, non erano da ritenere soltanto offensive ma anche, “quando offerte senza uno scrupoloso contesto”, causa di “stereotipi negativi e misogini che oggettificano e presentano la donna come essere inferiore”. A seguito di un lungo dibattito oggi, 14 maggio, è arrivato il responso positivo della Treccani che ha deciso di ascoltare la richiesta delle attiviste.

Valeria Della Valle, direttrice del vocabolario, ha spiegato a Repubblica che la scelta di modificare la voce è solo l’inizio di un più lungo processo “culturale”:

«L’operazione richiederà più tempo perché il lavoro di un dizionario è simile a quello del sarto, la voce “donna” che contempla già espressioni relative ai diritti, all’emancipazione e ai movimenti di liberazione delle donne, ha bisogno di ritocchi che aggiungeranno frasi relative al ruolo professionale della donna».

Nel 2019 Giovanardi aveva portato avanti la stessa battaglia con l’Oxford Dictionary che, dopo un anno di dibattito, aveva acconsentito a modificare la voce “woman”.

Eleonora Panseri

#iolochiedo, una campagna per cambiare la legge sulla violenza sessuale

Nella Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, anche nota semplicemente come Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia nel 2013, lo stupro è un “rapporto sessuale senza consenso”. Nell’articolo 36 del testo, al paragrafo 2, si legge anche che tale consenso deve essere dato volontariamente, quale libera manifestazione della volontà della persona, e deve essere valutato tenendo conto della situazione e del contesto”.

Al contrario, l’articolo 609-bis del Codice penale italiano, che disciplina il reato di violenza sessuale, non considera in alcun modo l’elemento del consenso e punisce “chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali”.
Se dunque per sanzionare un comportamento come stupro la legge italiana prevede che concorrano gli elementi della violenza, della minaccia o dell’abuso di autorità, nel caso in cui questi siano assenti, diventa difficile stabilire la gravità del reato.

Proprio a questo proposito, Amnesty Italia ha lanciato una petizione per richiedere alla Ministra della Giustizia Marta Cartabia la revisione dell’articolo 609-bis. Revisione che tenga in considerazione la definizione data dalla Convenzione di Instabul e introduca in Italia l’idea che lo stupro non sia soltanto una violenza fisica ma qualsiasi comportamento sessuale privo del consenso di entrambe le parti.

Come si legge anche sul sito di Amnesty, la percezione del reato di stupro in Italia è viziata non soltanto a livello legislativo, ma anche e soprattutto a livello culturale:

“Secondo l’Istat (rilevazione del 2019), persiste in Italia il pregiudizio che addebita alla donna la responsabilità della violenza sessuale subita. Addirittura il 39,3% della popolazione ritiene che una donna è in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole. Anche la percentuale di chi pensa che le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire è elevata (23,9%). Il 15,1%, inoltre, è dell’opinione che una donna che subisce violenza sessuale quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte corresponsabile. Per il 10,3% della popolazione spesso le accuse di violenza sessuale sono false (più uomini, 12,7%, che donne, 7,9%); per il 7,2% “di fronte a una proposta sessuale le donne spesso dicono no ma in realtà intendono sì”, per il 6,2% “le donne serie non vengono violentate”. Solo l’1,9% ritiene che non si tratta di violenza se un uomo obbliga la propria moglie/compagna ad avere un rapporto sessuale contro la sua volontà”.

La campagna di Amnesty è stata lanciata in rete con l’hashtag #iolochiedo e l’obiettivo è quello delle 61000 firme.

Se volete sostenere la petizione, fate click QUI.

Eleonora Panseri

Alessandra Galloni è la nuova direttrice di Reuters

Decisione storica per Reuters.
La giornalista italiana Alessandra Galloni sarà la nuova direttrice della nota agenzia di stampa che, fondata nel 1851 da Paul Julius Reuter, nei suoi 170 anni di storia non era mai stata guidata da una donna.
A fine aprile Galloni prenderà il posto di Stephen J. Adler, vincitore di sette premi Pulitzer e a capo dell’agenzia dal 2011, che lascerà la direzione per andare in pensione.

Nata a Roma nel 1974, Galloni si è laureata nel ’95 ad Harvard, ha conseguito un master alla London School of Journalism nel 2002 e ha lavorato al Wall Street Journal per 13 anni. Dal 2013 in Reuters la nuova direttrice si è occupata di economia e finanza come corrispondente da Londra, Parigi e Roma.

“Sono onorata di dirigere una delle migliori redazioni del mondo!” ha scritto Galloni sul suo account Twitter.

Anche Vincenzo Amendola, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega agli Affari europei, ha salutato con entusiasmo la nomina della neo direttrice, twittando: “In bocca al lupo ad Alessandra Galloni, prima donna a guidare Reuters in 170 anni. Orgoglio italiano”.  

Eleonora Panseri

Trovate la notizia anche nel GR del 13/4/2021 sul canale Youtube di Radio Sestina, la radio della Scuola di giornalismo “Walter Tobagi”.

“Non tutti gli uomini…”: alcune considerazioni

Quante volte abbiamo sentito dire la frase “non tutti gli uomini”? Trasformata anche in un hashtag, #notallmen, è diventata molto famosa fuori e dentro la rete (un hashtag che è anche recentemente tornato nei trend di Twitter).
È assolutamente vero, bisogna riconoscere che buona parte degli uomini non ha comportamenti criminali nei confronti delle donne, MA CHE FORTUNA! (percepite l’ironia?). Sarebbe allo stesso tempo giusto e più che legittimo però chiedersi se per contribuire al benessere e alla sicurezza di tutte le donne (non solo di quelle che rientrano nella propria sfera di affetti) basti solo non molestare, stuprare, uccidere.

Il “non tutti gli uomini” è, per certi versi, un imbarazzante tentativo di togliersi il noto “sassolino dalla scarpa”. Può capitare che, quando si intavola un discorso su un tema caro al femminismo, alcuni uomini usino questo tipo di retorica per non dover discutere oltre: “Non siamo tutti così, non infastiditeci oltre”. Ma la questione è decisamente più complessa di così.

Quello che questi uomini potrebbero fare non è dire “Non faccio le cose sbagliate che fanno gli altri”, rifiutare quindi in blocco la responsabilità di atti sicuramente individuali che, tuttavia, se inseriti in un contesto ben più ampio, in un’ottica di violenza di genere, possono essere ricondotti a una più comune “responsabilità maschile”. Riflettere su quello che fanno o potrebbero fare di più è invece il nodo essenziale del discorso.

Per molte femministe il contributo degli uomini non è necessario ma, quando si combatte una guerra, possono essere utili anche truppe mercenarie per riuscire a vincere il nemico. Insomma, possiamo farcela da sole ma un aiuto in più non guasterebbe. Il problema è che non tutti ma tanti (ancora troppi) uomini non riescono (o non vogliono) stare zitti e ascoltare. Provare a comprendere chi certe dinamiche le ha vissute per secoli e le vive ancora sulla propria pelle ogni giorno non è una perdita di tempo. Per non parlare della vecchia scusa del “eh, ma voi femministe siete troppo aggressive”, con la quale il più delle volte chiudono qualsiasi canale di comunicazione.

Se lo saranno mai chiesti perché siamo così incazzate?

Rifiutare un confronto o cercare in tutti i modi di mettere in ridicolo il proprio interlocutore quando si tratta la parità di genere o il femminismo; minimizzare una violenza, di qualsiasi genere essa sia (e, no, le molestie per strada e il catcalling non sono “complimenti”), o insinuare che una ragazza “se la sia cercata”; parlare di donne in maniera irrispettosa o mostrare “solo tra amici”, senza necessariamente condividerle su chat/social, foto intime di ragazze che non hanno dato esplicitamente il loro consenso . La lista potrebbe continuare all’infinito. Questi non sono reati ma sono atteggiamenti molto diffusi ed estremamente dannosi perché permettono a un certo tipo di retorica e di pensiero tossico di sopravvivere e di generare i già citati fatti ben più gravi che “non tutti gli uomini” fanno.


La convinzione che la situazione possa cambiare resta, così come la speranza che sempre più uomini dicano: “Cambiamola insieme“.

Eleonora Panseri

8 marzo: libri femministi che tutt* dovremmo leggere (pt. I)

Conosciuta dai più come “Festa della donna”, la Giornata internazionale dei diritti delle donne è stata istituita dall’ONU il 16 dicembre 1977. Sbagliato considerarla come un’occasione per regalare mimose e cioccolatini: l’8 marzo per molti è e per tanti altri dovrebbe essere una giornata per celebrare i successi nella lotta per la conquista della parità di genere e per riflettere su quanto ci sia ancora da fare. Proprio per questo nel post di oggi e in quello che verrà prossimamente proponiamo una serie di testi, dei “suggerimenti di lettura” più o meno impegnativi, utili a conoscere e capire la storia di quell’insieme di dinamiche e pratiche (meglio note come “patriarcato”…) che hanno impedito alle donne di realizzarsi pienamente come individui. Degli spunti di riflessione per capire cosa ancora non va e soprattutto dove si può e si deve fare sempre di più e sempre meglio.

(Parte II – Libri femministi che tutt* dovremmo leggere)


Il secondo sesso di Simone De Beauvoir (1949) e Una stanza tutta per sè di Virginia Woolf (1929): partiamo con due capisaldi della letteratura femminista, testi che non potevano assolutamente mancare in questa lista. Il primo è un lungo trattato filosofico (quasi 800 pagine) che analizza la condizione della donna da un punto di vista storico, sociale, culturale e letterario per mostrare come la tanto decantata “femminilità” non sia una condizione naturale ma un costrutto, una gabbia in cui le donne sono state per secoli rinchiuse e, di conseguenza, controllate (“Donna non si nasce, si diventa“). Secondo De Beauvoir, nel 1949 la liberazione della donna sarebbe dovuta passare dalla conquista dell’indipendenza, soprattutto economica. La stessa indipendenza reclamata vent’anni prima da Virginia Woolf che nel suo famoso saggio tratta il tema dell’esclusione delle donne dal mondo della cultura, della letteratura e, quindi, dalla storia. Per lo più relegate al mondo domestico, impossibilitate ad avere tempo, soldi e una stanza tutta per loro.


Dovremmo essere tutti femministi di Chimamanda Ngozi Adichie (2014): un saggio di poche pagine che in breve tempo è diventato un testo di riferimento per le femministe di tutto il mondo. Adattamento di un TEDx tenuto dall’autrice, questo libro invita tutti, uomini e donne, ad abbracciare la causa femminista. “C’è chi chiede: “Perché la parola ‘femminista’?” Perché non dici semplicemente che credi nei diritti umani, o giù di lì?” Perché non sarebbe onesto. Il femminismo ovviamente è legato ai diritti umani, ma scegliere di usare un’espressione vaga come “diritti umani” vuol dire negare […] che il problema del genere riguarda le donne“.


Manuale per ragazze rivoluzionarie. Perché il femminismo ci rende felici di Giulia Blasi (2018): questo libro è stato una vera e propria rivelazione. Ironico, molto arrabbiato ma anche scritto con la convinzione che tante cose possano e debbano cambiare, questo Manuale offre una serie di esempi pratici per riconoscere e combattere il sessismo (anche quello benevolo) nel quotidiano. E invita tutt* a non accettare mai quei compromessi che sembrano rendere la vita più semplice ma che, al contrario, rischiano di portare la situazione delle donne indietro di decenni: “Siamo arrivate a un punto di svolta: un punto in cui se accettiamo di giocare secondo le regole siamo finalmente ammesse alla mensa dei patriarchi per nutrirci del poco cibo che ci viene allungato. Ma il femminismo non si siede al tavolo con il patriarcato: il femminismo lo rovescia, il tavolo“.


Odio gli uomini di Pauline Harmange (2021): uscito recentemente in libreria, questo breve saggio ha scatenato il caos. Pubblicato da una piccola casa editrice, accusato di misandria e minacciato di censura dal consigliere del Ministero per le Pari Opportunità francese Ralph Zurmély, Odio gli uomini è stato distribuito in 17 paesi e ha venduto in pochissimo tempo decine di migliaia di copie. “Le donne passano un sacco di tempo a rassicurare gli uomini che no, non li odiamo. E in cambio ogni cosa resta al suo posto”: Pauline Harmange, 26 anni, volontaria in un centro per il supporto alle vittime di stupro, sfoga tutta la sua rabbia contro quel genere maschile che giustifica, tacciando le femministe di estremismo e misandria, la totale assenza di azioni concrete in favore delle donne e volte allo smantellamento del privilegio maschile. Un saggio di poche pagine ma duro, durissimo, decisamente da leggere.


Gli uomini mi spiegano le cose. Riflessioni sulla sopraffazione maschile di Rebecca Solnit (2014): vivere una vita da donne può essere faticoso e complicato. E, come descrive Solnit in questo interessante saggio, può esserlo ancora di più quando a queste capita di incontrare uomini che spiegano loro ogni cosa, invece di ascoltare, riflettere e rispettare un punto di vista diverso. Uomini che adorano “fare la paternale” in presenza di una donna per ingigantire ancora di più, se possibile, il loro già enorme ego: “Alcuni uomini spiegano le cose, a me come ad altre donne, indipendentemente dal fatto che sappiano o no di cosa stanno parlando. Mi riferisco a quell’arroganza che, a volte, mette i bastoni tra le ruote a tutte le donne, in qualsiasi settore, che le trattiene dal far sentire la propria voce e che schiaccia le più giovani nel silenzio insegnando, così come fanno le molestie per strada, che questo mondo non appartiene a loro”.


Liberati della brava bambina. Otto storie per fiorire di Maura Gancitano e Andrea Colamedici (2019): in molte delle narrazioni del passato e del presente le “donne cattive“, quelle che non si sottomettono e che si autodeterminano, sono spesso mostrate come esempi negativi. Le stesse donne che nel suo famoso podcast Michela Murgia ha meravigliosamente definito “morgane“. In questo libro, Gancitano e Colamedici scelgono otto donne e le loro storie, Era, Medea, Daenerys, Morgana, Malefica, Difred, Elena, Dina, e decidono di rileggerle in chiave femminista. Un libro per capirsi e riscoprirsi libere e potenti.


Ragazza, donna, altro di Bernardine Evaristo (2019): uscito l’anno scorso, questo romanzo raccoglie le storie di 12 donne: nere e di sangue misto, alcune appartenenti alla comunità lgbtq+, di età ed estrazione sociale molto diverse. Ognuna di loro è legata all’altra grazie ad uno splendido intreccio narrativo, anche se i vari racconti possono essere letti singolarmente. Storie dolorose, di violenza e frustrazione, e allo stesso tempo storie di riscatto e di successo. “Io non sono una vittima, non trattarmi mai come una vittima, mia madre non mi ha cresciuta per farmi diventare una vittima”, dice una delle protagoniste e in queste poche righe sta il fil rouge del testo che tratta temi importanti e attuali, come quelli della misoginia, del razzismo, dell’omofobia, in una prospettiva intersezionalista fortemente politica ma mai pesante o retoricamente vuota. Evaristo ci offre spunti di riflessione per analizzare il passato ma, soprattutto, ripensare il futuro.

Eleonora Panseri

P.s. Tra i più bei testi femministi del 2019 c’è anche il libro di Caroline Criado Perez, Invisibili. Da leggere assolutamente, ne abbiamo parlato QUI.

Sessismo linguistico, l’importante è parlarne

La nozione di sessismo linguistico (linguistic sexism) è stata elaborata negli anni ’60-’70 negli Stati Uniti. In quel periodo era infatti emersa la marcata discriminazione nel modo di rappresentare la donna rispetto all’uomo attraverso l’uso della lingua, e di ciò si discuteva anche in Italia soprattutto in ambito semiotico e filosofico. Nel 1987 esce un volume rivoluzionario, Il sessismo nella lingua italiana di Alma Sabatini, pubblicato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, che allargò il dibattito all’ambito sociolinguistico e arrivò a interessare attraverso la stampa anche il grande pubblico.
Lo scopo del lavoro era politico e si riallacciava a quello di ristabilire la “parità fra i sessi”, attraverso il riconoscimento delle differenze di genere (inteso come l’insieme delle caratteristiche socioculturali che si legano all’appartenenza a uno dei due sessi).

Al linguaggio viene riconosciuto un ruolo fondamentale nella costruzione sociale della realtà e, quindi, anche dell’identità di genere maschile e femminile: è perciò necessario che sia usato in modo non “sessista” e non privilegi più, come fa da secoli, il genere maschile né tantomeno continui a tramandare tutta una serie di pregiudizi negativi nei confronti delle donne, ma diventi rispettoso di entrambi i generi. Che cessi di avere, come afferma Sabatini, «un’impostazione “androcentrica”».

La lingua infatti manifesta e allo stesso tempo condiziona il nostro modo di pensare, incorpora una visione del mondo e ce la impone. Il pensiero è profondamente influenzato dal linguaggio che, a sua volta, influenza il pensiero stesso. Non solo l’esistenza di una parola riferita a una situazione o esperienza trasmette l’importanza dell’esperienza stessa, ma anche l’assenza di una parola suggerisce che non c’è niente che riguarda l’esperienza descritta che meriti di essere menzionato.

La lingua è viva e si modifica con il cambiamento della società:
se cambia la realtà cambia anche il linguaggio.

Un’azione diretta a modificare il linguaggio potrebbe sembrare artificiosa e privare la parola del senso di deposito della storia di un contesto sociale che tendiamo ad attribuirle. Ma è l’impellenza di un intervento sui costumi della disparità, tanto diffusi nel nostro Paese, che rende questa presunta artificiosità necessaria e tollerabile.
In un tempo in cui ancora ci troviamo a riflettere sui troppo numerosi femminicidi travestiti da delitti passionali, ci accorgiamo quanto siano importanti le parole che si riferiscono alle battaglie sostanziali perché si affermino modelli educativi e di comportamento in grado di mettere in comunicazione tra loro tutte le differenze, in primis quella tra uomini e donne.

La lingua è una struttura dinamica che cambia in continuazione, tuttavia la maggior parte della gente è conservatrice e mostra diffidenza, addirittura paura, nei confronti dei cambiamenti linguistici perché disturbano le proprie abitudini o sembrano una forzatura. Ciononostante, in modo del tutto contraddittorio, si accettano neologismi come “cassintegrato”, o inglesismi come “selfie”, “taggare” (da “tag”). Perché mai questi passano senza problemi? Forse perché non coinvolgono a livello profondo? O solo perché entrano nel linguaggio in modo subliminale senza che ce ne accorgiamo? Certo è che, posti davanti al problema se accettare o meno un cambiamento, spesso si assume un atteggiamento “moralistico” in difesa della lingua, vista come qualcosa di sacro e intoccabile. In realtà noi siamo tanto attivi quanto passivi nei confronti della lingua. Il processo di classificazione linguistica è dinamico perché la lingua ci offre sia le forme già codificate, sia una serie di operazioni che ci permettono di classificare nuovi contenuti o di riclassificare la nostra realtà.

Negli anni ci sono stati cambiamenti di tipo ideologico per parole riferite a classi e razze discriminate. Dopo l’olocausto, il termine “giudeo” fu sostituito dapprima da “israelita” e ora anche da “ebreo”; l’uso di “nero” anziché “negro” è entrato in Italia. Sono scomparsi dalla lingua ufficiale e da quella quotidiana termini quali “facchino”, “mondezzaro”, “spazzino”, sostituiti da “portabagagli”, “netturbino”, “operatore ecologico”. Molti di questi cambiamenti non si possono definire spontanei, ma sono frutto di una precisa azione socio-politica, che dimostra l’importanza che la parola ha rispetto alla realtà sociale e il fatto che siano già stati assimilati significa che il problema è diventato di senso comune o che, quantomeno, la gente si vergogna di poter essere tacciata come classista o razzista.

Quando ci si vergognerà altrettanto di essere considerati sessisti molti cambiamenti diverranno realtà normale. Qual è dunque la ragione di questo atteggiamento linguistico? Le risposte più frequenti fanno riferimento all’incertezza di fronte all’uso di forme femminili nuove rispetto a quelle tradizionali maschili (è il caso di “ingegnera”), la presunta bruttezza delle nuove forme, o la convinzione che la forma maschile possa essere usata tranquillamente anche in riferimento alle donne. Ma ciò non è vero, perché maestra, infermiera, modella, cuoca, nuotatrice, ecc. non suscitano alcuna obiezione: nessuno definirebbe mai Federica Pellegrini nuotatore. Termini come “architetta”, “assessora”, “avvocata”, “chirurga” vengono spesso bollati come cacofonici. Si tratta di nomi che indicano lavori o cariche in passato riservati agli uomini, ma perfettamente regolari dal punto di vista grammaticale. La parola “avvocata”, poi, indica la Madonna nella preghiera “Salve Regina”. Allora il problema qual è? È davvero la parola a suonare male o il fatto che le donne scelgono carriere diverse dal passato? Le resistenze all’uso del genere grammaticale femminile per molti titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne sembrano poggiare su ragioni di tipo linguistico, ma in realtà sono, celatamente, di tipo culturale.

In una concezione della lingua come depositaria di cultura, come prodotto della società che la parla, appare vano tentare di modificare la lingua e pretendere che sia un tale cambiamento a influenzare la società, se questa è stata ed è ancora una società sessista. Ma se è invece vero che la realtà sociale italiana è in via di modificazione, la discussione di quegli aspetti della lingua e del discorso che non riflettono ancora tale realtà e che anzi perpetuano stereotipi è quanto mai necessaria.

di Anna Miti

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(IM)POSSIBILI SCENARI: se Maradona fosse nato donna

Confesso i miei peccati sin da subito: non mi piace il calcio, non capirò mai il fuorigioco e non disdegno il rosa. Proprio il cliché della femmina un po’ ottusa. Fatte queste doverose premesse, mi permetto di fare lo stesso una riflessione. Negli ultimi giorni non si parla d’altro: Diego Armando Maradona ha lasciato questo mondo. Icona del nostro tempo, ha incarnato i vizi e le virtù di una società che cerca disperatamente la rettitudine ma non riesce mai a resistere al fascino della ribellione e dell’eccesso. Con mia grande sorpresa, la luce del Pibe de oro ha abbagliato anche me e mi sono fatta una domanda, forse banale: ma che vita avrebbe avuto Diego se fosse nato donna?

Il fuoriclasse argentino è nato nel 1960 in una condizione di povertà estrema. Quinto dopo quattro figlie, è stato accolto dai suoi genitori come una benedizione. Lui stesso ha avuto modo di ribadire che suo «papà estaba cansado de mujeres». Diego Maradona Senior era stanco di avere figlie, viste come una condanna. Le femmine davano preoccupazioni, bisognava trovare a tutte un marito e le occasioni di concludere un buon matrimonio si riducevano in modo direttamente proporzionale al livello di miseria in cui versavano le promesse spose. La madre stessa, forse consapevole della sorte destinata alle donne nate nella sua terra, lo venererà come un bambino prodigio anche quando sarà troppo cresciuto e segnato dai suoi tormenti.

E poi il calcio, lo sport maschile per eccellenza da sempre, negli anni ’60 non avrebbe mai potuto rappresentare l’occasione di riscatto per una giovane donna. I primi mondiali femminili si sono celebrati nel 1991, l’Argentina parteciperà per la prima volta con la sua nazionale in rosa a partire dalla seconda edizione, tenuta nel 1995 in Svezia. La scalata al successo di “Dieguita“, quindi, non sarebbe probabilmente mai iniziata. O almeno, non segnando i gol che hanno fatto sognare intere generazioni. Oltretutto a Diego, prima o dopo, è stato perdonato tutto. L’assoluzione che si concede tipicamente ai geni che, proprio grazie al loro genio, possono permettersi tutti i colpi di testa che vogliono. «La pelota fué mi salvación» dirà Armando una volta famoso e consapevole dell’opportunità immensa che il suo talento gli aveva offerto. Per le donne non funziona e non ha mai funzionato così.

Così mi è venuta in mente Tonya Harding, la prima pattinatrice statunitense ad eseguire un triplo axel. Certo, il pattinaggio artistico non è il calcio. Ma le persone sono straordinarie a prescindere dalla competizione nella quale gareggiano. E il talento è talento. Anche Tonya è nata nella miseria, dieci anni dopo Dieguito, in un Paese che a differenza dell’Argentina era ed è una potenza mondiale. La sua povertà sarà però una condanna, portata come un fardello impossibile da far volteggiare in pista. Tonya non sarà mai abbastanza: per sua madre, per essere amata, per brillare nel panorama sportivo internazionale. Nonostante abbia vinto la sua prima gara a soli quattro anni, non le verranno mai perdonati i costumi che si fabbricava da sola. E nemmeno la tenacia rovente con la quale aggrediva il ghiaccio. Determinazione scambiata per mancanza di grazia. Tonya faceva troppo rumore. Non è mai stata la presenza docile e leggera che i giudici di gara si aspettavano che fosse, pretendevano che fosse. Non ha mai incarnato la fidanzata d’America. Ed è stata duramente penalizzata. Nella vita così come in gara.

Negli anni in cui Maradona si prodigava per diventare leggenda, Harding vedeva andare in fumo la sua carriera. Quasi come se il mondo non avesse aspettato altro per farla sparire dalla scena.

Ricordo di aver sentito dire che il pubblico ha bisogno di scegliere qualcuno da amare e qualcun altro da odiare: ha scelto per l’ennesima volta di odiare una donna.

Chiara Barison

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Perché parlare ancora di “femminismo”?

Questa domanda si sente ripetere spesso da un po’ di tempo a questa parte. Esiste ancora la necessità di parlare di “femminismo” in un mondo in cui “le donne hanno ormai raggiunto la parità”? Il termine stesso è arrivato ad assumere in certe occasioni una connotazione negativa e l’aggettivo “femminista” ad essere usato anche come “insulto”: “NON SARAI MICA UNA DI QUELLE FEMMINISTE?”.

La verità è abbastanza evidente, anche se, forse, non agli occhi di tutti: la parità, reclamata proprio dalle femministe nel corso dei decenni, è stata raggiunta solo in alcuni ambiti. In tanti altri la si è raggiunta in parte, in molti casi non esiste.

Va anche detto che “la parità”, intesa in senso stretto, può essere un’arma a doppio taglio: ciò che viene ritenuto valido per un uomo potrebbe non esserlo per una donna. Non è soltanto la parità quello che il femminismo ha chiesto da sempre e che continua oggi a chiedere, quanto piuttosto che il mondo smetta di essere un posto non adatto o ostile per il genere femminile.

Il motivo per cui crediamo sia necessario oggi parlare di femminismo e dare voce alle donne di ogni età, cultura ed estrazione (da questo desiderio nasce “Quote rosa”) è perché la vita per molte di esse può ancora essere un inferno. E, chi più, chi meno, spesso inconsciamente, tutte sperimentiamo diversi tipi di oppressione, tutte siamo spesso chiamate a giustificare le nostre scelte di fronte a quella cosa che tanti faticano a riconoscere e nominare chiamata “patriarcato”. Il modo in cui ci prendiamo cura di noi stesse, in cui ci vestiamo, quello con cui approcciamo l’altro sesso e la nostra sessualità, le nostre decisioni lavorative e personali: tutto viene analizzato e giudicato secondo un filtro che ci impedisce di fare scelte libere. Veniamo fin da bambine educate, condizionate, portate a credere che il mondo sia un posto dove i “maschi” possono fare e noi rimanere sullo sfondo a battere le mani. Quelle che rifiutano questo ruolo subalterno, quelle che “ce la fanno”, vedono i loro meriti a volte ridimensionati, se non proprio sviliti, e si tace sul fatto che loro, le donne che hanno sfondato il “soffitto di cristallo”, sono il più delle volte costrette a fare rinunce che all’uomo non verranno chieste mai. E il successo non risparmierà loro la critica costante, anzi, al minimo passo falso verranno immediatamente messe al rogo.

Tutto questo potrà sembrare un vuoto sproloquio ma saranno proprio i contenuti del nostro blog a raccontarvi cosa significa vivere una vita da “quote rosa” in un mondo dove il prototipo ideale è un uomo.
Lo diremo noi e lo diranno altre voci di donne che potranno raccontare la loro esperienza su questa piattaforma.

Fiere di essere donne, fiere di essere “femministe”.

Chiara ed Eleonora, “Quote Rosa”

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