Quirinale, da Cederna a Belloni: tutte le donne (quasi) Presidente della Repubblica

Da qualche giorno circola il nome di Elisabetta Belloni, la donna a capo dei servizi segreti italiani, come possibile figura terza che metta d’accordo le diverse forze politiche chiamate a eleggere, il 24 gennaio, il nuovo Presidente della Repubblica italiana. Se Belloni dovesse effettivamente salire al Colle, sarebbe la prima donna a farlo (come già lo è stata, nel ricoprire la carica che attualmente riveste). Anche se il suo non è l’unico nome femminile apparso nella lunga storia delle elezioni al Quirinale.

Camilla Cederna, Elena Moro e Ines Boffardi

Le prime candidate al ruolo apparvero in sede di scrutinio soltanto 30 anni dopo l’istituzione del ruolo presidenziale. Nel 1978 venne poi eletto Sandro Pertini (1896-1990), prima partigiano, poi politico e giornalista, uno dei più amati presidenti della Repubblica di sempre (il settimo). Ma durante lo scrutinio vennero fatti anche i nomi di Camilla Cederna (1911-1997), giornalista famosa per l’inchiesta realizzata per l’Espresso che costrinse il predecessore di Pertini, Giovanni Leone, a dimettersi; quello di Eleonora Moro (1915-2010), moglie dell’ex presidente del Consiglio assassinato lo stesso anno, Aldo Moro; e il nome di Ines Boffardi (1919-2014), partigiana attiva nelle Sap, le Squadre di azione patriottica, durante gli anni della guerra. Le tre ottennero rispettivamente quattro, tre e due voti. Il futuro presidente Pertini, in qualità di presidente della Camera durante le votazioni di quell’anno, dovette richiamare i colleghi che di fronte ai voti di Boffardi scoppiarono a ridere: «Colleghi, non c’è nulla da ridere, anche una donna può essere eletta!».

Camilla Cederna (Photo by Fototeca Gilardi/Getty Images)

Nilde Iotti

Il nome di Cederna apparve anche nell’elezione successiva, quella del 1985, insieme a quello della partigiana Tina Anselmi (1927-2016), prima donna eletta ministro della Repubblica nel 1976. Anselmi venne candidata anche alle votazioni del 1992, dove ottenne 19 voti. Ma quell’anno fu Nilde Iotti (1920-1999), partigiana e per 13 anni (dal ’78 al ’92) prima donna a ricoprire l’incarico di presidente della Camera, a ottenere un ottimo risultato. Proposta dal partito democratico della sinistra come candidata di bandiera, conquistò 256 preferenze. Molte, se pensiamo a quelle delle colleghe, ma non sufficienti per superare il quorum e venire eletta.

Nilde Iotti (Photo WikimediaCommons)

Emma Bonino

Emma Bonino (1948-), storica leader del Partito radicale e senatrice della Repubblica, è stata nominata per la prima volta alle elezioni del 1999, insieme a Rosa Russo Iervolino (1936-), parlamentare dal ’79 al 2001 ed ex sindaca di Napoli. In quell’occasione le due ottennero rispettivamente 15 e 16 preferenze. Il nome di Bonino è poi tornato in tutte le successive elezioni: nel 2006, insieme a quelli di Anna Finocchiaro, Franca Rame e Lidia Menapace; nel 2013 ancora con Finocchiaro, Rosy Bindi, Paola Severino, Alessandra Mussolini, Daniela Santanchè e Annamaria Cancellieri, nel 2015 insieme al nome di Luciana Castellini. Anche per la votazione del 2022 alcuni avevano parlato di lei, ma  in un’intervista a Repubblica, Bonino ha detto: «Ringrazio tutti quelli che pensano a me, da Roberto Saviano a Carlo Calenda a tutti i militanti che mi scrivono. Ma credo proprio che il mio momento fosse anni fa».

Emma Bonino con il Presidente Sandro Pertini (Photo by WikimediaCommons)

Il “caso Gabanelli”

Una situazione particolare si verificò nel 2013, quando venne fatto il nome della giornalista Milena Gabanelli (1954-). La fondatrice ed ex voce narrante di Report, il noto programma d’inchiesta di Rai 3, fu infatti la più votata alle “quirinarie“: un sondaggio organizzato dal Movimento cinque stelle sul proprio blog per scegliere il candidato che il partito avrebbe poi presentato. Gabanelli ottenne il voto online di 6000 persone ma declinò l’invito: «Credo che per ricoprire un ruolo così alto ci voglia una competenza politica che io non credo di avere».

Milena Gabanelli (Photo by WikiCommons)

I nomi del 2022

Oltre a Belloni e Bonino, quali altre donne sono state indicate per il “toto nomi” del 2022? È tornato quello di Rosy Bindi (1951-), ministra della Repubblica e presidente della Commissione parlamentare antimafia dal 2013 al 2018, tra le “papabili” del 2006. Per l’elezione di quest’anno sono state proposte anche Letizia Moratti (1949-), ex sindaca di Milano e da gennaio 2021 vicepresidente e assessore al Welfare della Regione Lombardia, ed Elisabetta Alberti Casellati (1946-), eletta presidente del Senato nel 2018 su proposta del centrodestra, ma ritenuta valida da tutte le parti politiche. Ugualmente gradita potrebbe essere Marta Cartabia (1963-), prima donna presidente della Corte costituzionale (dal 13 settembre 2011 al 13 settembre 2020) e attuale ministra della Giustizia nel Governo del premier Mario Draghi.

Marta Cartabia (Photo by WikiCommons)

Quelle che “ce l’hanno fatta”

Come abbiamo già detto, la prima a sfondare l’ormai ben noto “soffitto di cristallo” delle istituzioni italiane è stata Nilde Iotti, prima presidente della Camera dei deputati, dal 1979 al 1992. Solo altre due, però, hanno avuto l’occasione di seguirla: Irene Pivetti nel 1994 e Laura Boldrini nel 2013, 19 anni dopo. Per non parlare del fatto che soltanto nel 2018 è stata eletta la prima (e, di conseguenza, l’unica) presidente del Senato donna, ancora in carica: Maria Elisabetta Alberti Casellati. Belloni potrebbe davvero farcela? Come ha detto qualche tempo fa il nostro Presidente della Repubblica uscente, Sergio Mattarella, sarebbe “un sogno, forse una favola”.

Eleonora Panseri

Violenza sulle donne: perché il sistema preventivo fallisce

Juana Cecilia Hazana Loayza aveva già denunciato Mirko Genco, 24 anni, l’ex compagno che le ha tolto la vita il 19 novembre. Era stato arrestato il 5 settembre per atti persecutori e il giorno dopo scarcerato e sottoposto alla misura cautelare del divieto di avvicinamento. Ma il 10 settembre Genco era stato arrestato di nuovo per violazione della misura, violazione di domicilio e ulteriori atti vessatori, riuscendo a ottenere i domiciliari con un patteggiamento a due anni. Anche Vanessa Zappalà, 26 anni, uccisa lo scorso agosto ad Acitrezza (Catania) a colpi di pistola, aveva denunciato per stalking l’ex compagno 37enne Antonio Sciuto. L’arresto dell’uomo, però, non era mai stato convalidato.
Nella relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidi, presieduta dalla senatrice Valeria Valente, viene riportato che solo una donna su sette uccisa tra il 2017 e il 2018 aveva denunciato il proprio assassino. Ma quelle che denunciano non vengono tutelate: lo dimostrano alcune delle storie delle 109 donne assassinate dall’inizio del 2021. A questo si aggiunge il mancato sovvenzionamento dei centri antiviolenza e un ritardo culturale che non viene colmato dal sistema educativo. Dopo ogni femminicidio il solito commento è: “Qualcosa non ha funzionato”. Ma in Italia c’è più di “qualcosa” che non funziona.

“C’è un grande problema: l’assenza di professionalità tra magistrati e forze dell’ordine”, ha dichiarato il giudice Fabio Roia, presidente vicario del tribunale di Milano e componente dell’Osservatorio sulla violenza contro le donne, in un’intervista a Repubblica pubblicata martedì 23 novembre. Avviene spesso che le denunce non vengano prese in considerazione con la necessaria serietà: alcune vittime di violenza raccontano di essere state invitate dalle stesse forze dell’ordine a pensarci due volte prima di formalizzare le accuse. In più, su 118 processi arrivati a sentenza per femminicidio considerati dalla Commissione d’inchiesta istituita sul tema, solo 98 si sono conclusi con una condanna.
“È necessario che chi si occupa di questa materia sia formato su scienze complementari, dalla psicologia all’esperienza quotidiana degli operatori dei centri antiviolenza. Occirre essere in grado di comprendere il ruolo della donna nel ciclo della violenza. Le leggi che abbiamo sono buone ma non vengono applicate con competenza”, prosegue Roia. E conclude: “Dobbiamo essere in grado di proteggere le donne senza limitare la loro libertà. Le donne stanno sei mesi chiuse nelle case rifugio in attesa che i giudici decidano eventuali misure cautelari nei confronti degli uomini che le minacciano. Ma non dobbiamo sradicare dalle loro case e dal loro quotidiano, sono gli uomini che dobbiamo togliere dalla circolazione”.

Non ci sono i soldi per le attività dei centri antiviolenza. Anzi, bisognerebbe dire piuttosto che i fondi ci sono ma non arrivano a destinazione. Lo ha denunciato qualche giorno fa l’ong ActionAid nel dossier “Cronache di un’occasione mancata”, un documento che monitora il movimento dei fondi antiviolenza sul territorio nazionale. Di quelli stanziati per il 2020 solo il 2% del totale è stato effettivamente consegnato a centri e case per donne vittime di abusi (e in sole due regioni: Liguria e Umbria).
A marzo 2020, su iniziativa della ministra per le Pari Opportunità Elena Bonetti, la cifra totale ammontava a 3 milioni di euroma solo poco più di 25mila sono effettivamente arrivati ai centri (meno dell’1%). Il mese successivo, con un bando d’emergenza per gli enti che gestiscono il sistema antiviolenza, la ministra aveva chiesto 5,5 milioni di euro: soltanto 142 hanno potuto farne richiesta perché i soldi venivano distribuiti a quanti erano in grado di offrire una garanzia pari all’80% dell’importo.
A maggio poi è stato istituito il “reddito di libertà“, misura pensata per permettere alle donne vittime di violenza di essere economicamente indipendenti con un contributo massimo di 400 euro al mese per 12 mesi. L’Inps ha pubblicato la circolare per definire le modalità e i requisiti di accesso al fondo l’8 novembre. Da maggio a oggi, quindi, nemmeno un euro dei 3 milioni complessivi stanziati a Centri e Case è stato consegnato. In più, secondo un gruppo di 84 associazioni di donne che gestiscono circa 150 realtà del sistema antiviolenza (la rete D.i.Re), per sostenere tutte le donne che avrebbero bisogno del “reddito di libertà” servirebbero almeno 48 milioni.

In una nota Istat sull’andamento del mercato del lavoro nel primo trimestre del 2021 si leggeva che il 59,3% delle donne fra i 15 e i 34 anni, cioè 6 su 10, non lavora e non cerca lavoro e che le donne inattive per motivi familiari sono più di quelle inattive per studio. Quando si tratta di indipendenza economica femminile spesso si sottovaluta l’importanza che questa assume in contesti familiari violenti.
Promuovere politiche che favoriscano l’assunzione delle donne, la giusta retribuzione e servizi che consentano di ridurre il carico del lavoro di cura, da sempre ritenuto appannaggio quasi esclusivo del genere femminile, permetterebbe a buona parte delle donne di abbandonare compagni e mariti violenti dai quali però, purtroppo, sono costrette a dipendere in assenza di impiego. Situazione che si fa ancora più complessa quando sono coinvolti anche eventuali figli minorenni. La necessità di rendere le donne sempre più autonome economicamente diventa stringente se si osserva l’ultimo report della Direzione centrale anticrimine della polizia: il 36% dei femminicidi è stato commesso da mariti o conviventi delle vittime.

Il fallimento del sistema che dovrebbe prevenire le violenze deriva, forse non del tutto ma sicuramente in parte, da una prolungata assenza della società su questi temi. Dal linguaggio sessista che riempie le pagine dei giornali e i programmi televisivi, all’assenza di progetti educativi capillari negli istituti scolastici che formino i giovani sul tema. Anche nella comunicazione delle iniziative volte a sensibilizzare la popolazione si osservano carenze non indifferenti: la nuova campagna contro la violenza di genere della polizia di Catania si chiama “Aiutiamo le donne a difendersi”, come se il problema riguardasse solo le vittime e non un sistema, una mentalità che da secoli limita l‘autodeterminazione femminile. Come se la causa di questa enorme problematica sociale non fossero gli uomini che le massacrano di botte o le uccidono.

Lavorare sugli uomini sarebbe la cosa più logica da fare e a dirlo sono le statistiche. Per esempio, a Milano è stato sperimentato il “protocollo Zeus” che obbliga gli uomini segnalati per violenze a fare percorsi terapeutici e che ha portato nel capoluogo a una riduzione dei casi recidivi del 90%.
Dal 2006 è attivo il numero di pubblica utilità 1522, tra i pochi strumenti che le donne hanno per denunciare le violenze e il reato di stalking, introdotto nel 2013. Operatrici volontarie rispondono 24h su 24, tutti i giorni dell’anno, sull’intero territorio nazionale e forniscono un primo supporto a quante ne hanno bisogno, offrendo informazioni e indirizzando le vittime, quando necessario, verso i centri antiviolenza. Il numero garantisce l’assoluto anonimato e nel secondo trimestre 2020, a causa del lockdown, l’Istat ha registrato un picco: 12.942 chiamate valide e 5.606 vittime. Uno strumento sicuramente utile ma non risolutivo.
Negli ultimi anni si è parlato con maggiore frequenza di violenza sulle donne ma spesso lo si fa male e non in maniera continuativa e trasversale, quasi a voler dedicare a un tema importante ma complesso solo un giorno, il 25 novembre. Riducendo al silenzio le vittime passate, presenti e future per il resto dell’anno.

Eleonora Panseri

Articolo originariamente pubblicato su Upday news

Perché “The Last Duel” di Ridley Scott è anche un film femminista

Francia, anno domini 1386. Due uomini si sfidano a duello. Uno per difendersi da un’accusa di stupro, l’altro invece si batte per il proprio onore di marito offeso. Al centro dell’arena, posta in alto rispetto ai duellanti, una donna, Marguerite de Carrouges, osserva la scena. Inizia così il nuovo film di Ridley Scott, “The Last Duel“, uscito nelle sale italiane il 14 ottobre e tratto dall’omonimo romanzo del 2004, scritto da Eric Jager. Il noto regista de “Il gladiatore” (vincitore di ben 5 premi Oscar) non poteva che proporre al suo pubblico un film ben fatto, consigliato a chi ama quelli di genere storico-drammatico. Tuttavia, al di là delle belle riprese e della sceneggiatura avvincente, chi ha gli strumenti per notarlo si accorgerà che il vero cuore del film non è il duello riportato nel titolo, ma quella donna che, tremante e incatenata, prega che il marito Jean de Carrouges, trionfi sullo sfidante ed ex amico Jacques Le Gris. Parlare della trama potrebbe in qualche modo portare a spoiler involontari. Quindi, in questo contesto, l’analisi verrà limitata alle tematiche femministe che, più o meno volontariamente, non ci è dato sapere, Scott ha inserito nel suo film.

Dal XIV secolo a oggi possiamo dire che, fortunatamente, la condizione della donna sia migliorata. Ma tra le qualità del regista capace sta quella di saper parlare, attraverso il passato, del presente. Il film racconta la storia di una donna stuprata nel Medioevo ma che ricorda molto da vicino quella delle survivors di tutte le epoche. Infatti, Marguerite, che trova il coraggio di denunciare il suo stupratore, finisce per affrontare tutte le prove che anche una vittima di stupro contemporanea vive sulla propria pelle.

In primis, l’atteggiamento del marito che sfida a duello l’ex amico e compagno d’armi non per un affetto sincero nei confronti della moglie, ma semplicemente per senso di rivalsa e di orgoglio maschile ferito. Marguerite è per Jean un oggetto di sua proprietà sul quale lo stupratore ha impresso un marchio d’infamia: solo il duello all’ultimo sangue potrà cancellarlo e restituire all’uomo la dignità perduta per colpa della consorte. A de Carrouges non interessa la sorte della donna che, nel caso lui perdesse il duello, verrebbe bruciata viva per aver mentito, o l’impatto che questo evento traumatico può aver avuto su di lei. L’uomo vive il fatto in virtù della propria visione del mondo e di come l’evento ha influenzato la sua, di vita.

Qui si passa a un altro interessante esperimento fatto dal regista: la divisione del film in tre parti, ognuna dedicata a uno dei protagonisti, intitolata “La versione di…”. Con questa divisione Scott enfatizza il diverso modo con cui prima Jean, poi Jacques e, per ultima, Marguerite, vivono quello che accade. In ogni versione notiamo particolari che in quella precedente o successiva non erano presenti o sfuggiti allo spettatore perché trascurati dal personaggio al centro di quel momento del film. Ne “La versione di Jacques Le Gris“, l’uomo accusato di stupro pronuncia una frase con la quale fa intendere che le resistenze della donna di fronte a un rapporto sessuale non consenziente per lui fanno parte del rituale della seduzione. Il consenso non è contemplato nella scala di valori di un uomo del Medioevo ma sembra che, in ogni secolo, anche quello attuale, non lo sia nemmeno per molti nostri contemporanei. Almeno questo è quello che emerge spesso dalle storie di donne sopravvissute ad una violenza sessuale. Ogni volta la responsabilità di uno stupro risiede nell’abbigliamento della vittima o nel fatto che fosse ubriaca o drogata e solo dopo nel comportamento criminale dell’uomo.

Le prime che fanno questo tipo di allusioni spesso sono altre donne. E’ ciò che accade anche in “The Last Duel”. Dopo la denuncia di Marguerite, le poche che lei considerava amiche le voltano le spalle, sostenendo in tribunale che, quello stupro, la donna lo desiderava perché una volta aveva riconosciuto a Les Gris di essere un bell’uomo. Il “se l’è cercata” aleggia prepotentemente in ogni scena post-denuncia.

Tra le detrattrici di Marguerite, anche la madre di suo marito che racconta alla nuora di essere stata stuprata a sua volta in gioventù. Ma questo non basta a farla empatizzare con la vittima del nuovo crimine: l’anziana donna la svilisce dicendo che lei, al contrario della ragazza, ha semplicemente scelto di stringere i denti, dimenticare il fatto e continuare con la sua vita. E da questo episodio si può trarre l’insegnamento più bello della pellicola: trovare la forza per denunciare un fatto, per non rimanere in silenzio di fronte a qualcosa che, sì, la società condanna, ma per il quale ti ritiene in parte colpevole pur non essendoci da parte tua alcuna responsabilità, non è facile. Ma alzare la testa e reagire consente non solo di cambiare il proprio destino, anche se tutti credono che sia già scritto, ma pure la sorte delle donne che verranno dopo.

Un film crudo, che lascia allo spettatore sensibile a questi fatti tanti temi su cui riflettere per giorni.

Le conseguenze della pandemia sull’istruzione femminile

Le bambine che nei prossimi anni dovrebbero frequentare la scuola primaria ma che probabilmente non vi accederanno mai sono 9 milioni. Un numero tre volte superiore rispetto a quello dei coetanei maschi. A dirlo è Save the Children in un report uscito in questo mese che offre un’analisi completa delle conseguenze della pandemia di Covid-19 sull’istruzione nel mondo e in Italia. La prolungata chiusura degli istituti e le difficoltà nell’accedere alla rete Internet per seguire le lezioni a distanza potrebbe far crescere nei prossimi anni i tassi di analfabetismo e l’abbandono scolastico. Le persone analfabete nel mondo sono quasi 800 milioni, due terzi di queste sono donne. I paesi più penalizzati sono quelli dell’Asia meridionale e dell’Africa subsahariana. Un esempio: in Sud Sudan il tasso di scolarizzazione e di alfabetizzazione delle ragazze è il più basso del mondo, ogni cento maschi, solo 75 femmine sono iscritte alla scuola elementare, e meno dell’1 per cento la conclude.

La principale causa di esclusione di bambine e ragazze dal contesto scolastico è la discriminazione di genere. Nei paesi più poveri le difficoltà per accedere all’istruzione interessano in maniera indiscriminata maschi e femmine, ma se una famiglia ha la possibilità di investire sul futuro dei propri figli la scelta ricadrà sempre sui maschi. Appena raggiungono la giusta età per farlo, alle figlie femmine si impone la cura della casa e dei fratelli più piccoli. In molte realtà del mondo, infatti, specialmente in quei paesi dove gli stereotipi sessisti sono più forti, l’unico futuro possibile per le bambine è quello di mogli e madri. Quelle poche studentesse che riescono a frequentare la scuola non trovano personale docente femminile che possa in qualche modo costituire un modello per loro e la mancanza di servizi igienici adeguati le costringe a dover rinunciare alle lezioni per tutto il periodo delle mestruazioni. Anche le strade poco sicure da percorrere per tornare a casa sono un grave problema perché, se non avviene già all’interno della famiglia, le bambine rischiano di essere vittime di violenze e abusi. A tutti questi problemi spesso si aggiunge quello della guerraSecondo il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef), nei paesi interessati da conflitti armati “le bambine hanno una probabilità doppia di interrompere le lezioni rispetto alle coetanee negli Stati politicamente stabili”.

In un’indagine pubblicata l’8 marzo sempre dall’Unicef, è stato segnalato il pericolo di un aumento esponenziale a causa del Covid dei matrimoni forzati tra ragazze minorenni e uomini adulti. Si legge nel rapporto che prima della pandemia si prevedeva che le bambine costrette a sposarsi prima dei 18 anni sarebbero state più di 100 milioni in 10 anni. Oggi a queste potrebbero aggiungersene altri 10 milioni. Molte famiglie, a seguito della recessione economica, si sono trovate senza i mezzi per sostentare l’intera famiglia. Per questo, il matrimonio di una figlia, anche se minorenne, a molti sembra la scelta migliore. Per non parlare del fatto che con la chiusura delle scuole e la sospensione di molti servizi di assistenza alle famiglie le ragazze sono tornate a occuparsi, insieme alle madri, di tutta una serie di mansioni di cui gli uomini non sono in grado di occuparsi o rifiutano di farlo. A tutto questo si aggiunge, in molti paesi dove a mancare sono anche l’acqua potabile o la corrente elettrica, l’assenza della rete Internet e dei dispositivi necessari per seguire eventuali lezioni da remoto.

Impedire a una ragazza di frequentare la scuola è, in primis, la negazione di un diritto fondamentale della persona. Infatti, come si legge nel primo comma dell’articolo 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo approvata dall’ONU nel 1948, “ogni individuo ha diritto all’istruzione. L’istruzione deve essere gratuita almeno per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali. L’istruzione elementare deve essere obbligatoria. L’istruzione tecnica e professionale deve essere messa alla portata di tutti e l’istruzione superiore deve essere egualmente accessibile a tutti sulla base del merito”. In più, la promozione delle pari opportunità in ambito scolastico permetterebbe alla società di crescere e progredire nel suo insieme. Consentire alle bambine di avviare un percorso di studi che gli permetta di inserirsi in futuro nel mondo del lavoro porterebbe a un aumento della produttività, del reddito delle famiglie e, di conseguenze, alla crescita economica di un paese. L’Unicef ha anche sottolineato come spesso le donne istruite siano più attente e informate riguardo alla propria salute e a quella dei propri figli. Nei paesi dove alle ragazze è consentito studiare si è verificata una diminuzione significativa di violenze, sfruttamento, gravidanze precoci o indesiderate e di malattie come l’infezione da HIV.

Eleonora Panseri

Articolo originariamente pubblicato su news.upday.com

2 giugno 1946: il primo voto nazionale delle donne italiane

Monarchia o Repubblica?

La fine della dittatura fascista rappresentò per l’Italia l’inizio di una nuova fase politica.

75 anni fa nasceva la Repubblica italiana ma questa non fu l’unica novità portata da quel 2 giugno.

Per la prima volta in una votazione nazionale venne chiesto anche alle donne di esprimere una preferenza. Le italiane esercitarono il diritto di voto per cui tante avevano lottato (tra loro, la partigiana Marisa Rodano).

Con l’introduzione del suffragio femminile in Italia (il 10 marzo in occasione delle elezioni amministrative) alle donne venne riconosciuto lo status di cittadine a tutti gli effetti, quello fu il primo passo verso una parità che purtroppo non è stata ancora raggiunta.

Tuttavia, le rivendicazioni che vennero dopo, per il diritto all’aborto, il divorzio, la parità salariale, e quelle che verranno partono anche da quel 10 marzo e da quel 2 giugno.

Quando, per la prima volta, le donne uscirono di casa e dissero: “Oggi vado a votare”.

Eleonora Panseri

“Libera di abortire”, la nuova campagna di Radicali Italiani

“Siamo davvero libere di abortire?”

Questa è la domanda con cui i Radicali Italiani e un gruppo di associazioni lanceranno oggi, lunedì 24 maggio, a Milano con una conferenza stampa alle 11.45 nella sede dell’Associazione Enzo Tortora Radicali Milano e in diretta Facebook la loro nuova campagna, “Libera di abortire“. Per “garantire il libero accesso all’aborto“, come si legge sul sito dedicato al progetto.

Presentata qualche giorno fa anche a Roma e Pescara, l’iniziativa nasce con l’obiettivo di informare sulla pratica dell’aborto e di denunciare una situazione che in Italia vede una diffusa disinformazione sull’argomento e un numero altissimo di obiettori. A questo si aggiungono le scelte politiche di amministrazioni anti-abortiste che rendono ancora più difficile per gli/le/* cittadin* l’accesso all’aborto.

In Italia tante donne sono ancora oggi sottoposte a violenze fisiche e psicologiche, anche se, grazie alla legge 194 approvata 43 anni fa, l’aborto nel nostro Paese non dovrebbe più essere né un crimine né uno stigma.

La critica dei Radicali è rivolta all’impegno dello Stato che risulta carente nel fornire a tutti gli strumenti per vivere la propria sessualità in maniera consapevole, per conoscere e accedere all’IVG (l’Interruzione Volontaria di Gravidanza) e alle sue alternative.

E’ possibile sostenere “Libera di abortire” in due modi: finanziando uno dei manifesti che racconteranno le storie e i pensieri di attivist* che hanno subito violenze per aver scelto responsabilmente di abortire o/e firmando l’appello rivolto al Ministro della Salute Roberto Speranza.

Sul sito della campagna potete trovare maggiori informazioni. Qui invece trovate la pagina dove firmare l’appello e qui quella per cofinanziare i manifesti.

Eleonora Panseri

Perché è sbagliato dire “il femminismo contro il ddl Zan”

Il dibattito sul ddl Zan, la proposta di legge contro omolesbotransfobia, misoginia e abilismo presentata dal deputato del PD Alessandro Zan, approvata alla Camera a novembre e recentemente calendarizzata per la discussione in Senato, ha spaccato a metà il mondo della politica e la società civile. Una divisione abbastanza netta: contrari vs. favorevoli.

In questo contesto, ha destato stupore il fatto che anche 17 associazioni femministe italiane si siano schierate contro il disegno di legge (insieme a singol* privat* cittadin*). A seguito della nota stampa firmata da Udi Nazionale, Udi Napoli, Collettivo Luna Rossa, Associazione Freedomina, Associazione TerradiLei-napoli, Arcidonna, Associazione Salute Donna, RadFem Italia, In Radice- per l’Inviolabilità del corpo femminile, Se Non Ora Quando Genova, I-Dee, Associazione Donne Insieme, Arcilesbica, Arcilesbica Magdalen Berns, Associazione Trame, Catena Rosa, Ide&Azioni Associate, alcune testate hanno titolato: “Il femminismo contro il ddl Zan”.

Ma qui c’è un errore di cui bisogna parlare.

Il femminismo non è mai stato una religione o un pensiero politico che non ammette contestazioni. Dalla sua nascita il movimento ha conosciuto fasi diverse e racchiuso in sé più correnti.

Tra queste, quella delle TERF ( le “Trans-exclusionary radical feminists”). Le femministe radicali transescludenti non riconoscono le donne trans come tali e scelgono di lottare solamente per quelle che definiscono come “donne nate donne” (per citare un esempio noto, la scrittrice J.K. Rowling). In Italia, i gruppi TERF sono tanti ed è infatti il concetto di genere espresso nel ddl che questi gruppi contestano (non necessariamente l’intero disegno di legge e i motivi che l’hanno ispirato).

Sono libere di farlo.

Per il femminismo intersezionale il disegno di legge dell’onorevole Zan è un provvedimento giusto, che va sostenuto. Per le TERF no. E da qui potrebbe e dovrebbe nascere un dibattito costruttivo.

Anche le testate devono essere libere di riportare quanto accade e di scrivere “il femminismo/le femministe contro il ddl Zan”.
C’è la necessità, tuttavia, oggi più che mai, di parlare correttamente di femminismo.

Un movimento che non è solo uno (si parla infatti spesso di “femminismi“) e che ha una storia, alla base della quale c’è sempre stata l’idea che noi donne fossimo tante, tutte differenti, ognuna degna di essere ascoltata e rispettata.

Eleonora Panseri

Le Femen son tornate

Le femen son tornate. In realtà non se ne sono mai andate. In questi giorni si stanno svolgendo le elezioni amministrative a Madrid e non sono mancate le proteste. Cinque attiviste del collettivo femminista Femen sono state fermate dopo aver protestato davanti al seggio in cui votava Rocìo Monasterio, candidata di estrema destra del gruppo Vox.

Nate nel 2008 a Kiev, in Ucraina, da un’idea di tre amiche Oksana Šačko, Hanna Hucol e Inna Shevchenko per dare una svolta alla lotta al turismo sessuale, al sessismo e alle discriminazioni sociali. Solo in Ucraina si contano più di 300 attiviste tra i 18 e i 30 anni, ma ormai sono presenti gruppi in tutta Europa. Quello spagnolo è solo l’ultimo dell’elenco. La loro forza? Fare del proprio corpo una bandiera, lo stesso corpo femminile spesso vittima di abusi e disprezzo. Come? Mostrando il proprio seno in modo fiero, quasi noncurante. I seni come un’arma. I controversi seni, amati e violentati dagli uomini che ancora non sanno riconoscere il valore delle donne nella società. «È l’unico modo per farsi ascoltare in questo Paese», così hanno giustificato la propria scelta. E bisogna dire che ha funzionato: sono protagoniste delle manifestazioni di tutta Europa e dal 2012 la Francia ha riconosciuto ufficialmente l’associazione.

Ovviamente non mancano le polemiche. Chi le considera eccessive e chi, come la giornalista Daryna Chyzh ne ha evidenziato le ombre. Per il suo reportage si è fatta reclutare nel gruppo: dopo essere stata fotografata a seno nudo, ha seguito un vero e proprio training per imparare a svestirsi in pubblico in modo da attirare l’attenzione. La giornalista sostiene anche che le Femen percepirebbero un compenso mensile di circa 1000 euro, oltre al rimborso spese in caso di trasferta. Inoltre, non sarebbero poche le personalità del jet set europeo a celarsi dietro l’organizzazione.

Chiara Barison

Alessandra Galloni è la nuova direttrice di Reuters

Decisione storica per Reuters.
La giornalista italiana Alessandra Galloni sarà la nuova direttrice della nota agenzia di stampa che, fondata nel 1851 da Paul Julius Reuter, nei suoi 170 anni di storia non era mai stata guidata da una donna.
A fine aprile Galloni prenderà il posto di Stephen J. Adler, vincitore di sette premi Pulitzer e a capo dell’agenzia dal 2011, che lascerà la direzione per andare in pensione.

Nata a Roma nel 1974, Galloni si è laureata nel ’95 ad Harvard, ha conseguito un master alla London School of Journalism nel 2002 e ha lavorato al Wall Street Journal per 13 anni. Dal 2013 in Reuters la nuova direttrice si è occupata di economia e finanza come corrispondente da Londra, Parigi e Roma.

“Sono onorata di dirigere una delle migliori redazioni del mondo!” ha scritto Galloni sul suo account Twitter.

Anche Vincenzo Amendola, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega agli Affari europei, ha salutato con entusiasmo la nomina della neo direttrice, twittando: “In bocca al lupo ad Alessandra Galloni, prima donna a guidare Reuters in 170 anni. Orgoglio italiano”.  

Eleonora Panseri

Trovate la notizia anche nel GR del 13/4/2021 sul canale Youtube di Radio Sestina, la radio della Scuola di giornalismo “Walter Tobagi”.

“Non tutti gli uomini…”: alcune considerazioni

Quante volte abbiamo sentito dire la frase “non tutti gli uomini”? Trasformata anche in un hashtag, #notallmen, è diventata molto famosa fuori e dentro la rete (un hashtag che è anche recentemente tornato nei trend di Twitter).
È assolutamente vero, bisogna riconoscere che buona parte degli uomini non ha comportamenti criminali nei confronti delle donne, MA CHE FORTUNA! (percepite l’ironia?). Sarebbe allo stesso tempo giusto e più che legittimo però chiedersi se per contribuire al benessere e alla sicurezza di tutte le donne (non solo di quelle che rientrano nella propria sfera di affetti) basti solo non molestare, stuprare, uccidere.

Il “non tutti gli uomini” è, per certi versi, un imbarazzante tentativo di togliersi il noto “sassolino dalla scarpa”. Può capitare che, quando si intavola un discorso su un tema caro al femminismo, alcuni uomini usino questo tipo di retorica per non dover discutere oltre: “Non siamo tutti così, non infastiditeci oltre”. Ma la questione è decisamente più complessa di così.

Quello che questi uomini potrebbero fare non è dire “Non faccio le cose sbagliate che fanno gli altri”, rifiutare quindi in blocco la responsabilità di atti sicuramente individuali che, tuttavia, se inseriti in un contesto ben più ampio, in un’ottica di violenza di genere, possono essere ricondotti a una più comune “responsabilità maschile”. Riflettere su quello che fanno o potrebbero fare di più è invece il nodo essenziale del discorso.

Per molte femministe il contributo degli uomini non è necessario ma, quando si combatte una guerra, possono essere utili anche truppe mercenarie per riuscire a vincere il nemico. Insomma, possiamo farcela da sole ma un aiuto in più non guasterebbe. Il problema è che non tutti ma tanti (ancora troppi) uomini non riescono (o non vogliono) stare zitti e ascoltare. Provare a comprendere chi certe dinamiche le ha vissute per secoli e le vive ancora sulla propria pelle ogni giorno non è una perdita di tempo. Per non parlare della vecchia scusa del “eh, ma voi femministe siete troppo aggressive”, con la quale il più delle volte chiudono qualsiasi canale di comunicazione.

Se lo saranno mai chiesti perché siamo così incazzate?

Rifiutare un confronto o cercare in tutti i modi di mettere in ridicolo il proprio interlocutore quando si tratta la parità di genere o il femminismo; minimizzare una violenza, di qualsiasi genere essa sia (e, no, le molestie per strada e il catcalling non sono “complimenti”), o insinuare che una ragazza “se la sia cercata”; parlare di donne in maniera irrispettosa o mostrare “solo tra amici”, senza necessariamente condividerle su chat/social, foto intime di ragazze che non hanno dato esplicitamente il loro consenso . La lista potrebbe continuare all’infinito. Questi non sono reati ma sono atteggiamenti molto diffusi ed estremamente dannosi perché permettono a un certo tipo di retorica e di pensiero tossico di sopravvivere e di generare i già citati fatti ben più gravi che “non tutti gli uomini” fanno.


La convinzione che la situazione possa cambiare resta, così come la speranza che sempre più uomini dicano: “Cambiamola insieme“.

Eleonora Panseri

Vivere da “Invisbili”

A chi crede che oggi il femminismo non abbia senso o che sia lesivo per la società e per le donne stesse bisognerebbe far leggere questo libro. Non è un testo semplice ma deve essere annoverato tra gli “essenziali” per capire come molte rivendicazioni del movimento femminista non siano semplicemente frutto del delirio collettivo di una massa informe di pazze.
Caroline Criado Perez, scrittrice, giornalista e attivista, ha pubblicato “Invisibili” l’anno scorso, una riflessione che di astratto non ha nulla. Nelle oltre 400 pagine di questo saggio, forse uno dei migliori del 2020, l’autrice parla di dati. O, meglio, di dati raccolti che non vengono presi in considerazione. In una realtà come quella in cui viviamo oggi i data sono strumenti essenziali e lo sono sempre stati perché è proprio sulla base di queste informazioni che costruiamo il mondo che ci circonda.

Cosa c’entra tutto questo con il femminismo?
La risposta ce la dà direttamente Criado Perez nella sua Prefazione:

“La storia dell’umanità, così come ci è tramandata, è un enorme vuoto di dati”.

L’autrice parla di quel fenomeno, il gender data gap, la mancanza di dati di genere, che impedisce alle donne di vedersi realmente rappresentate nelle società in cui vivono e operano. E se, come si legge nel libro, doversi vestire pesante anche in estate perché l’aria condizionata è regolata in base alla media della temperatura dei corpi maschili o dover compire uno sforzo per raggiungere i prodotti posti su scaffali che per un uomo sono di un’altezza adatta ma troppo alti per le donne possono sembrare cose “stupide”, paranoie femminili, decisamente più grave è “avere un incidente su un’auto con dispositivi di sicurezza che non tengono conto delle misure femminili” o “avere un attacco di cuore che non viene diagnosticato perché i sintomi sono considerati “atipici”.

Questa assenza di dati il più delle volte non è intenzionale, ci mancherebbe. Ma negare cocciutamente che questa disparità non esista è pura follia.

“La mia tesi è che il vuoto dei dati di genere sia al tempo stesso causa ed effetto di quella sorta di non-pensiero che concepisce l’umanità come quasi soltanto maschile”,

dice Criado Perez. E chi sostiene il contrario si troverà in difficoltà di fronte alla mole di dati raccolti dall’autrice e divisi per temi. Dalla vita quotidiana a quella pubblica e nei luoghi di lavoro, dalla salute alla rappresentazione femminile, la realtà viene filtrata attraverso quei numeri che spesso continuano a non essere considerati e che potrebbero invece aiutare ad avvicinarci di più ad un mondo paritario.

Leggete questo libro, parlatene, continuate a lottare se credete che ci siano ingiustizie che non possono e non devono continuare ad esistere. Questo libro Caroline Criado Perez lo dedica a tutte noi:

Per le donne che non mollano: siate sempre maledettamente difficili”.

Eleonora Panseri

Regola numero uno del lockdown: non guardare vecchie serie tv

È di questi giorni la conferma dell’uscita di un sequel di Sex and the City, telefilm cult degli anni 2000: si chiamerà “And just like that…” e seguirà la vita di 3 delle quattro protagoniste della serie originaria.

Ora, qui scatta una grande domanda, e non si tratta di valutare se bannare Trump dai social media sia giusto o sia una lesione della libertà di espressione. La questione è: ci serve davvero l’ennesima serie fintamente femminista nel 2021? Non ho la soluzione universale al problema, ma di sicuro mi sono fatta un’idea, e da donna voglio condividere il mio rapporto di amore e (più recentemente) odio con questa serie per rispondere.

Ho 15 anni e sono iscritta al liceo Classico di una cittadina di provincia del Piemonte orientale che mi sta terribilmente stretta. Ho mille sogni nel cassetto e altrettante ambizioni rinchiuse nell’armadio. I fighetti vanno in giro con degli improbabili jeans Richmond con l’inequivocabile scritta RICH stampata sul sedere (non negatelo, è come la mutanda con l’elastico logato di Calvin Klein… l’abbiamo fatto tutt*.)

Il mio telefilm preferito è Sex and the City (non era ancora uscito Lost, non giudicatemi). Carrie Bradshaw, la protagonista, 30enne bionda magrissima, scrive un editoriale su “The New York Star” dove parla di sesso, cuori spezzati et similia, vive a Manhattan, ha più scarpe che fidanzati e va in giro con le stesse borse firmate che ogni tanto vedo anche nell’armadio di mia madre (e che puntualmente le rubo, scusa mamma).

Insomma il dream factor di questa serie colpisce e rapisce quell’adolescente un po’ superficiale e illusa che è in me.

Ho 31 anni, è un pomeriggio di metà novembre, affronto l’ennesimo momento di lockdown dell’anno e, tra lo scocciata e l’annoiata, accendo la tv. La rivelazione: su Sky Atlantic trovo Sex and the city, la serie completa. Emozionata, decido di iniziare una maratona della serie che ha segnato la mia adolescenza. Seleziono la prima puntata della prima serie e incomincio.

In un secondo torno nel 1998, il pilot esce il 6 giugno* ed è una serie rivoluzionaria perché per la prima volta sul piccolo schermo compare, signori e signori…la donna single! Anzi, ancora meglio.

La donna single indipendente, con un buon lavoro, che le permette addirittura di mantenersi da sola accumulando baguette di Fendi e vestiti disegnati da John Galliano. La donna single che in macchina da sola, allo sportello del drive-in, chiede “un cheeseburger, patatine grandi e un Cosmopolitan”. La donna single che osa addirittura parlare di sesso in modo disinibito, di uscire con un uomo una mezza sera, che se lo porta a letto e il mattino dopo lo restituisce al mondo, o dove l’ha trovato, dimenticandoselo per sempre. La donna che nella secolare diatriba “donna riproduttrice / produttrice” sceglie di ignorare gli istinti materni per dedicarsi alla carriera.

Tra l’altro Carrie Bradshaw è talmente moderna che lavora da casa (nel suo piccolo ma meraviglioso bilocale nel West Village, ça va sans dire) con quella bomba del suo Macbook, quando noi eravamo ancora i fedelissimi di quei pc squadrati, pesanti, brutti, di quell’orripilante grigio antracite ed è quindi antesignana dello “smartworky contiano”, passatemi il neologismo.

Ora, dimentichiamoci per un attimo di alcune incoerenze devastanti che riporterò con la stessa brutalità con cui gli autori ce le hanno sbattute in faccia all’epoca: Carrie scrive quattro righe al mese su un giornale, ma vive a Manhattan, compra scarpe da 400$ a paio (quattrocento dollari, nei primi anni 2000), frequenta locali e feste esclusive e concediamoglielo, ogni tanto ammette di avere il conto in rosso (guarda un po’!) ma continua imperterrita la sua vita scintillante, e beata lei!, mi permetto di aggiungere.

Torniamo a noi. Dicevamo: vent’anni fa è una serie innovativa. Oggi…no. Quindi il punto è: cosa non funziona oggi della serie e perché io, che mi sento fortissimamente donna, sento l’esigenza di condividere alcune questioni che mi hanno scosso.

Il problema fondamentalmente è a monte, ed è molto semplice: è scritta da un uomo, Darren Starr, e di conseguenza il punto di vista è maschile.

Le protagoniste sono tratteggiate secondo i soliti cliché: Carrie e le sue amiche sono quattro gnocche (scusate il francesismo) super perfette in tutto. Io sono una normalissima single che non cambia pettinatura ad ogni stagione (i miei capelli sono lunghi e spettinati dal 1989), che deve rinunciare all’ennesimo paio di scarpe firmate perché una persona che si mantiene da sola non si può permettere di vedere il conto in rosso, che apprezza anche le relazioni complicate per non annoiarsi troppo ma si stufa comunque di un uomo in 30 ore massimo, e che nonostante vada a correre per km da anni, inizia a intravedere i primi segni di cellulite.

Alle certezze granitiche che Carrie poeticamente scrive sul suo spazio media contrappongo insicurezze quotidiane e indovinate un po’? Neanche un terzo delle mie problematiche è dovuto agli uomini (come diceva Jay Z, “I got 99 problems but the man ain’t one”. No, forse non faceva così ma comunque…).

E ho tantissime amiche che stanno costruendo carriere grandiose senza l’aiuto di nessuno, che si risolvono i loro problemi da sole, rimboccandosi le maniche, e che vivono benissimo con o senza un uomo (pazzesco, no?). E farò nomi perché è arrivato il momento di supportarci e valorizzarci, sempre: Giulia, Sofia… forse non ve lo dico mai, mea culpa!, ma a voi va il mio più grande moto di stima.

Ma torniamo a Carrie e al suo mondo dorato. Non esiste ancora il movimento Me too, ma siamo nel 1998 (il 1968 è passato da trent’anni ma la situazione rimane questa), e la posizione sociale della donna ce la vuole raccontare…un uomo. Per citare Rebecca Solnit, che scrive meglio di me, sintetizzerei il tutto con…”gli uomini che spiegano le cose”. Con la prospettiva di oggi parleremmo di mansplaining, o il “minchiarimento” di murgiana memoria. Il Post lo definisce come “l’atteggiamento paternalistico di alcuni uomini (ma non solo) quando spiegano a una donna qualcosa di ovvio, oppure qualcosa di cui lei è esperta, perché pensano di saperne sempre e comunque più di lei oppure che lei non capisca davvero.” Qui l’articolo in cui se ne parla, e qui potete trovare un “bell’esempio” recente: il caso “Parrella-Augias” che ha coinvolto la scrittrice Valeria Parrella, Giorgio Zanchini e Corrado Augias. Gli ultimi due sono giornalisti, a mio parere, validi e indubbiamente competenti ma sulla questione femminista hanno fatto obiettivamente un fin troppo evidente scivolone. E, non senza una certa arroganza, in questi momenti dovremmo rispondere: “Scendi dal piedistallo, tu sei un uomo e, quindi, questa questione vorrei spiegartela io”. Visto che abbiamo subito il patriarcato per secoli, se una volta ogni tanto vi spieghiamo noi qualcosa, miei cari uomini, va bene così.

Il punto è: gli uomini possono parlare di femminismo? Si, certo. Devono. Vogliamo sapere il loro punto di vista. E abbiamo bisogno di uomini femministi. Ma devono abbandonare quell’atteggiamento saccente che si portano dietro dalla notte dei tempi, perchè sulla questione non ne sanno più di noi. Esempio pratico: io, donna bianca e privilegiata, dall’altro della mia fortuna, posso parlare di “Black Life Matters”? Probabilmente si e sinceramente mi sento in dovere di supportare questo movimento. Ma posso mai permettermi di spiegarlo ad una donna di colore che subisce il suo destino da millenni? Assolutamente no.

Un’altra tematica che ho sempre sottovalutato, ma questa volta non mi sono fatta sfuggire: il rapporto tra donne. La narrazione è fortemente stereotipata, per usare un eufemismo. Le 4 amiche si supportano tra loro, hanno un rapporto così perfetto che può esistere solo ed esclusivamente nella finzione cinematografica: il tipo di rapporto che forse alcune di noi vorrebbero avere con le loro amiche. Ma la cosa che mi colpisce di più (in negativo, sia chiaro) è la cattiveria con cui scagliano giudizi nei confronti delle altre donne, avvalorando quel tremendo cliché che vede le altre donne come le più temili nemiche delle donne. Se non fai parte del mio ristretto gruppo sociale, sei la nemica. Terribile.

E infine, quello che ha definitivamente distrutto il mito: la realtà è che, tra alti e bassi, cuori più o meno spezzati, relazioni più o meno lunghe e più o meno significative, tutte e quattro le protagoniste cercano, per ben sei stagioni e due film, il grande amore della loro vita e si sposano. Se questa cosa non vi ricorda niente, vi dico io con una parola sola che cosa ricorda a me. Patriarcato.

L’obiettivo della donna, anche se indipendente, è quello: accasarsi. Vogliamo veramente tutte solo questo? Il grande amore da sposare un giorno?

Tra l’altro Carrie, la super esperta di sentimenti, alla fine sceglie proprio lui, “Mr Big”, il gran figo che mette sempre davanti il suo lavoro a tutto il resto, quello che la prende e la lascia mille volte, quello che ogni tanto è così inebetito e indifferente che viene lasciato perché non ha neanche voglia di lasciare, quello che alla fine le chiede di sposarla e la abbandona all’altare senza nessuna ragione (se non quella narrativa di riempire due ore di film, voglio sperare).

E no, questa non è una relazione romantica, non è un amore struggente, M.r Big non è Heathcliff, e Carrie non è “una di noi“. Questo è proprio un messaggio sbagliato (del resto mi piace ricordarlo di nuovo, la serie l’ha ideata un uomo). E ragazze: se un uomo vi tratta così, per favore, non accettate questo tipo di comportamento. Il mio consiglio è di riportarlo dove molto probabilmente l’avete trovato: nel cassonetto del non riciclabile.

Ho passato l’adolescenza a sognare Carrie, le sue amiche, le sue gambe perfette, il suo guardaroba, la sua Saddle di Dior, il suo Mac, il suo lavoro, New York, i Cosmo, i taxi che si fermano con uno schiocco delle dita, i discorsi osé di Samantha, Mr. Big, Hayden, la fuga d’amore a Parigi…

Oggi a pensarci impallidisco. Sono sicura che, se la donna che sono diventata oggi avesse visto Sex and the city quindici anni fa, probabilmente avrebbe abbandonato tutto alla seconda puntata. Sicuramente chi sostiene la tesi secondo la quale questa serie sia femminista risponderebbe a qualsiasi mio commento con una frase del genere: “Ricordiamoci che è una serie del 1998.”

Vero. Ma vorrei comunque ribattere, e lo farò nel seguente modo.

1929, Virginia Woolf pubblica “Una stanza tutta per sé”.

Era femminista quando è stato pubblicato? Si.

Lo si può considerare tale anche oggi? SI.

1949, Simone de Beauvoir pubblica “Il secondo sesso”.

Era femminista allora? Si.

Lo è ancora oggi? SI.

Leggere per credere. Non capisco se la serie sia anacronistica, se siamo cambiate, se il mondo è diverso da 15 anni fa e la dinamica femminista negli ultimi anni si è fortunatamente evoluta. Forse, come canta Mia Martini “quando la moda cambia, la gente cambia”. E io, che sono indubbiamente cambiata, non sono più tanto sicura che una serie così faccia bene a noi donne. Quindi reiterare questi messaggi attraverso una serie sequel forse non è una scelta femminista. Anzi. E tu, mia cara Carrie Bradshaw, perdonami, ma sei esattamente il tipo di donna che io oggi non voglio essere.

*(una nota: in Italia, la nazione in cui si arriva sempre in ritardo su ogni cosa, va in onda il 10 marzo 2000, non ridiamo).

Ode alle streghe

Qualche giorno fa io e Chiara ci siamo ritrovate insieme a riflettere su uno dei personaggi più famosi del folclore italiano, la Befana, e nel giorno a lei dedicato, il 6 gennaio, ci è anche sembrato giusto restituire spazio ad un’altra figura ad essa vicina che nei secoli è stata a lungo temuta e vessata, quella della strega.
Se ci pensiamo bene, Babbo Natale e la Befana fanno, con alcune piccole variazioni, la stessa cosa: durante le feste portano doni ai bambini buoni, puniscono invece quelli che si sono comportati male. Entrambi sono molto vecchi, esistono praticamente da sempre, ma l’anzianità del primo non viene percepita come sgradevole; quella della seconda le dà, al contrario, un aspetto trasandato (tant’è che il termine è entrato nell’uso comune per definire una donna non avvenente). Dunque, tirando un po’ le somme, la Befana è una vecchia e, quindi, brutta, fondamentalmente una strega, che porta carbone a chi non si merita i dolci. Non stupisce il fatto che Babbo Natale le venga di gran lunga preferito…

Ma chi l’ha detto che le streghe sono orrendamente vecchie e sempre malvagie?
Come ci racconta Mona Chollet nel suo libro Streghe. Storie di donne indomabili: dai roghi medievali al #metoo, l’immagine della strega come la conosciamo oggi arriva da un passato non troppo recente. La lotta alla stregoneria portata avanti dall’Inquisizione ha fortemente contribuito a crearla ed è stata più volte riproposta senza essere, se non di recente, oggetto di rilettura.
Gli stessi classici Disney con i quali molte di noi sono cresciute hanno al centro della storia lo scontro fra bene e male, incarnati rispettivamente dalla principessa e dalla strega. La seconda, guarda caso, è sempre cattiva, destinata ad essere sconfitta, mai dalla principessa sua vittima ma sempre dal valoroso principe (sulla storia del “principe che ci salva sempre” non voglio dilungarmi ora, forse lo farò prossimamente…). Solo negli ultimi anni sono stati realizzati prodotti culturali e d’intrattenimento nei quali ci sono principesse che possono talvolta essere “cattive” (pensiamo ad Elsa di “Frozen”, per esempio) e che “si salvano da sole”. In alcuni casi vengono aiutate da personaggi maschili che possono dare una mano alle protagoniste. Queste, tuttavia, (e grazie al cielo, aggiungerei) riescono ugualmente, con o senza aiuto, a realizzare grandi imprese: un bel messaggio per le bambine di oggi che possono riconoscersi in queste eroine e iniziare a considerare il loro ruolo non accessorio, il loro contributo fondamentale.

Ma torniamo alle nostre streghe…

Crescendo e studiando la storia, quella con la S maiuscola, abbiamo avuto modo di rivedere la narrazione che ci è stata proposta. La figura della maga esiste praticamente dalla notte dei tempi: sacerdotesse, guaritrici et similia sono state e sono ancora presenti in molte società con un valore tutt’altro che negativo. I secoli durante i quali ha operato l’Inquisizione sono stati riconosciuti come uno dei periodi più bui della storia dell’Occidente, nel quale quest’istituzione si è “divertita” a perseguitare e processare migliaia di persone, principalmente donne. Lo ha raccontato anche la giornalista Ilaria Simeone nel suo libro “Streghe. Le eroine dello scandalo”, nel quale ricostruisce tre processi per stregoneria della fine del ‘500, del ‘600 e ‘700.
Per quasi cinque secoli, dal 1326* al 1782** (è del 1487 il “Malleus Maleficarum”, il “Martello delle streghe”, testo cardine della caccia alle streghe), le accuse rimasero praticamente invariate: essere in combutta con il demonio, operare sortilegi mortiferi, avere costumi sessuali non conformi con altre streghe e stregoni o con animali e creature demoniache. Nonostante molte di queste fossero pure illazioni, a seguito di torture atroci molte donne furono costrette a confessare azioni mai compiute (le condanne arrivavano anche in assenza di confessione e, come già detto, di prove). Quelle che venivano considerate colpevoli erano punite con l’allontanamento dai luoghi in cui erano nate e cresciute, marchiate con orribili mutilazioni e, nel peggiore dei casi, uccise sul rogo.

La verità tuttavia è che tante “streghe” erano tutt’altro che persone malvagie o emarginate: non tutte vivevano ai limiti della società, alcune facevano addirittura parte della nobiltà. L’unica loro “colpa” era quella di non essere quello che ci si aspettava dal loro genere in quell’epoca. Le vittime della “caccia alle streghe” erano levatrici, balie e guaritrici, a cui tanti si rivolgevano per i motivi più disparati, donne che non si facevano mantenere ma che guadagnavano il proprio denaro e che venivano accusate di praticare la stregoneria quando qualcosa andava storto, se un bambino nasceva morto o se il sortilegio d’amore che avevano fornito a chi lo aveva richiesto non sortiva gli effetti desiderati. Erano vedove che avevano deciso di non risposarsi, cosa che non si addiceva alle donne per bene in una società dove queste erano ancora considerata un “bene” posseduto da un uomo. Streghe erano anche quante per mestiere o libera scelta avevano tanti partner sessuali.
Insomma, donne considerate scomode perché volevano autodeterminarsi e non essere definite da altri, perché volevano rispondere delle proprie azioni e non essere dipendenti da qualcuno. In un’epoca in cui, purtroppo, tutto questo non era accettato; un’epoca dove bastavano pettegolezzi e maldicenze per farle processare e condannare a morte.

Fortunatamente, tante cose sono cambiate da allora ma le violenze, fisiche e psicologiche, che tante donne in cerca della loro libertà subiscono ogni giorno e in ogni parte del mondo dimostrano che forse non lo sono poi così tanto e che la strada da percorrere è ancora lunga.
Di donne libere ed emancipate, e temporalmente più vicine ai giorni nostri, hanno parlato Michela Murgia e Chiara Tagliaferri nel podcast “Morganache raccoglie storie di donne “fuori dagli schemi, controcorrente, strane, pericolose, esagerate, “stronze”, difficili da collocare, donne che vogliono piacersi e non compiacere”. Murgia stessa definisce le protagoniste di queste storie “molto streghe”, utilizzando il termine non per demonizzarle ma per omaggiarle.

Abbiamo già detto che sono tanti i passi avanti fatti (QUI quelli del 2020 e QUI trovate un omaggio per alcune donne che durante l’anno appena trascorso sono state “molto streghe”, per riprendere le parole di Murgia). Le cose stanno ancora cambiando, seppur molto lentamente, e meno male!, vorrei aggiungere.
Piccoli grandi cambiamenti per cui dobbiamo essere grat* e che sono il risultato dell’azione di quant* si sono accorti che l’essere donna non poteva e non doveva continuare ad essere vista come una condizione di inferiorità, che hanno dedicato e spesso sacrificato le loro vite in favore di tante battaglie giuste.
Le femministe (e i femministi!) di tutte le ondate e le persone che, pur non definendosi tali, ogni giorno combattono per costruire un mondo migliore, più inclusivo e paritario, sono modern* “streghe” e “stregoni”. Sono persone di tutte le età, di tutte le nazionalità, di tutte le estrazioni, spesso percepite come strane e pericolose: spaventano per le loro idee innovative perché in molti sensi stravolgono un mondo che per secoli ha continuato a funzionare in questo modo. Persone che vengono condannate sui moderni roghi della morale e del buon senso ma che non si vergognano di dire quello che pensano, che chiedono di cambiare quelle regole che hanno costretto una parte della società a nascondersi e limitarsi.

E quando mi chiedono che tipo di donna voglio essere, non dico più, come facevo da bambina, che vorrei essere “una principessa (da salvare)” (anche se mio padre si ostina a chiamarmi in questo modo: ti voglio bene lo stesso, papà!).
Oggi dico che voglio essere forte e indomabile come una strega.

Eleonora Panseri

P.s. Suggerisco la visione della puntata del programma “Il tempo e la storia” condotta da Massimo Bernardini e con la presenza in studio dello storico Alessandro Barbero dedicata alla caccia alle streghe.

Note:
*l’anno in cui la stregoneria venne considerata dalla Chiesa come forma di eresia.
**data dell’ultimo processo per stregoneria.

Sessismo linguistico, l’importante è parlarne

La nozione di sessismo linguistico (linguistic sexism) è stata elaborata negli anni ’60-’70 negli Stati Uniti. In quel periodo era infatti emersa la marcata discriminazione nel modo di rappresentare la donna rispetto all’uomo attraverso l’uso della lingua, e di ciò si discuteva anche in Italia soprattutto in ambito semiotico e filosofico. Nel 1987 esce un volume rivoluzionario, Il sessismo nella lingua italiana di Alma Sabatini, pubblicato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, che allargò il dibattito all’ambito sociolinguistico e arrivò a interessare attraverso la stampa anche il grande pubblico.
Lo scopo del lavoro era politico e si riallacciava a quello di ristabilire la “parità fra i sessi”, attraverso il riconoscimento delle differenze di genere (inteso come l’insieme delle caratteristiche socioculturali che si legano all’appartenenza a uno dei due sessi).

Al linguaggio viene riconosciuto un ruolo fondamentale nella costruzione sociale della realtà e, quindi, anche dell’identità di genere maschile e femminile: è perciò necessario che sia usato in modo non “sessista” e non privilegi più, come fa da secoli, il genere maschile né tantomeno continui a tramandare tutta una serie di pregiudizi negativi nei confronti delle donne, ma diventi rispettoso di entrambi i generi. Che cessi di avere, come afferma Sabatini, «un’impostazione “androcentrica”».

La lingua infatti manifesta e allo stesso tempo condiziona il nostro modo di pensare, incorpora una visione del mondo e ce la impone. Il pensiero è profondamente influenzato dal linguaggio che, a sua volta, influenza il pensiero stesso. Non solo l’esistenza di una parola riferita a una situazione o esperienza trasmette l’importanza dell’esperienza stessa, ma anche l’assenza di una parola suggerisce che non c’è niente che riguarda l’esperienza descritta che meriti di essere menzionato.

La lingua è viva e si modifica con il cambiamento della società:
se cambia la realtà cambia anche il linguaggio.

Un’azione diretta a modificare il linguaggio potrebbe sembrare artificiosa e privare la parola del senso di deposito della storia di un contesto sociale che tendiamo ad attribuirle. Ma è l’impellenza di un intervento sui costumi della disparità, tanto diffusi nel nostro Paese, che rende questa presunta artificiosità necessaria e tollerabile.
In un tempo in cui ancora ci troviamo a riflettere sui troppo numerosi femminicidi travestiti da delitti passionali, ci accorgiamo quanto siano importanti le parole che si riferiscono alle battaglie sostanziali perché si affermino modelli educativi e di comportamento in grado di mettere in comunicazione tra loro tutte le differenze, in primis quella tra uomini e donne.

La lingua è una struttura dinamica che cambia in continuazione, tuttavia la maggior parte della gente è conservatrice e mostra diffidenza, addirittura paura, nei confronti dei cambiamenti linguistici perché disturbano le proprie abitudini o sembrano una forzatura. Ciononostante, in modo del tutto contraddittorio, si accettano neologismi come “cassintegrato”, o inglesismi come “selfie”, “taggare” (da “tag”). Perché mai questi passano senza problemi? Forse perché non coinvolgono a livello profondo? O solo perché entrano nel linguaggio in modo subliminale senza che ce ne accorgiamo? Certo è che, posti davanti al problema se accettare o meno un cambiamento, spesso si assume un atteggiamento “moralistico” in difesa della lingua, vista come qualcosa di sacro e intoccabile. In realtà noi siamo tanto attivi quanto passivi nei confronti della lingua. Il processo di classificazione linguistica è dinamico perché la lingua ci offre sia le forme già codificate, sia una serie di operazioni che ci permettono di classificare nuovi contenuti o di riclassificare la nostra realtà.

Negli anni ci sono stati cambiamenti di tipo ideologico per parole riferite a classi e razze discriminate. Dopo l’olocausto, il termine “giudeo” fu sostituito dapprima da “israelita” e ora anche da “ebreo”; l’uso di “nero” anziché “negro” è entrato in Italia. Sono scomparsi dalla lingua ufficiale e da quella quotidiana termini quali “facchino”, “mondezzaro”, “spazzino”, sostituiti da “portabagagli”, “netturbino”, “operatore ecologico”. Molti di questi cambiamenti non si possono definire spontanei, ma sono frutto di una precisa azione socio-politica, che dimostra l’importanza che la parola ha rispetto alla realtà sociale e il fatto che siano già stati assimilati significa che il problema è diventato di senso comune o che, quantomeno, la gente si vergogna di poter essere tacciata come classista o razzista.

Quando ci si vergognerà altrettanto di essere considerati sessisti molti cambiamenti diverranno realtà normale. Qual è dunque la ragione di questo atteggiamento linguistico? Le risposte più frequenti fanno riferimento all’incertezza di fronte all’uso di forme femminili nuove rispetto a quelle tradizionali maschili (è il caso di “ingegnera”), la presunta bruttezza delle nuove forme, o la convinzione che la forma maschile possa essere usata tranquillamente anche in riferimento alle donne. Ma ciò non è vero, perché maestra, infermiera, modella, cuoca, nuotatrice, ecc. non suscitano alcuna obiezione: nessuno definirebbe mai Federica Pellegrini nuotatore. Termini come “architetta”, “assessora”, “avvocata”, “chirurga” vengono spesso bollati come cacofonici. Si tratta di nomi che indicano lavori o cariche in passato riservati agli uomini, ma perfettamente regolari dal punto di vista grammaticale. La parola “avvocata”, poi, indica la Madonna nella preghiera “Salve Regina”. Allora il problema qual è? È davvero la parola a suonare male o il fatto che le donne scelgono carriere diverse dal passato? Le resistenze all’uso del genere grammaticale femminile per molti titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne sembrano poggiare su ragioni di tipo linguistico, ma in realtà sono, celatamente, di tipo culturale.

In una concezione della lingua come depositaria di cultura, come prodotto della società che la parla, appare vano tentare di modificare la lingua e pretendere che sia un tale cambiamento a influenzare la società, se questa è stata ed è ancora una società sessista. Ma se è invece vero che la realtà sociale italiana è in via di modificazione, la discussione di quegli aspetti della lingua e del discorso che non riflettono ancora tale realtà e che anzi perpetuano stereotipi è quanto mai necessaria.

di Anna Miti

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(IM)POSSIBILI SCENARI: se Maradona fosse nato donna

Confesso i miei peccati sin da subito: non mi piace il calcio, non capirò mai il fuorigioco e non disdegno il rosa. Proprio il cliché della femmina un po’ ottusa. Fatte queste doverose premesse, mi permetto di fare lo stesso una riflessione. Negli ultimi giorni non si parla d’altro: Diego Armando Maradona ha lasciato questo mondo. Icona del nostro tempo, ha incarnato i vizi e le virtù di una società che cerca disperatamente la rettitudine ma non riesce mai a resistere al fascino della ribellione e dell’eccesso. Con mia grande sorpresa, la luce del Pibe de oro ha abbagliato anche me e mi sono fatta una domanda, forse banale: ma che vita avrebbe avuto Diego se fosse nato donna?

Il fuoriclasse argentino è nato nel 1960 in una condizione di povertà estrema. Quinto dopo quattro figlie, è stato accolto dai suoi genitori come una benedizione. Lui stesso ha avuto modo di ribadire che suo «papà estaba cansado de mujeres». Diego Maradona Senior era stanco di avere figlie, viste come una condanna. Le femmine davano preoccupazioni, bisognava trovare a tutte un marito e le occasioni di concludere un buon matrimonio si riducevano in modo direttamente proporzionale al livello di miseria in cui versavano le promesse spose. La madre stessa, forse consapevole della sorte destinata alle donne nate nella sua terra, lo venererà come un bambino prodigio anche quando sarà troppo cresciuto e segnato dai suoi tormenti.

E poi il calcio, lo sport maschile per eccellenza da sempre, negli anni ’60 non avrebbe mai potuto rappresentare l’occasione di riscatto per una giovane donna. I primi mondiali femminili si sono celebrati nel 1991, l’Argentina parteciperà per la prima volta con la sua nazionale in rosa a partire dalla seconda edizione, tenuta nel 1995 in Svezia. La scalata al successo di “Dieguita“, quindi, non sarebbe probabilmente mai iniziata. O almeno, non segnando i gol che hanno fatto sognare intere generazioni. Oltretutto a Diego, prima o dopo, è stato perdonato tutto. L’assoluzione che si concede tipicamente ai geni che, proprio grazie al loro genio, possono permettersi tutti i colpi di testa che vogliono. «La pelota fué mi salvación» dirà Armando una volta famoso e consapevole dell’opportunità immensa che il suo talento gli aveva offerto. Per le donne non funziona e non ha mai funzionato così.

Così mi è venuta in mente Tonya Harding, la prima pattinatrice statunitense ad eseguire un triplo axel. Certo, il pattinaggio artistico non è il calcio. Ma le persone sono straordinarie a prescindere dalla competizione nella quale gareggiano. E il talento è talento. Anche Tonya è nata nella miseria, dieci anni dopo Dieguito, in un Paese che a differenza dell’Argentina era ed è una potenza mondiale. La sua povertà sarà però una condanna, portata come un fardello impossibile da far volteggiare in pista. Tonya non sarà mai abbastanza: per sua madre, per essere amata, per brillare nel panorama sportivo internazionale. Nonostante abbia vinto la sua prima gara a soli quattro anni, non le verranno mai perdonati i costumi che si fabbricava da sola. E nemmeno la tenacia rovente con la quale aggrediva il ghiaccio. Determinazione scambiata per mancanza di grazia. Tonya faceva troppo rumore. Non è mai stata la presenza docile e leggera che i giudici di gara si aspettavano che fosse, pretendevano che fosse. Non ha mai incarnato la fidanzata d’America. Ed è stata duramente penalizzata. Nella vita così come in gara.

Negli anni in cui Maradona si prodigava per diventare leggenda, Harding vedeva andare in fumo la sua carriera. Quasi come se il mondo non avesse aspettato altro per farla sparire dalla scena.

Ricordo di aver sentito dire che il pubblico ha bisogno di scegliere qualcuno da amare e qualcun altro da odiare: ha scelto per l’ennesima volta di odiare una donna.

Chiara Barison

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Perché parlare ancora di “femminismo”?

Questa domanda si sente ripetere spesso da un po’ di tempo a questa parte. Esiste ancora la necessità di parlare di “femminismo” in un mondo in cui “le donne hanno ormai raggiunto la parità”? Il termine stesso è arrivato ad assumere in certe occasioni una connotazione negativa e l’aggettivo “femminista” ad essere usato anche come “insulto”: “NON SARAI MICA UNA DI QUELLE FEMMINISTE?”.

La verità è abbastanza evidente, anche se, forse, non agli occhi di tutti: la parità, reclamata proprio dalle femministe nel corso dei decenni, è stata raggiunta solo in alcuni ambiti. In tanti altri la si è raggiunta in parte, in molti casi non esiste.

Va anche detto che “la parità”, intesa in senso stretto, può essere un’arma a doppio taglio: ciò che viene ritenuto valido per un uomo potrebbe non esserlo per una donna. Non è soltanto la parità quello che il femminismo ha chiesto da sempre e che continua oggi a chiedere, quanto piuttosto che il mondo smetta di essere un posto non adatto o ostile per il genere femminile.

Il motivo per cui crediamo sia necessario oggi parlare di femminismo e dare voce alle donne di ogni età, cultura ed estrazione (da questo desiderio nasce “Quote rosa”) è perché la vita per molte di esse può ancora essere un inferno. E, chi più, chi meno, spesso inconsciamente, tutte sperimentiamo diversi tipi di oppressione, tutte siamo spesso chiamate a giustificare le nostre scelte di fronte a quella cosa che tanti faticano a riconoscere e nominare chiamata “patriarcato”. Il modo in cui ci prendiamo cura di noi stesse, in cui ci vestiamo, quello con cui approcciamo l’altro sesso e la nostra sessualità, le nostre decisioni lavorative e personali: tutto viene analizzato e giudicato secondo un filtro che ci impedisce di fare scelte libere. Veniamo fin da bambine educate, condizionate, portate a credere che il mondo sia un posto dove i “maschi” possono fare e noi rimanere sullo sfondo a battere le mani. Quelle che rifiutano questo ruolo subalterno, quelle che “ce la fanno”, vedono i loro meriti a volte ridimensionati, se non proprio sviliti, e si tace sul fatto che loro, le donne che hanno sfondato il “soffitto di cristallo”, sono il più delle volte costrette a fare rinunce che all’uomo non verranno chieste mai. E il successo non risparmierà loro la critica costante, anzi, al minimo passo falso verranno immediatamente messe al rogo.

Tutto questo potrà sembrare un vuoto sproloquio ma saranno proprio i contenuti del nostro blog a raccontarvi cosa significa vivere una vita da “quote rosa” in un mondo dove il prototipo ideale è un uomo.
Lo diremo noi e lo diranno altre voci di donne che potranno raccontare la loro esperienza su questa piattaforma.

Fiere di essere donne, fiere di essere “femministe”.

Chiara ed Eleonora, “Quote Rosa”

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