Ai figli anche il cognome della madre: la Corte costituzionale abolisce l’attribuzione automatica di quello paterno

D’ora in avanti i figli porteranno entrambi i cognomi dei genitori (a meno che siano gli stessi, di comune accordo, a decidere il contrario). Lo ha deciso il 27 aprile la Corte Costituzionale con una sentenza storica, dove si legge che la regola che attribuisce automaticamente il cognome del padre è “discriminatoria e lesiva dell’identità del figlio”.

Più nello specifico, la Corte si è pronunciata sulla norma che non consentiva ai genitori, di comune accordo, di attribuire al figlio il solo cognome della madre e su quella che, in mancanza di accordo, imponeva il solo cognome del padre, anziché quello di entrambi i genitori.

L’Ufficio comunicazione e stampa della Consulta ha fatto sapere, in attesa del deposito della sentenza, che le norme censurate sono state dichiarate illegittime per contrasto con gli articoli 2, 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli articoli 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

A portare la questione davanti alla Consulta sono stati due avvocati, Domenico Pittella e Giampaolo Brienza. “La storia parte da lontano”, ha spiegato Pittella a Skytg14. “La coppia (protagonista del caso, ndr), ancora non sposata, ha due figli riconosciuti solo successivamente dal padre e che quindi portano il solo cognome della madre. Dopo alcuni anni i due decidono di sposarsi, il papà riconosce i figli ma la coppia chiede di non aggiungere ai ragazzi, oramai cresciuti, il cognome del padre”. La situazione si fa problematica con l’arrivo del terzo figlio: “I genitori chiedono, per un principio di armonia e omogeneità, di poter dare il solo cognome materno”, prosegue Pittella, “una richiesta fino ad oggi non consentita dalla legge“.

I due però non si sono dati per vinti e, grazie alla loro determinazione, si è arrivati alla decisione della Consulta. “Una grande soddisfazione. La coppia che ha intrapreso questo complesso e faticoso iter giudiziario mi ha chiamato poco fa: sono commossi e consapevoli di avere scritto una pagina storica, loro ci hanno sempre creduto”, ha detto Pittella all’ANSA, dopo aver appreso la notizia.

La decisione, che ha ricevuto il plauso della classe politica e della società civile, arriva però in ritardo rispetto a quasi tutti gli altri Paesi europei. Le leggi degli altri Stati, infatti, in forme diverse, riconoscono la libertà ai genitori di attribuire ai propri figli il cognome paterno, materno o quello di entrambi.

In Francia e in Belgio, ad esempio, senza un accordo tra i genitori, si assegnano entrambi i cognomi in ordine alfabetico, mentre in Portogallo i genitori sono liberi di scegliere quale e quanti cognomi mettere, fino a un massimo di quattro. Nel Regno Unito, un caso curioso, i genitori possono attribuire anche un cognome diverso dai propri. Ma il caso più virtuoso è sicuramente quello della Spagna, dove esiste l’obbligatorietà nell’attribuzione di entrambi i cognomi. I genitori sono liberi soltanto di scegliere in quale ordine vadano posti.

Eleonora Panseri

Violenza domestica, la Corte di Strasburgo condanna l’Italia: «le autorità nazionali hanno fallito»

Il 7 aprile 2022 la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ha condannato l’Italia per non aver protetto Annalisa Landi e i suoi due bambini dalle violenze domestiche subite dal compagno, poi condannato a 20 anni di carcere, anche per l’omicidio di uno dei figli. Le autorità italiane, “con la loro inazione”, avrebbero infatti permesso all’uomo di agire indisturbato, nonostante il “grave rischio di maltrattamenti”.

Di indizi, per la Corte, ce ne erano fin troppi. Niccolò Patriarchi soffriva di un disturbo bipolare caratterizzato da comportamenti violenti. In passato, gli era già stato disposto il divieto di avvicinamento verso l’ex partner. E negli attacchi tra novembre 2015 e settembre 2018, tre prima dell’ultimo, quello dell’uccisione del figlio, era sempre intervenuta la polizia di Scarperia (Firenze). Landi aveva anche esposto una serie di denunce, poi ritirate, nei confronti dell’uomo, su cui le autorità stavano indagando per violenze domestiche.

Secondo la CEDU, l’Italia avrebbe violato l’articolo 2 della Convenzione Europea dei Diritti umani, che prevede il diritto alla vita. Come riporta la sentenza, “le autorità nazionali hanno fallito nel compito di condurre una valutazione immediata e proattiva del rischio di reiterazione degli atti violenti commessi” e “nell’adottare misure preventive”. Per la Corte inoltre non avrebbero reagito “né immediatamente, come richiesto per i casi di violenza domestica, né in qualsiasi altro momento”. Per questo, l’Italia dovrà risarcire Landi di 32mila euro.

Alessandra Tommasi