La decisione della Corte Suprema ci insegna una grande lezione: mai dare per scontati i diritti che altr* hanno conquistato per noi

Da alcune ore continuo a ricevere mail da parte di associazioni pro-choice e pro-aborto statunitensi che chiedono aiuto. È un’enorme macchina, quella che le attiviste del Paese in poche ore hanno messo in moto, ma già mesi fa stavano pensando a come organizzarsi nel caso in cui la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America avesse deciso di ribaltare la “Roe v. Wade“, la sentenza del 1973 che quasi 50 anni fa aveva riconosciuto l’aborto come diritto federale, basandosi su un’interpretazione del XIV emendamento della Costituzione. Non solo a maggio, quando era stata diffusa la bozza di sentenza, ma anche in momenti precedenti le attiviste avevano pensato a tutte le possibili soluzioni che contenessero i danni di questa catastrofe giuridica.

Negli scorsi mesi, una sentenza così sembrava un’eventualità, seppur terribile, che ancora si poteva evitare. Oggi, purtroppo, è divenuta una triste realtà. Da questo momento ai singoli Stati spetterà legiferare in materia di aborto e molti di questi, mesi fa, hanno approvato le tristemente note “trigger laws“, ovvero leggi che sarebbero entrate in vigore soltanto se la Corte avesse deciso come poi ha effettivamente fatto. Leggi che ostacoleranno in tutti i modi chi avrà la necessità di interrompere una gravidanza e che criminalizzeranno l’aborto, facendo rischiare a chi cercherà di aiutare queste donne multe e anni di prigione. Tra quelli che già erano pronti a negare questo diritto e quelli che lo faranno a breve dovrebbero essere circa 25 su 50 gli Stati, quasi tutti a trazione repubblicana, che renderanno l’aborto illegale. In alcuni, abortire diventerà impossibile anche in caso di stupro o incesto.

Molti governatori dei restanti 25, soprattutto democratici, hanno già fatto sapere che si muoveranno per tutelare ulteriormente il diritto all’aborto nelle loro giurisdizioni. Ma la decisione della Corte Suprema penalizzerà inevitabilmente, anche se non esclusivamente, le donne che risiedono negli Stati dove sarà illegale interrompere una gravidanza, soprattutto quelle che non hanno le possibilità economiche per recarsi laddove invece i loro diritti verrebbero rispettati. Il rischio che dilaghino gli aborti illegali c’è, questa potrebbe essere l’alba di una strage perché, come mi ha detto un’attivista statunitense che ho intervistato qualche tempo fa, “chi avrà bisogno di abortire, non smetterà mai di cercare un modo per farlo”. La depenalizzazione dell’interruzione di gravidanza, al contrario, garantisce non solo il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione delle donne, ma anche del rispetto della loro salute riproduttiva.

Dagli anni ’70 a oggi la vita di molte donne è cambiata, possiamo dire in meglio. Ci sono tante, troppe cose che ancora non vanno, dobbiamo però riconoscere che alcuni traguardi sono stati raggiunti. Ma la grande lezione che abbiamo da imparare dalla sentenza “Dobbs v. Jackson” è che purtroppo non possiamo e non dobbiamo darli per scontati. Non possiamo e non dobbiamo dimenticare che prima di noi qualcun* ha lottato, e in alcuni casi è anche mort*, per consentirci oggi di fare cose che per queste persone erano impensabili, immorali o illegali. Non possiamo e non dobbiamo dimenticare che in molte parti del mondo c’è ancora chi combatte per andare a scuola e lavorare o per non doversi coprire integralmente, come sta succedendo alle nostre sorelle in Afghanistan, che il mondo sembra aver dimenticato. Non possiamo e non dobbiamo dimenticare che ci sarà sempre qualcuno che vorrà negarci dei diritti, perché una società patriarcale si nutre di violenza, di esclusione, di prevaricazione, di ingiustizia e prospera solo in presenza di queste.

Credo fermamente nella possibilità di ogni individuo di autodeterminarsi: di cambiare idea, di trovare una soluzione a eventuali errori commessi, di non dover subire quelli fatti da altri. Dobbiamo lasciare alle persone il diritto di scegliere, a patto che questo non leda il resto della comunità. Io non so se mai abortirò e probabilmente avrei la risposta solo trovandomi nella condizione di doverlo fare o meno. Ma a oggi non posso pensare che una democrazia costringa un individuo vivente a dover compiere un passo, quello della maternità, che per tante ragioni non è pronto o non vuole fare. Non posso pensare che uno Stato intenda tutelare una potenziale vita, distruggendone milioni di altre.

Eleonora Panseri

Il diritto di essere donna

Ho letto diversi tweet in queste settimane sull’argomento “donne e molestie”. Come sempre ci sono quelli che attaccano le femministe, sostenendo che non diano lo stesso peso alle molestie degli Alpini rispetto a quelle degli “immigrati” sul treno a Riva del Garda. In particolare, mi hanno scossa due tweet che cito:

1. “Se continuiamo con questa narrazione che prevede che tutto sia molestia, arriveremo al punto che gli uomini avranno paura anche a prendere un ascensore da soli con una donna”;
2. “Arriveremo al punto che le donne dovranno supplicare gli uomini per essere considerate sessualmente, perché i maschi giustamente ci penseranno due volte”.

Purtroppo, non è facile spiegare la delicatezza e il rispetto che una donna vorrebbe dal momento in cui un uomo decide di approcciarla. Non mi stancherò mai di ripetere che non si tratta della questione in sé ma del modo in cui vengono proposte le attenzioni.


Tempo fa ero con un ragazzo (a me molto caro e vicino), un ragazzo rispettoso, e un suo amico, che chiameremo Super Mario. Davanti a noi passarono un gruppo di ragazze, con degli abitini estivi, e Super Mario, con un tono poco consono a voce alta si rivolge a loro con un: “Gonna corta, cortissima!”. Una delle ragazze lo sente, lo ignora, ma si abbassa comunque la gonna.
Di quella serata mi è rimasta solo la sensazione di impotenza per non aver reagito, per paura di sembrare pesante, quando invece sarebbe stato corretto il mio intervento. E, soprattutto, nell’immagine della ragazza che ha dovuto tirare giù la gonna per il commento di un idiota.

Mi rivolgo specialmente alle figure maschili, se mai leggeranno questa riflessione. Vedo sempre qualche “like” sporadico su vari canali social come sostegno all’indignazione di queste continue molestie che le donne ricevono, ma mai più di questo. Nessun tipo di condivisione o parere personale postato sui propri social, come invece spesso accade quando condividono altre notizie (attualità, sport, moda, viaggi e meme).

Mi viene naturale quindi domandarmi come mai una figura maschile, con una sua opinione ben precisa sull’argomento, non senta la necessità di dar voce a quello che succede, nonostante appoggi la causa.
Ora che ci penso, conto sulle dita di una mano il numero di figure maschili che, nel proprio piccolo, cercano di condannare la condizione precaria delle donne nel mondo. Per esempio, sui salari, l‘Iva sugli assorbenti, il diritto ad abortire, la violenza verbale e fisica. Non parliamo di sostenere le femministe (se considerate estremiste), ma giuste cause per cui stiamo lottando da anni.

Alla fine siete tutti fidanzati, amici, fratelli, cugini di qualche soggetto femminile che avete a cuore, quindi perché una qualsiasi altra notizia sì, e qualcosa per il “loro” bene, che poi sarebbe il bene di una società più moderna, che offre pari opportunità, no? Cosa vi porta a pensare che una notizia sia più importante di un’altra? E’ bellissimo quando le donne si fanno portavoce dei loro diritti, della loro intraprendenza e intelligenza. Del loro lato più sicuro e sfacciato. Aggiungo, però, che è sublime quando a farlo è un uomo. Abbiamo la necessità di avere al nostro fianco chi ci aiuti ad avere un futuro alla pari come compagne di vita, per davvero. Imparare a condividere e a correggere il necessario, perché è necessario.

Ai tweet che ho letto sulla crocifissione degli alpini e il placido dissenso nei confronti delle molestie da parte di uomini (non di immigrati, perché in questo caso solo di uomini si tratta) sul Garda rispondo che non esistono molestie di tipo A o di tipo Z. Non esistono molestie più gravi e meno gravi perché esiste solamente il trauma che lasciano dentro ciascuna vittima, perché di traumi e vittime parliamo, non esistono i mezzi termini. Ho lavorato in un luogo squallido in cui le ragazze venivano chiamate solo con nomignoli e vezzeggiativi: “amore, tesoro, stellina, zucchero, bambolina”. Mi sono sfogata su questo fatto e nessuno ha capito quanto mi facesse male, quanto è brutto essere demolite e sentirsi piccole tanto da non avere un nome.

“Ma lasciali stare, che schifo, lascia questo posto”, nessuno che avesse capito che la reale domanda da pormi era: ma tu come stai? Perché sono stata male, stiamo male, ognuna di noi ha i propri confini. Tutte le altre persone, di qualsiasi sesso, dovrebbero imparare a non superarli perché chiediamo rispetto, non facciamo la morale. Ognuno dovrebbe sapere quando sta superando il limite, quando si prendono spazi e libertà che non gli appartengono.


Non parliamo di messaggi sui social o un singolo fischio di qualche soggetto. Di cosa sto parlando lo sappiamo davvero tutt* anche quell* a cui non è mai capitato di essere vittima o carnefice. E siamo ancora qui a filosofeggiare sui “cambia lavoro, bloccalo sui social, rispondigli la prossima volta, se cammini da sola ti faccio compagnia al telefono”. Mentre continua la lotta tra le donne che pensano: “ il catcalling è bello” e quelle che invece lo condannano come gesto. Un palcoscenico di discussioni sterili dove un uomo medio ci osserva senza prendere una reale posizione e si gode la scena come fossimo nude sotto la doccia. Cosa ci scanniamo, ancora, tra donne? Smettiamola di dire cosa è molestia e cosa non lo è, lasciamoci il diritto di scegliere cosa per un soggetto sia molestia e cosa non lo sia, di non aver sbagliato a non denunciare subito uno stupro, di aver avuto paura a opporsi, il diritto di star male per aver subito molestie.

Dobbiamo ripartire dalla base, quindi capire prima di tutto che siamo differenti, siamo quello che siamo. Perché se non lo capiamo tra di noi, se non ci appoggiamo e non ci prendiamo i nostri diritti non lo farà mai nessuno: siamo sole. E allora, sì, mi sta bene che attrici dopo anni dichiarino di aver subito molestie, di non averlo detto subito e di aver aspettato di avere una fama a proteggerle, se questo può aiutare chi ha subito a sentirsi meno sola. Soprattutto a continuare a lottare insieme per la libertà di essere donne.


Marissa Trimarchi

Calcio femminile, svolta storica in Italia: diventerà professionistico da luglio 2022

Le calciatrici italiane hanno (finalmente) vinto un diritto. Il 26 aprile 2022, il Consiglio Federale della Figc ha ufficialmente equiparato le giocatrici di calcio donne agli uomini, modificando le norme e sancendo il passaggio al professionismo per la Serie A femminile a partire dalla prossima stagione. “Dal primo luglio inizia il percorso del professionismo del calcio femminile, siamo la prima federazione in Italia ad avviare e ad attuare questo percorso”, ha detto il presidente Gabriele Gravina.

Una decisione che è arrivata non senza qualche resistenza. Durante la votazione, la Lega Serie A (rappresentata dal presidente Lorenzo Casini e dai consiglieri federali Claudio Lotito e Beppe Marotta) si è espressa contraria, nonostante la propria assemblea interna fosse d’accordo con il procedere in modo positivo. Solo un “malinteso“, ha spiegato Lotito, mentre Gravina ha assicurato che tutti erano d’accordo, con qualche piccola resistenza e proposta di rinvio. La votazione è stata poi ripetuta con il sì finale della Lega di A. “È un punto di partenza che ci spinge a lavorare con grandissimo impegno per raggiungere e garantire nel tempo la sostenibilità di tutto il nostro sistema” ha commentato Ludovica Mantovani, presidente della Divisione Calcio Femminile.

Non può essere considerato un punto di arrivo, ma è comunque il primo traguardo di un percorso cominciato più di due anni fa, dopo le grandi prestazioni delle Azzurre ai Mondiali di Francia 2019. In questo periodo il calcio femminile ha iniziato a ottenere i primi risultati importanti. Nel 2019, Juventus-Fiorentina si era giocata davanti alle 40mila persone dello Stadium. L’anno successivo era stata la volta di Milan-Juventus a San Siro, seppur vuoto a causa della pandemia, un ostacolo che ha rallentato la crescita del calcio femminile. Il movimento è ancora indietro rispetto a quelli di altri Paesi, come quelli scandinavi e il Regno Unito. In Spagna, sulle tribune di un Camp Nou tutto esaurito per Barcellona-Real Madrid di Women’s Champions League c’erano 90mila persone. L’Ajax e la nazionale olandese riconoscono la parità di prestazione tra uomini e donne e lo stesso avviene in Brasile. A febbraio 2022 negli Stati Uniti, Megan Rapinoe e compagne hanno ottenuto la parità salariale e un risarcimento per la discriminazione di genere subita in questi anni.

Oltre al professionismo, dal 2022-23 il campionato di Serie A femminile avrà anche un nuovo format, già adottato in Austria, Belgio, Danimarca e Repubblica Ceca. Lo scudetto e la retrocessione si decideranno con un torneo a eliminazione diretta. Le dieci squadre della massima serie, disputeranno una prima parte di stagione con gare di andata e ritorno per un totale di 18 giornate. Successivamente le prime cinque della classifica accederanno a una poule scudetto, con il palio il titolo di Campione d’Italia e l’accesso alla Women’s Champions League (prima e seconda classificata). Le restanti cinque, invece, si giocheranno la salvezza: l’ultima retrocede direttamente in Serie B e la penultima dovrà giocarsi la salvezza in una gara di play out contro la seconda del campionato cadetto.

Filippo Gozzo

Violenza domestica, la Corte di Strasburgo condanna l’Italia: «le autorità nazionali hanno fallito»

Il 7 aprile 2022 la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ha condannato l’Italia per non aver protetto Annalisa Landi e i suoi due bambini dalle violenze domestiche subite dal compagno, poi condannato a 20 anni di carcere, anche per l’omicidio di uno dei figli. Le autorità italiane, “con la loro inazione”, avrebbero infatti permesso all’uomo di agire indisturbato, nonostante il “grave rischio di maltrattamenti”.

Di indizi, per la Corte, ce ne erano fin troppi. Niccolò Patriarchi soffriva di un disturbo bipolare caratterizzato da comportamenti violenti. In passato, gli era già stato disposto il divieto di avvicinamento verso l’ex partner. E negli attacchi tra novembre 2015 e settembre 2018, tre prima dell’ultimo, quello dell’uccisione del figlio, era sempre intervenuta la polizia di Scarperia (Firenze). Landi aveva anche esposto una serie di denunce, poi ritirate, nei confronti dell’uomo, su cui le autorità stavano indagando per violenze domestiche.

Secondo la CEDU, l’Italia avrebbe violato l’articolo 2 della Convenzione Europea dei Diritti umani, che prevede il diritto alla vita. Come riporta la sentenza, “le autorità nazionali hanno fallito nel compito di condurre una valutazione immediata e proattiva del rischio di reiterazione degli atti violenti commessi” e “nell’adottare misure preventive”. Per la Corte inoltre non avrebbero reagito “né immediatamente, come richiesto per i casi di violenza domestica, né in qualsiasi altro momento”. Per questo, l’Italia dovrà risarcire Landi di 32mila euro.

Alessandra Tommasi

Cosa ci ha lasciato questo 8 marzo

Un’altra Giornata internazionale dei diritti delle donne è passata e come ogni anno necessita forse di qualche momento di riflessione. Purtroppo, anche l’8 marzo 2022 è stato viziato dalla solita zuccherosa retorica “rosa”, ormai trita e ritrita. In occasione di questa ricorrenza, così importante per alcun* e così redditizia per altr*, viene profuso un impegno incredibile nel produrre un florilegio di spot, manifesti, iniziative e simili che posizionano le donne su un piedistallo dal quale vengono automaticamente spinte giù nei restanti 364 giorni dell’anno.

Come avviene anche per il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne (ricordiamo che dall’inizio del 2022 ne sono state uccise 13, l’anno scorso sono state 119), i toni usati prevalentemente sono quelli, da un lato, della “specie protetta da difendere” (le donne, per esempio, si trasformano in fiori da curare), dall’altro, delle “wonder womaninvincibili. A queste, e qui cito, “magnifiche creature” viene ricordato il loro ruolo di madri, sorelle, compagne e amiche e ci si chiede: “Che mondo sarebbe senza le donne?“.

Non abbiamo la risposta a questa domanda. Invece sappiamo bene qual è la situazione di un mondo dove le donne esistono. Secondo Eurostat, nel 2021 la retribuzione oraria delle donne europee è stata del 13% inferiore rispetto a quella dei colleghi uomini. E nello stesso anno, come si legge in un articolo de La Stampa, in Italia è stata uccisa una donna ogni 72 ore. Nel 2020 invece, secondo un’indagine condotta da Save the Children su adolescenti tra i 14 e i 18 anni, il 70% delle ragazze intervistate dichiarava di aver subito molestie nei luoghi pubblici e apprezzamenti sessuali e il 64% raccontava di essersi sentita a disagio per commenti o avance da parte di un adulto di riferimento. Nel Rapporto Donne Manageritalia 2020, poi, si legge che le donne in posizione dirigenziale erano, solo due anni fa, il 18,3% del totale, poco meno di 1 su 5. Un dato che, tuttavia, non stupisce se, nello stesso anno, le donne italiane svolgevano 5 ore e 5 minuti di lavoro non retribuito di assistenza e cura al giorno (gli uomini un’ora e 8 minuti), il 74% del totale. Ed è forse anche per questo che il 21% delle donne in età lavorativa dichiarava di non essere disponibile o di non ricercare lavoro attivamente proprio a causa dell’impegno totalizzante che la cura della casa, di bambini e anziani richiede loro.

Di fronte a questo quadro decisamente desolante (meno male che siamo nel XXI secolo, dicono alcuni), celebrare i successi delle donne non è forse così sbagliato, anzi. Farlo regalando la mimosa, poi, è senza dubbio un gesto da apprezzare. Sarebbe però ancora più bello se chi ne fa dono conoscesse anche la storia di questo simbolo. Il fiore venne scelto nel secondo dopoguerra su proposta di Teresa Mattei, ex partigiana e dirigente del Partito Comunista Italiano (PCI), in prima linea per tanti anni nella lotta per i diritti delle donne. Insieme a Rita Montagnana e Teresa Noce, scelse un fiore economico, facile da trovare anche in natura, per permettere a tutte le donne di riceverlo. «La mimosa era il fiore che i partigiani regalavano alle staffette. Mi ricordava la lotta sulle montagne e poteva essere raccolto a mazzi e gratuitamente», raccontò Mattei, morta nel 2013 a 92 anni, in un’intervista. «Quando nel giorno della festa della donna vedo le ragazze con un mazzolino di mimosa penso che tutto il nostro impegno non è stato vano».

È proprio dall’impegno di Mattei e delle donne di tutto il mondo che il Women’s Day nacque molti anni prima rispetto ai fatti raccontati poco sopra. Celebrata per la prima volta negli Stati Uniti del 1909, la Giornata della donna fu all’epoca un’occasione per rivendicare il diritto di voto femminile, che in quegli anni veniva negato, e maggiori tutele sindacali. La società dei consumi l’ha poi trasformata nella festa commerciale che conosciamo oggi ma in molt* è ancora forte la consapevolezza che si tratta invece di una giornata di riflessione su quanto è stato fatto o che ancora c’è da fare, una giornata che ha un profondo significato politico.

Equo salario e riforme per una più giusta divisione tra i due sessi del lavoro di cura, tutela della maternità e, allo stesso tempo, del diritto all’aborto, sono solo alcuni dei temi sui quali anche le società occidentali più “avanzate” devono ancora fare passi avanti. E se pensiamo che nel mondo le donne sono ancora vittime di violenze fisiche, psicologiche, economiche, è davvero così strano o poco lecito chiedersi a cosa servono i grandi proclami che vengono fatti in queste occasioni?

Le mimose le accettiamo volentieri, ma anche alcuni diritti in più non sarebbero male.

Eleonora Panseri

Calcio, vittoria storica per la nazionale femminile Usa: Megan Rapinoe e compagne avranno la parità salariale

Per Megan Rapinoe, Alex Morgan e compagne è l’ennesimo trofeo. Questa volta, però, è un traguardo di vita, non solo professionale. Ieri la nazionale di calcio femminile degli Stati Uniti ha ottenuto la parità salariale con la squadra maschile. Una battaglia lunga oltre sei anni al grido di “Equal Pay”, passata per il trionfo di Lione ai mondiali del 2019, partita in cui proprio Rapinoe segnò il gol del vantaggio sull’Olanda. Quei campionati del mondo sono stati la vetrina della rivendicazione delle calciatrici americane, capitanate, in campo e fuori, proprio dalla centrocampista.

In base all’accordo, la U.S. Soccer Federation dovrà alle ragazze statunitense anche un risarcimento di 24 milioni di dollari: 22 come arretrati e due destinati a un fondo post-carriera, da cui ogni giocatrice potrà richiedere fino a 50mila dollari. Nonostante la cifra sia di molto inferiore ai 67 milioni di dollari richiesti inizialmente, per la nazionale femminile a stelle e strisce si tratta un accordo storico. Non solo la squadra femminile guadagnerà come quella maschile, ma è stata anche riconosciuta la disparità salariale avvenuta finora.

Le giocatrici avevano accusato la Federazione di averle discriminate per il loro genere, pagandole meno della nazionale degli uomini nonostante il paragone impietoso sui successi sportivi (quattro titoli mondiali per le donne, di cui due vittorie consecutive ai mondiali in Canada e Francia; nessuno per gli uomini). Nel 2019 avevano avviato il ricorso, poi bocciato da un giudice distrettuale l’anno successivo. Le calciatrici avevano portato la questione in appello, anche con l’appoggio del presidente Joe Biden, che si è schierato dalla parte delle giocatrici arrivando a minacciare un taglio dei fondi per i mondiali maschili del 2026.

«Alla fine, ci siamo riuscite. Sono così orgogliosa del modo in cui noi giocatrici siamo rimaste unite e abbiamo puntato i piedi. Questa è una grande vittoria”, ha commentato la 36enne californiana Megan Rapinoe, campionessa in campo e attivista per i diritti Lgbt, «questo sarà uno di quei momenti incredibili che cambiano le regole per sempre, il calcio Usa è cambiato per sempre, e anche nel resto del mondo. Per noi, questa è solo una grande vittoria nel garantire che non solo correggiamo i torti del passato, ma prepariamo la prossima generazione per qualcosa che avremmo potuto solo sognare».

Filippo Gozzo

Donne e scienza: il 54% delle adolescenti è appassionata di materie stem ma continua a ritenerle “poco adatte”

Appassionato ma titubante. Potremmo descrivere così l’atteggiamento delle ragazze italiane nei confronti delle materie scientifiche e tecnologiche. Secondo l’ultima ricerca realizzata da Ipsos per Save the Children, in occasione della Giornata internazionale per le donne e le ragazze nella scienza, il 54% ne è incuriosita, anche se le ritiene “poco adatte“.

L’obiettivo della giornata è quello di incentivare la partecipazione delle ragazze al mondo scientifico, non solo in qualità di beneficiarie, ma anche come agenti di cambiamento per il perseguimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile previsti dall’Agenda 2030 dell’Onu.

Nel 2021 le immatricolazioni universitarie hanno registrato un aumento delle donne iscritte alle facoltà Stem (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica), in particolare in informatica e tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Itc) con un +15,74%. Ma quelle che scelgono corsi scientifici sono il 22% sul totale delle iscritte. Le intervistate da Ipsos pensano di poter dare un contributo concreto, per esempio, nella produzione di energia sostenibile (31%) e la diminuzione delle emissioni inquinanti dei mezzi di trasporto (27%).

Foto Pexels

La direttrice dei programmi Italia-Europa di Save the Children, Raffaela Milano, ha sottolineato come stia crescendo “tra le bambine e le ragazze, in Italia e nel mondo, la consapevolezza del loro valore e del contributo che possono dare in ambito scientifico. L’acquisizione di una piena ‘cittadinanza scientifica’ è considerata oggi da molte come un diritto fondamentale per rispondere alle sfide ambientali e della salute. Tuttavia il divario di genere è molto presente e si radica, sin dai primi cicli di istruzione, negli stereotipi, ancora oggi diffusi, che vorrebbero le ragazze poco portate verso le materie scientifiche e che bloccano sul nascere i loro talenti”.

Il rapporto tra ragazze e mondo della scienza e della tecnologia verrà approfondito venerdì 11 febbraio alle 17 in una diretta sul canale Instagram di Save the Children, alla quale parteciperanno, tra gli altri, Antonella Inverno, Responsabile politiche Infanzia e Adolescenza dell’Organizzazione e l’attrice e testimonial di Save the Children Caterina Guzzanti.

Eleonora Panseri

(Fonte: ANSA)

Quirinale, da Cederna a Belloni: tutte le donne (quasi) Presidente della Repubblica

Da qualche giorno circola il nome di Elisabetta Belloni, la donna a capo dei servizi segreti italiani, come possibile figura terza che metta d’accordo le diverse forze politiche chiamate a eleggere, il 24 gennaio, il nuovo Presidente della Repubblica italiana. Se Belloni dovesse effettivamente salire al Colle, sarebbe la prima donna a farlo (come già lo è stata, nel ricoprire la carica che attualmente riveste). Anche se il suo non è l’unico nome femminile apparso nella lunga storia delle elezioni al Quirinale.

Camilla Cederna, Elena Moro e Ines Boffardi

Le prime candidate al ruolo apparvero in sede di scrutinio soltanto 30 anni dopo l’istituzione del ruolo presidenziale. Nel 1978 venne poi eletto Sandro Pertini (1896-1990), prima partigiano, poi politico e giornalista, uno dei più amati presidenti della Repubblica di sempre (il settimo). Ma durante lo scrutinio vennero fatti anche i nomi di Camilla Cederna (1911-1997), giornalista famosa per l’inchiesta realizzata per l’Espresso che costrinse il predecessore di Pertini, Giovanni Leone, a dimettersi; quello di Eleonora Moro (1915-2010), moglie dell’ex presidente del Consiglio assassinato lo stesso anno, Aldo Moro; e il nome di Ines Boffardi (1919-2014), partigiana attiva nelle Sap, le Squadre di azione patriottica, durante gli anni della guerra. Le tre ottennero rispettivamente quattro, tre e due voti. Il futuro presidente Pertini, in qualità di presidente della Camera durante le votazioni di quell’anno, dovette richiamare i colleghi che di fronte ai voti di Boffardi scoppiarono a ridere: «Colleghi, non c’è nulla da ridere, anche una donna può essere eletta!».

Camilla Cederna (Photo by Fototeca Gilardi/Getty Images)

Nilde Iotti

Il nome di Cederna apparve anche nell’elezione successiva, quella del 1985, insieme a quello della partigiana Tina Anselmi (1927-2016), prima donna eletta ministro della Repubblica nel 1976. Anselmi venne candidata anche alle votazioni del 1992, dove ottenne 19 voti. Ma quell’anno fu Nilde Iotti (1920-1999), partigiana e per 13 anni (dal ’78 al ’92) prima donna a ricoprire l’incarico di presidente della Camera, a ottenere un ottimo risultato. Proposta dal partito democratico della sinistra come candidata di bandiera, conquistò 256 preferenze. Molte, se pensiamo a quelle delle colleghe, ma non sufficienti per superare il quorum e venire eletta.

Nilde Iotti (Photo WikimediaCommons)

Emma Bonino

Emma Bonino (1948-), storica leader del Partito radicale e senatrice della Repubblica, è stata nominata per la prima volta alle elezioni del 1999, insieme a Rosa Russo Iervolino (1936-), parlamentare dal ’79 al 2001 ed ex sindaca di Napoli. In quell’occasione le due ottennero rispettivamente 15 e 16 preferenze. Il nome di Bonino è poi tornato in tutte le successive elezioni: nel 2006, insieme a quelli di Anna Finocchiaro, Franca Rame e Lidia Menapace; nel 2013 ancora con Finocchiaro, Rosy Bindi, Paola Severino, Alessandra Mussolini, Daniela Santanchè e Annamaria Cancellieri, nel 2015 insieme al nome di Luciana Castellini. Anche per la votazione del 2022 alcuni avevano parlato di lei, ma  in un’intervista a Repubblica, Bonino ha detto: «Ringrazio tutti quelli che pensano a me, da Roberto Saviano a Carlo Calenda a tutti i militanti che mi scrivono. Ma credo proprio che il mio momento fosse anni fa».

Emma Bonino con il Presidente Sandro Pertini (Photo by WikimediaCommons)

Il “caso Gabanelli”

Una situazione particolare si verificò nel 2013, quando venne fatto il nome della giornalista Milena Gabanelli (1954-). La fondatrice ed ex voce narrante di Report, il noto programma d’inchiesta di Rai 3, fu infatti la più votata alle “quirinarie“: un sondaggio organizzato dal Movimento cinque stelle sul proprio blog per scegliere il candidato che il partito avrebbe poi presentato. Gabanelli ottenne il voto online di 6000 persone ma declinò l’invito: «Credo che per ricoprire un ruolo così alto ci voglia una competenza politica che io non credo di avere».

Milena Gabanelli (Photo by WikiCommons)

I nomi del 2022

Oltre a Belloni e Bonino, quali altre donne sono state indicate per il “toto nomi” del 2022? È tornato quello di Rosy Bindi (1951-), ministra della Repubblica e presidente della Commissione parlamentare antimafia dal 2013 al 2018, tra le “papabili” del 2006. Per l’elezione di quest’anno sono state proposte anche Letizia Moratti (1949-), ex sindaca di Milano e da gennaio 2021 vicepresidente e assessore al Welfare della Regione Lombardia, ed Elisabetta Alberti Casellati (1946-), eletta presidente del Senato nel 2018 su proposta del centrodestra, ma ritenuta valida da tutte le parti politiche. Ugualmente gradita potrebbe essere Marta Cartabia (1963-), prima donna presidente della Corte costituzionale (dal 13 settembre 2011 al 13 settembre 2020) e attuale ministra della Giustizia nel Governo del premier Mario Draghi.

Marta Cartabia (Photo by WikiCommons)

Quelle che “ce l’hanno fatta”

Come abbiamo già detto, la prima a sfondare l’ormai ben noto “soffitto di cristallo” delle istituzioni italiane è stata Nilde Iotti, prima presidente della Camera dei deputati, dal 1979 al 1992. Solo altre due, però, hanno avuto l’occasione di seguirla: Irene Pivetti nel 1994 e Laura Boldrini nel 2013, 19 anni dopo. Per non parlare del fatto che soltanto nel 2018 è stata eletta la prima (e, di conseguenza, l’unica) presidente del Senato donna, ancora in carica: Maria Elisabetta Alberti Casellati. Belloni potrebbe davvero farcela? Come ha detto qualche tempo fa il nostro Presidente della Repubblica uscente, Sergio Mattarella, sarebbe “un sogno, forse una favola”.

Eleonora Panseri

Violenza sulle donne: perché il sistema preventivo fallisce

Juana Cecilia Hazana Loayza aveva già denunciato Mirko Genco, 24 anni, l’ex compagno che le ha tolto la vita il 19 novembre. Era stato arrestato il 5 settembre per atti persecutori e il giorno dopo scarcerato e sottoposto alla misura cautelare del divieto di avvicinamento. Ma il 10 settembre Genco era stato arrestato di nuovo per violazione della misura, violazione di domicilio e ulteriori atti vessatori, riuscendo a ottenere i domiciliari con un patteggiamento a due anni. Anche Vanessa Zappalà, 26 anni, uccisa lo scorso agosto ad Acitrezza (Catania) a colpi di pistola, aveva denunciato per stalking l’ex compagno 37enne Antonio Sciuto. L’arresto dell’uomo, però, non era mai stato convalidato.
Nella relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidi, presieduta dalla senatrice Valeria Valente, viene riportato che solo una donna su sette uccisa tra il 2017 e il 2018 aveva denunciato il proprio assassino. Ma quelle che denunciano non vengono tutelate: lo dimostrano alcune delle storie delle 109 donne assassinate dall’inizio del 2021. A questo si aggiunge il mancato sovvenzionamento dei centri antiviolenza e un ritardo culturale che non viene colmato dal sistema educativo. Dopo ogni femminicidio il solito commento è: “Qualcosa non ha funzionato”. Ma in Italia c’è più di “qualcosa” che non funziona.

“C’è un grande problema: l’assenza di professionalità tra magistrati e forze dell’ordine”, ha dichiarato il giudice Fabio Roia, presidente vicario del tribunale di Milano e componente dell’Osservatorio sulla violenza contro le donne, in un’intervista a Repubblica pubblicata martedì 23 novembre. Avviene spesso che le denunce non vengano prese in considerazione con la necessaria serietà: alcune vittime di violenza raccontano di essere state invitate dalle stesse forze dell’ordine a pensarci due volte prima di formalizzare le accuse. In più, su 118 processi arrivati a sentenza per femminicidio considerati dalla Commissione d’inchiesta istituita sul tema, solo 98 si sono conclusi con una condanna.
“È necessario che chi si occupa di questa materia sia formato su scienze complementari, dalla psicologia all’esperienza quotidiana degli operatori dei centri antiviolenza. Occirre essere in grado di comprendere il ruolo della donna nel ciclo della violenza. Le leggi che abbiamo sono buone ma non vengono applicate con competenza”, prosegue Roia. E conclude: “Dobbiamo essere in grado di proteggere le donne senza limitare la loro libertà. Le donne stanno sei mesi chiuse nelle case rifugio in attesa che i giudici decidano eventuali misure cautelari nei confronti degli uomini che le minacciano. Ma non dobbiamo sradicare dalle loro case e dal loro quotidiano, sono gli uomini che dobbiamo togliere dalla circolazione”.

Non ci sono i soldi per le attività dei centri antiviolenza. Anzi, bisognerebbe dire piuttosto che i fondi ci sono ma non arrivano a destinazione. Lo ha denunciato qualche giorno fa l’ong ActionAid nel dossier “Cronache di un’occasione mancata”, un documento che monitora il movimento dei fondi antiviolenza sul territorio nazionale. Di quelli stanziati per il 2020 solo il 2% del totale è stato effettivamente consegnato a centri e case per donne vittime di abusi (e in sole due regioni: Liguria e Umbria).
A marzo 2020, su iniziativa della ministra per le Pari Opportunità Elena Bonetti, la cifra totale ammontava a 3 milioni di euroma solo poco più di 25mila sono effettivamente arrivati ai centri (meno dell’1%). Il mese successivo, con un bando d’emergenza per gli enti che gestiscono il sistema antiviolenza, la ministra aveva chiesto 5,5 milioni di euro: soltanto 142 hanno potuto farne richiesta perché i soldi venivano distribuiti a quanti erano in grado di offrire una garanzia pari all’80% dell’importo.
A maggio poi è stato istituito il “reddito di libertà“, misura pensata per permettere alle donne vittime di violenza di essere economicamente indipendenti con un contributo massimo di 400 euro al mese per 12 mesi. L’Inps ha pubblicato la circolare per definire le modalità e i requisiti di accesso al fondo l’8 novembre. Da maggio a oggi, quindi, nemmeno un euro dei 3 milioni complessivi stanziati a Centri e Case è stato consegnato. In più, secondo un gruppo di 84 associazioni di donne che gestiscono circa 150 realtà del sistema antiviolenza (la rete D.i.Re), per sostenere tutte le donne che avrebbero bisogno del “reddito di libertà” servirebbero almeno 48 milioni.

In una nota Istat sull’andamento del mercato del lavoro nel primo trimestre del 2021 si leggeva che il 59,3% delle donne fra i 15 e i 34 anni, cioè 6 su 10, non lavora e non cerca lavoro e che le donne inattive per motivi familiari sono più di quelle inattive per studio. Quando si tratta di indipendenza economica femminile spesso si sottovaluta l’importanza che questa assume in contesti familiari violenti.
Promuovere politiche che favoriscano l’assunzione delle donne, la giusta retribuzione e servizi che consentano di ridurre il carico del lavoro di cura, da sempre ritenuto appannaggio quasi esclusivo del genere femminile, permetterebbe a buona parte delle donne di abbandonare compagni e mariti violenti dai quali però, purtroppo, sono costrette a dipendere in assenza di impiego. Situazione che si fa ancora più complessa quando sono coinvolti anche eventuali figli minorenni. La necessità di rendere le donne sempre più autonome economicamente diventa stringente se si osserva l’ultimo report della Direzione centrale anticrimine della polizia: il 36% dei femminicidi è stato commesso da mariti o conviventi delle vittime.

Il fallimento del sistema che dovrebbe prevenire le violenze deriva, forse non del tutto ma sicuramente in parte, da una prolungata assenza della società su questi temi. Dal linguaggio sessista che riempie le pagine dei giornali e i programmi televisivi, all’assenza di progetti educativi capillari negli istituti scolastici che formino i giovani sul tema. Anche nella comunicazione delle iniziative volte a sensibilizzare la popolazione si osservano carenze non indifferenti: la nuova campagna contro la violenza di genere della polizia di Catania si chiama “Aiutiamo le donne a difendersi”, come se il problema riguardasse solo le vittime e non un sistema, una mentalità che da secoli limita l‘autodeterminazione femminile. Come se la causa di questa enorme problematica sociale non fossero gli uomini che le massacrano di botte o le uccidono.

Lavorare sugli uomini sarebbe la cosa più logica da fare e a dirlo sono le statistiche. Per esempio, a Milano è stato sperimentato il “protocollo Zeus” che obbliga gli uomini segnalati per violenze a fare percorsi terapeutici e che ha portato nel capoluogo a una riduzione dei casi recidivi del 90%.
Dal 2006 è attivo il numero di pubblica utilità 1522, tra i pochi strumenti che le donne hanno per denunciare le violenze e il reato di stalking, introdotto nel 2013. Operatrici volontarie rispondono 24h su 24, tutti i giorni dell’anno, sull’intero territorio nazionale e forniscono un primo supporto a quante ne hanno bisogno, offrendo informazioni e indirizzando le vittime, quando necessario, verso i centri antiviolenza. Il numero garantisce l’assoluto anonimato e nel secondo trimestre 2020, a causa del lockdown, l’Istat ha registrato un picco: 12.942 chiamate valide e 5.606 vittime. Uno strumento sicuramente utile ma non risolutivo.
Negli ultimi anni si è parlato con maggiore frequenza di violenza sulle donne ma spesso lo si fa male e non in maniera continuativa e trasversale, quasi a voler dedicare a un tema importante ma complesso solo un giorno, il 25 novembre. Riducendo al silenzio le vittime passate, presenti e future per il resto dell’anno.

Eleonora Panseri

Articolo originariamente pubblicato su Upday news

Perché “The Last Duel” di Ridley Scott è anche un film femminista

Francia, anno domini 1386. Due uomini si sfidano a duello. Uno per difendersi da un’accusa di stupro, l’altro invece si batte per il proprio onore di marito offeso. Al centro dell’arena, posta in alto rispetto ai duellanti, una donna, Marguerite de Carrouges, osserva la scena. Inizia così il nuovo film di Ridley Scott, “The Last Duel“, uscito nelle sale italiane il 14 ottobre e tratto dall’omonimo romanzo del 2004, scritto da Eric Jager. Il noto regista de “Il gladiatore” (vincitore di ben 5 premi Oscar) non poteva che proporre al suo pubblico un film ben fatto, consigliato a chi ama quelli di genere storico-drammatico. Tuttavia, al di là delle belle riprese e della sceneggiatura avvincente, chi ha gli strumenti per notarlo si accorgerà che il vero cuore del film non è il duello riportato nel titolo, ma quella donna che, tremante e incatenata, prega che il marito Jean de Carrouges, trionfi sullo sfidante ed ex amico Jacques Le Gris. Parlare della trama potrebbe in qualche modo portare a spoiler involontari. Quindi, in questo contesto, l’analisi verrà limitata alle tematiche femministe che, più o meno volontariamente, non ci è dato sapere, Scott ha inserito nel suo film.

Dal XIV secolo a oggi possiamo dire che, fortunatamente, la condizione della donna sia migliorata. Ma tra le qualità del regista capace sta quella di saper parlare, attraverso il passato, del presente. Il film racconta la storia di una donna stuprata nel Medioevo ma che ricorda molto da vicino quella delle survivors di tutte le epoche. Infatti, Marguerite, che trova il coraggio di denunciare il suo stupratore, finisce per affrontare tutte le prove che anche una vittima di stupro contemporanea vive sulla propria pelle.

In primis, l’atteggiamento del marito che sfida a duello l’ex amico e compagno d’armi non per un affetto sincero nei confronti della moglie, ma semplicemente per senso di rivalsa e di orgoglio maschile ferito. Marguerite è per Jean un oggetto di sua proprietà sul quale lo stupratore ha impresso un marchio d’infamia: solo il duello all’ultimo sangue potrà cancellarlo e restituire all’uomo la dignità perduta per colpa della consorte. A de Carrouges non interessa la sorte della donna che, nel caso lui perdesse il duello, verrebbe bruciata viva per aver mentito, o l’impatto che questo evento traumatico può aver avuto su di lei. L’uomo vive il fatto in virtù della propria visione del mondo e di come l’evento ha influenzato la sua, di vita.

Qui si passa a un altro interessante esperimento fatto dal regista: la divisione del film in tre parti, ognuna dedicata a uno dei protagonisti, intitolata “La versione di…”. Con questa divisione Scott enfatizza il diverso modo con cui prima Jean, poi Jacques e, per ultima, Marguerite, vivono quello che accade. In ogni versione notiamo particolari che in quella precedente o successiva non erano presenti o sfuggiti allo spettatore perché trascurati dal personaggio al centro di quel momento del film. Ne “La versione di Jacques Le Gris“, l’uomo accusato di stupro pronuncia una frase con la quale fa intendere che le resistenze della donna di fronte a un rapporto sessuale non consenziente per lui fanno parte del rituale della seduzione. Il consenso non è contemplato nella scala di valori di un uomo del Medioevo ma sembra che, in ogni secolo, anche quello attuale, non lo sia nemmeno per molti nostri contemporanei. Almeno questo è quello che emerge spesso dalle storie di donne sopravvissute ad una violenza sessuale. Ogni volta la responsabilità di uno stupro risiede nell’abbigliamento della vittima o nel fatto che fosse ubriaca o drogata e solo dopo nel comportamento criminale dell’uomo.

Le prime che fanno questo tipo di allusioni spesso sono altre donne. E’ ciò che accade anche in “The Last Duel”. Dopo la denuncia di Marguerite, le poche che lei considerava amiche le voltano le spalle, sostenendo in tribunale che, quello stupro, la donna lo desiderava perché una volta aveva riconosciuto a Les Gris di essere un bell’uomo. Il “se l’è cercata” aleggia prepotentemente in ogni scena post-denuncia.

Tra le detrattrici di Marguerite, anche la madre di suo marito che racconta alla nuora di essere stata stuprata a sua volta in gioventù. Ma questo non basta a farla empatizzare con la vittima del nuovo crimine: l’anziana donna la svilisce dicendo che lei, al contrario della ragazza, ha semplicemente scelto di stringere i denti, dimenticare il fatto e continuare con la sua vita. E da questo episodio si può trarre l’insegnamento più bello della pellicola: trovare la forza per denunciare un fatto, per non rimanere in silenzio di fronte a qualcosa che, sì, la società condanna, ma per il quale ti ritiene in parte colpevole pur non essendoci da parte tua alcuna responsabilità, non è facile. Ma alzare la testa e reagire consente non solo di cambiare il proprio destino, anche se tutti credono che sia già scritto, ma pure la sorte delle donne che verranno dopo.

Un film crudo, che lascia allo spettatore sensibile a questi fatti tanti temi su cui riflettere per giorni.

Coronavirus, molti studi clinici non considerano le differenze di genere

“Le differenze di genere hanno un impatto sull’incidenza dell’infezione da SARS-CoV-2 e della mortalità da COVID-19. In più, tali differenze influenzano la frequenza e la severità di possibili effetti collaterali dati dai farmaci”.

Si apre così lo studio Mancata considerazione delle differenze di genere negli studi clinici sul Covid-19, uscito il 6 luglio sulla rivista scientifica “Nature communications“. L’obiettivo della pubblicazione: sottolineare come nei recenti studi clinici sul Covid-19 il diverso impatto della malattia su uomini e donne sia un fattore spesso trascurato.

Partendo dall’analisi del sito PubMed, uno dei più grandi archivi per la ricerca online, gli autori della pubblicazione hanno scoperto che dei 4,420 studi sulla SARS-CoV-2 e sul COVID-19, 935 (21.2%) si occupano del genere solo nel contesto della selezione dei volontari, 237 (5.4%) pianificano campionamenti basati sul sesso o enfatizzano il tema del genere e solo 178 (4%) riportano esplicitamente un piano per includere il genere o il sesso biologico come variabile analitica. Solamente 8 (17.8%) dei 45 test clinici pubblicati su riviste scientifiche fino al 15 dicembre 2020 riferiscono risultati divisi per sesso o analisi in sottogruppi.

Un’assenza di dati che, come sottolineato anche dalla giornalista e attivista britannica Caroline Criado-Perez nel libro Invisibili pubblicato nel 2019, investe molti aspetti della vita delle donne, non soltanto quello sanitario, e questo determina un effettivo peggioramento della qualità della vita del genere femminile.

E anche se le donne sono state tra le categorie più penalizzate dalla pandemia (a causa del lockdown che ha aumentato il numero delle violenze e in ambito lavorativo), l’anno scorso sono state protagoniste facendosi promotrici attive di cambiamenti epocali importanti e necessari.

Eleonora Panseri

La rivoluzione dei videogiochi: gli Esports sempre più al femminile

Una damigella rapita e un eroe che combatte contro il cattivo per salvarla. Una trama che si è ripetuta per anni nel mondo dei videogiochi, come Super Mario e Donkey Kong. Ma oggi, davanti allo schermo e con le dita sul gamepad, ci sono sempre più ragazze.
«Esiste un falso mito: si pensa che il gaming sia un’attività principalmente maschile. Invece, ci sono sei milioni di appassionati di Esports e di questi il 39 per cento è donna. È una percentuale che in tante discipline sportive tradizionali non si trova», spiega Luigi Caputo, cofondatore dell’Osservatorio italiano Esports. Dal 2019, la piattaforma si occupa di ricerche dati di mercato e di formazione e informazione per le aziende che vogliono investire in questo settore.

La pandemia ha influito sull’ampliamento al femminile della fanbase e ha accentuato l’avanzamento progressivo dell’ultimo periodo. «Abbiamo passato un anno chiusi in casa. Le persone cercano di svagarsi e così anche molte donne», analizza Michela “Banshee” Sizzi, gamer professionista di Bergamo che ha disputato diversi campionati italiani a Milano. Dello stesso parere anche Miryam Saidi, 25 anni, pro-player meneghina: «I videogiochi piacciono e basta, non c’è più lo stereotipo del nerd. Con l’arrivo di grandi eventi è diventato normale che anche le donne li seguano».

Nonostante l’avvicinamento agli Esports del pubblico femminile, all’interno del mondo dei videogiochi resta palpabile la diffidenza della componente maggioritaria maschile. Un atteggiamento che spesso si esprime attraverso forme di sessismo, discriminazione e misoginia. «Su Overwatch, che è un gioco di squadra 6 vs 6, mi è capitato che i ragazzi nel mio team si accorgessero che ero donna e mi facessero perdere apposta», racconta “Banshee”, «lo stesso succede su Rainbow Six o Call of Duty, dove i compagni si rivoltano contro di te perché sei donna». «C’è molta aggressività e a volte non ti lasciano nemmeno parlare al microfono», commenta Saidi, «l’essere una ragazza è la prima cosa su cui vengo attaccata dal giocatore “medio”». Lo stesso non avviene, invece, con il gamer agonistico, che è abituato a vincere o perdere e ha una mentalità professionale.

«Quella del gaming è una community che spesso risulta tossica. Molte ragazze si nascondono dietro a pseudonimi, usano nomi maschili per giocare nelle live o scrivere nelle chat. Per una donna è difficile esprimere la sua passione per i videogiochi», spiega Fjona Cakalli, blogger, tech influencer e conduttrice della eSerie A Tim, la competizione calcistica virtuale di Fifa e Pes promossa dalla Lega Serie A.

Di origini albanesi, Cakalli si è trasferita a Milano da piccola, assieme al suo Nintendo Nes. Da allora non ha mai smesso di giocare, una passione che è cresciuta fino a diventare un lavoro. «Mi piace raccontare storie e recensire videogiochi. Mi sono proposta ad alcuni siti che parlavano di gaming ma sono stata respinta», racconta Cakalli, «mi dicevano che non ero pronta, che non ne sapevo abbastanza ma nessuno mi dava la possibilità di informarmi. Quindi, ho aperto un blog per divertirmi». L’esperimento nato nel 2011 si chiamava Games Princess. La particolarità? Era un sito di videogiochi con una gestione interamente al femminile: «Ho conosciuto ragazze che volevano scrivere. Siamo state accusate di “autoghettizzarci”, ma in realtà era un modo per proteggerci. Molte hanno utilizzato il sito come porto sicuro», afferma la blogger.

Il numero di appassionate di Esports è aumentato nell’ultimo anno ma non dal punto di vista agonistico. «Bisogna fare una distinzione tra player competitivo e streamer o content creator», analizza Luigi Caputo, «le streamer donna sono tante e anche famose. A livello competitivo, invece, ci sono molti più uomini».

A Milano, le professioniste si contano sulle dita di una mano. «Non siamo spinte a provare seriamente a diventare gamer. Molte ragazze giocano per divertimento. Ma quelle che vogliono raggiungere un obiettivo partono svantaggiate», spiega Saidi, «all’inizio anche io ho provato a cercare un team ma nessuno ha voluto farmi fare un tentativo “per non rovinare l’ambiente all’interno della squadra”».

Ma questa è solo una delle giustificazioni che impedisce alle ragazze di provare una carriera professionistica. Spesso le gamer non trovano sponsor perché il pubblico del settore non è pronto a gestire il fatto che una donna possa competere contro un uomo. Di conseguenza, nascono anche tornei divisi per genere, nonostante negli Esports non esista una differenza di prestazione fisica che, invece, potrebbe essere presente negli sport tradizionali. «È un male necessario», afferma Cakalli, «creare team femminili è un modo per puntare il faro. Partecipare a campionati per sole ragazze dà l’opportunità di farsi conoscere, per poi entrare in squadre miste». «Sono sempre stata molto contraria», ammette Saidi, «finché non li ho guardati da un punto di vista diverso. È come se si stesse cercando di normalizzare il fatto che le donne giocano agli Esports. Si cerca di introdurle facendole giocare fra di loro, per farle sentire più a loro agio».

In ambito competitivo, come in quello lavorativo della vita quotidiana, emerge la questione degli ingaggi. In Italia non si possono ancora fare bilanci sulle differenze reali di stipendi tra player maschili e femminili perché il mercato non è ancora così sviluppato e i contratti non sono ancora così remunerativi. Ma avvicinare il pubblico femminile agli eventi di Esports (e al gaming più in generale) è uno degli obiettivi di business delle aziende e degli organizzatori per ampliare la platea degli appassionati. Un esempio è quello delle fiere del videogioco, che da tempo hanno eliminato la figura delle booth babes, le ragazze in top e shorts che avevano il compito di attirare gente agli stand.


Per normalizzare il fatto che le donne si occupino di videogiochi e tecnologica si deve partire dalla formazione, soprattutto quella scolastica. «Per creare parità c’è bisogno di strategie mirate», conclude Cakalli, «a scuola cercavo di condividere con le amichette la mia passione per i videogiochi, ma mi sentivo un alieno. Avevo solo amici maschi perché con le ragazze non avevo un interesse comune. Ma le donne possono essere coinvolte già da piccole per dire loro che è normale amare i videogiochi, le scienze e la tecnologia».

Filippo Gozzo

Il distanziamento impossibile delle sex workers transgender

«Non disponiamo di dati precisi, ma si parla di circa 5mila persone che si prostituiscono indoor (in appartamenti, ndr) e circa 600 su strada, di cui il 50 per cento è transessuale», racconta Vincenzo Cristiano, presidente dell’associazione Ala Onlus. Il territorio meneghino è diventato così in particolare il centro della prostituzione transessuale di origine sudamericana in Italia. Perché proprio il capoluogo lombardo? «È la città con la maggiore dimensione internazionale», dichiara Cristiano, «c’è un grande via vai di uomini d’affari e turisti».

«Scappano da Paesi machisti in cui la loro sessualità non è accettata e per questo non riescono a lavorare», afferma Antonia Monopoli, attivista e responsabile dello sportello di Ala. «Lasciano la famiglia e vedono nella prostituzione l’unica via possibile di fuga». «Ricordo però anche il racconto di una ragazza trans che faceva la parrucchiera: tutte le sere si presentavano uomini che pretendevano di fare sesso con lei. Se non si fosse concessa le avrebbero distrutto il locale».
La vendita del proprio corpo come scelta quasi obbligata, ma non significa che il sex work sia necessariamente sinonimo di sfruttamento. «Spesso sono persone che arrivano nel nostro Paese consapevoli di esercitare questa professione», chiarisce Cristiano.

Ph. Ted Eytan 

A causa delle misure relative a distanziamento sociale e coprifuoco, sulle strade non si sono più viste le ragazze che erano solite lavorare outdoor. L’assenza di entrate ha reso loro difficile provvedere al sostentamento: «Per due mesi abbiamo aiutato 54 ragazze transgender con pacchi alimentari». Chi lavora in appartamento ha visto solo diminuire i propri clienti, i quali hanno continuato a rivolgersi alle sex worker nonostante l’emergenza sanitaria. «Il cliente tipo va dai 30 ai 50 anni, tendenzialmente con famiglia, per compensare una vita sessuale poco soddisfacente tra le mura domestiche», dice il presidente, «tutte le estrazioni sociali sono coinvolte, dall’operaio al manager affermato».

Inevitabili i contagi. «Un paio di sex worker sono decedute, ma a causa di patologie pregresse», chiarisce Cristiano, «paradossalmente sieropositive e tossicodipendenti non sono state più colpite della media della popolazione. Molte hanno pensato di avere una banale influenza». Magari non emarginate, ma sicuramente poco tutelate giuridicamente anche in questa situazione. Nel 1958, la senatrice Lina Merlin ha proposto e fatto approvare la legge che ha chiuso le case di tolleranza e introdotto i reati di sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione. Di ispirazione abolizionista, la normativa aveva l’obiettivo di tutelare le donne, ma di fatto impedisce il riconoscimento del sex work quale professione, «escludendo dall’erogazione di bonus e ammortizzatori sociali quelle che sono lavoratrici a tutti gli effetti. Noi di Ala Onlus ci battiamo affinché la prostituzione ottenga un riconoscimento legislativo», sostiene Cristiano.

Da sfatare il binomio fra transessualità e prostituzione: «Quando trovano un lavoro decidono di lasciare perché è un mondo in cui non si sentono serene», rivela ancora Monopoli, «in strada non mancano le violenze da parte dei clienti». E non solo.
«Riceviamo moltissime telefonate di genitori i cui figli vogliono intraprendere la transizione. Una volta la famiglia li rifiutava», aggiunge Vincenzo Cristiano, «da questo punto di vista la realtà milanese è molto più progredita di altre città». «Possiamo definire l’Italia un Paese accogliente, ma c’è ancora molto da fare», conclude Antonia Monopoli, «non mancano gli episodi di mobbing a danno delle ragazze trans che trovano un lavoro».

Chiara Barison

2 giugno 1946: il primo voto nazionale delle donne italiane

Monarchia o Repubblica?

La fine della dittatura fascista rappresentò per l’Italia l’inizio di una nuova fase politica.

75 anni fa nasceva la Repubblica italiana ma questa non fu l’unica novità portata da quel 2 giugno.

Per la prima volta in una votazione nazionale venne chiesto anche alle donne di esprimere una preferenza. Le italiane esercitarono il diritto di voto per cui tante avevano lottato (tra loro, la partigiana Marisa Rodano).

Con l’introduzione del suffragio femminile in Italia (il 10 marzo in occasione delle elezioni amministrative) alle donne venne riconosciuto lo status di cittadine a tutti gli effetti, quello fu il primo passo verso una parità che purtroppo non è stata ancora raggiunta.

Tuttavia, le rivendicazioni che vennero dopo, per il diritto all’aborto, il divorzio, la parità salariale, e quelle che verranno partono anche da quel 10 marzo e da quel 2 giugno.

Quando, per la prima volta, le donne uscirono di casa e dissero: “Oggi vado a votare”.

Eleonora Panseri

Giappone, il trono del crisantemo avrà un’imperatrice?

Le donne della famiglia imperiale giapponese sono escluse dalla linea di successione. Ma in un futuro forse non troppo lontano le cose potrebbero cambiare.

Nel dicembre 2018 il 125esimo imperatore del Giappone Akihito annunciò la decisione di abdicare, concretizzatasi qualche mese dopo, il 30 aprile 2019. Un evento che nella storia del Paese si era verificato in precedenza solo una volta, 202 anni prima, con l’imperatore Kokaku.
La notizia aveva destato scalpore mediatico e creato un problema costituzionale. In più, all’epoca era stata sollevata una questione che dopo due anni resta ancora irrisolta, quella di una possibile successione femminile.

Al trono non è mai salita un’imperatrice e i conservatori continuano a sperare che questo non accada. Tutto però fa pensare che prima o poi sarà necessario prendere in considerazione questa eventualità.
Perché?

La famiglia imperiale giapponese.

Dei 18 membri che compongono attualmente la famiglia imperiale, 13 sono donne. In più, l’erede diretto in linea di successione è una ragazza: Aiko, figlia dell’attuale imperatore Naruhito, successore del “dimissionario”.
Dopo di lei verrebbero le sue cugine, figlie del fratello di Naruhito, Akishino: Mako e Kako.
Così, eliminate le dirette discendenti per questioni di genere, resta solo Hisahito, il terzogenito 14enne che salirebbe al trono dopo lo zio e il padre. Tuttavia, se il futuro imperatore non avesse figli maschi, il problema si ripresenterebbe.

A tutto ciò si aggiunge la questione dei matrimoni delle discendenti femminili con i cosiddetti “commoners“, persone non appartenenti alla famiglia reale che, sposandosi con le principesse, annullerebbero lo status delle compagne e quindi la possibilità di eventuali figli di salire al trono.

Pur essendo il Giappone un paese con espressioni di profonda misoginia, secondo l’agenzia di stampa nipponica “Kyodo News” l’80% di chi ha partecipato a un sondaggio condotto tra marzo e aprile scorso ha dichiarato che accetterebbe senza problemi un’imperatrice. A dimostrazione del fatto che anche il Parlamento giapponese dovrebbe iniziare a pensare a questa eventualità e rivedere la Costituzione in merito. A meno che il Paese del Sol Levante non voglia vederlo tramontare sul trono del crisantemo.

Eleonora Panseri

“Libera di abortire”, la nuova campagna di Radicali Italiani

“Siamo davvero libere di abortire?”

Questa è la domanda con cui i Radicali Italiani e un gruppo di associazioni lanceranno oggi, lunedì 24 maggio, a Milano con una conferenza stampa alle 11.45 nella sede dell’Associazione Enzo Tortora Radicali Milano e in diretta Facebook la loro nuova campagna, “Libera di abortire“. Per “garantire il libero accesso all’aborto“, come si legge sul sito dedicato al progetto.

Presentata qualche giorno fa anche a Roma e Pescara, l’iniziativa nasce con l’obiettivo di informare sulla pratica dell’aborto e di denunciare una situazione che in Italia vede una diffusa disinformazione sull’argomento e un numero altissimo di obiettori. A questo si aggiungono le scelte politiche di amministrazioni anti-abortiste che rendono ancora più difficile per gli/le/* cittadin* l’accesso all’aborto.

In Italia tante donne sono ancora oggi sottoposte a violenze fisiche e psicologiche, anche se, grazie alla legge 194 approvata 43 anni fa, l’aborto nel nostro Paese non dovrebbe più essere né un crimine né uno stigma.

La critica dei Radicali è rivolta all’impegno dello Stato che risulta carente nel fornire a tutti gli strumenti per vivere la propria sessualità in maniera consapevole, per conoscere e accedere all’IVG (l’Interruzione Volontaria di Gravidanza) e alle sue alternative.

E’ possibile sostenere “Libera di abortire” in due modi: finanziando uno dei manifesti che racconteranno le storie e i pensieri di attivist* che hanno subito violenze per aver scelto responsabilmente di abortire o/e firmando l’appello rivolto al Ministro della Salute Roberto Speranza.

Sul sito della campagna potete trovare maggiori informazioni. Qui invece trovate la pagina dove firmare l’appello e qui quella per cofinanziare i manifesti.

Eleonora Panseri

Petto in fuori e “Tette In Su”!

Vittoria Loffi, 22 anni, di cui 6 dedicati all’attivismo. Nel 1998 nasce a Cremona, ma studia e si forma politicamente a Milano. Qualche mese fa ha conseguito una prima laurea in “Scienze Internazionali e Istituzioni Europee” con una tesi su “La disciplina dell’aborto nei paesi BRICS” (BRICS: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, ndr). Oggi frequenta un corso di magistrale in “International Studies” a Roma, milita con i Radicali Italiani in qualità di membro del Comitato Nazionale e per loro ha ideato e conduce il podcast femminista “Tette In Su!”.

IG: @vittoriacostanzalow.fi

Com’è nato “Tette In Su!” e perché?
Diciamo che è nato perché ero interessata molto non solo al femminismo intersezionale, ma ai femminismi in generale e li stavo approfondendo in modo personale, singolo. Avvicinandomi ai Radicali Italiani e alla storia di Adele Faccio (attivista politica italiana, tra le prime propugnatrici del diritto all’autodeterminazione delle donne su materie riguardanti il proprio corpo e cofondatrice del centro d’informazione sulla sterilizzazione e sull’aborto, ndr), ho cercato di proporre diverse tematiche in versione podcast.
Secondo me, mancava un’analisi contemporanea, al passo coi tempi. Per esempio, si parla sempre tanto di diritto all’aborto, di sex working, di famiglie arcobaleno e persone transgender ma spesso non viene fatta un’analisi del contenitore “femminismo”. Volevo fare una sorta di “abecedario dei femminismi” per spiegarli a me, in primis, e poi agli altri. Anche se è sempre vero che studiare qualcosa significa imparare nozioni e addentrarsi in posizioni che sono magari molto lontane dalle proprie, penso a quelle del femminismo radicale. Applicare certe teorie nella vita quotidiana diventa poi tutt’altra storia. Però, secondo me, il podcast resta ugualmente uno strumento interessante per approcciarsi alle tematiche dell’oggi, in un’ottica femminista plurale. È necessario conoscere le radici dei pensieri, delle teorie, degli studi per riuscire ad esprimersi meglio.
Il nome del podcast, “Tetteinsu”, è nato guardando la serie de “La fantastica signora Maisel” durante il primo lockdown. Le cose belle della pandemia! Per me, usare il termine “tette” in modo così esplicito è stato un modo per liberare il corpo femminile. Quando parliamo di qualcosa che lo riguarda sembra sempre sia necessario trovare un linguaggio in codice, come quando diciamo “le mie cose” per parlare di mestruazioni o usiamo vezzeggiatici per parlare della vagina.

Oggi si parla tanto di “femminismo” o, meglio, di “questioni di genere”. Pensi che del femminismo, in realtà, si conosca veramente poco? Che da un lato ci sia tutto quel mondo fatto di slogan mainstream e dall’altro quelli che pensano che le femministe siano solo le donne che odiano gli uomini e che non vogliono saperne di avere figli? C’è un po’ di confusione e il podcast può aiutare a fare chiarezza?
Quando ho iniziato con il podcast, speravo proprio di sì e continuo a sperarlo, pure pensando a tutte le puntate che sono ancora in cantiere. E tra gli scopi del progetto c’era anche la rivendicazione del termine “femminista”. Indipendentemente da quale sia il femminismo in cui una persona si rispecchia (radicale, transescludente, post-strutturalista, ecc…), la volontà era proprio quella di riappropriarsi del termine e non parlarne solo come di questioni di genere. Perché è chiaro che il femminismo parli anche di questo ma usarlo come sinonimo di femminismo non è corretto.
Anche in politica capita spesso che alcune figure femminili fondamentali, che fanno un enorme lavoro in Parlamento, rifuggono il termine “femminismo”. “Perché?”, mi chiedo. Non c’è una motivazione specifica. Effettivamente nell’opinione pubblica c’è una visione stereotipata della femminista che odia gli uomini e vorrebbe sradicarli dalla faccia della terra, ma la realtà è ben diversa. Basterebbe uno sforzo in più per capirlo e il podcast voleva anche fare questo, proporre degli spunti di approfondimento.
Penso a Lorenzo Gasparrini che dice che dovremmo essere tutti femministi, riprendendo Chimamanda Ngozi Adichie. Credo sia bellissimo che lo faccia in quanto uomo e che usi proprio il termine “femminista” per sdoganarlo. Parlare semplicemente di “questioni di genere” significa, secondo me, voler negare un contenitore politico che invece è rivendicabile come è oggi definirsi “ambientalista”. L’uso del termine “femminista” dovrebbe dare subito l’idea di un insieme più ampio, “vario ed eventuale” dove ci sono tante posizioni e dove c’è anche il conflitto.
Quello che mi ha stupito in questi ultimi mesi è che, parlando del ddl Zan, si è dato per scontato che all’interno del movimento ci fosse la necessità di essere tutt* d’accordo e che il fatto che alcune femministe non lo fossero sia stato indicato come un disvalore. Una situazione che è stata sfruttata per dire: “Ecco, le donne non riescono ad andare d’accordo tra loro”, ma non è così. Le donne hanno avuto un lasso di tempo troppo ristretto per sviluppare un’ideologia unitaria ed è ovvio che ci sia uno scontro tra femministe che, per me, è comunque positivo.
Usare l’alternativa “questioni di genere” significa ridurre oggi il femminismo al rapporto uomo/donna ma è un rifiuto che nega una storia. Questo non significa che tutte le donne debbano essere femministe, ma riconoscere che una politica di genere è una politica che fa del femminismo.

A proposito di questo, perché ci sono tante persone che in qualche modo temono il femminismo, che dicono: “va bene, appoggio certe battaglie, ma non mi definisco femminista”? Cos’è che spaventa tanto?
Secondo me, la questione centrale è il tema del privilegio. Questa tematica c’è da sempre e bisogna anche vedere l’ottica dalla quale guardarla. Se una persona guarda il privilegio con un “occhio intersezionale” vedrà che nessuno gli sta chiedendo di assumersi una colpa. Questa cosa, secondo me, non è chiara.
Anche io sono una privilegiata: sono bianca, cisgender ed eterosessuale. Non sono privilegiata in quanto donna, ma per tutti gli altri fattori che compongono la mia identità. Questo privilegio però non lo sento come una colpa, ho imparato che va riconosciuto e compreso. La richiesta è prenderne atto, venirne a conoscenza.
Il discorso è chiaramente molto complesso perché la nostra identità è fatta di tanti fattori: orientamento sessuale, identità di genere, etnia, status sociale, ecc… Questi fattori si intersecano e ci fanno assumere una posizione all’interno di una società strutturata. In questo senso, chiedere a una donna di prendere coscienza del suo privilegio è più difficile rispetto al chiederlo ad un uomo perché, se storicamente esiste lo “scontro” uomo/donna, nel momento in cui le altre identità, le altre voci emergono, si chiede anche alla donna bianca, cisgender, etero di ridurre il proprio privilegio davanti a una donna nera, disabile o transgender. E il fatto che ci sia questa richiesta mette la prima in difficoltà. La reazione spesso è: “Ma anche io sono donna!”, quando non si capisce il valore dell’intersezionalità.
Su questo argomento è interessante il discorso che fa Nancy Fraser (filosofa e teorica femminista statunitense, ndr) sul femminismo che si è concentrato sull’abbattimento del famoso “soffitto di cristallo”. Fraser fa notare giustamente che non tutte le donne aspirano a diventare Ceo e si chiede: “Queste allora non sono soggetti validi di rivendicazione?”. Fa un’accusa parziale al femminismo liberale, quella di essersi dimenticato in parte dei problemi quotidiani delle donne. Questa è una conseguenza del non capire che tutt* partiamo da una condizione di privilegio rispetto al modo in cui la società ha sviluppato i concetti di “adeguato” e “non adeguato”. Si chiede semplicemente di prenderne atto per lavorare in un’ottica non negativa, ma propositiva. Rispetto agli uomini stessi, è giusto tentare di dialogare da pari. Anche se farlo è anche un talento. È chiaro che non sempre si riesce ma ci dovrebbe essere uno sforzo in questo senso.   

Rimanendo sempre sul tema del “prendere coscienza”, possiamo inserire in questo discorso anche “not all men”, “non tutti gli uomini? Possiamo dire che le donne devono prendere coscienza all’interno del movimento, ma che c’è la necessità che questo lavoro lo facciamo anche gli uomini?
Assolutamente! Secondo me, dire la famosa frase “non tutti gli uomini” è già un manifestare un privilegio, quello dell’estraniarsi da determinate dinamiche sbagliate, negative e tossiche, come quella del revenge porn, così che nessuno te ne venga a chiedere conto o che ti si richieda una maggiore partecipazione. Un uomo dovrebbe dire: “Sono in una posizione in cui la mia possibilità di essere ascoltato è maggiore, soprattutto dai miei “pari”, dal contraltare maschile” e fare lo sforzo non tanto di essere femminista, quanto piuttosto di rifiutare determinate dinamiche che hanno a che fare, banalmente, con la civiltà. Quando si parla di “cultura dello stupro”, non ci si riferisce semplicemente all’atto di stuprare concretamente una donna: la “rape culture” passa attraverso tutta una serie di pratiche sulle quali un uomo potrebbe e dovrebbe far sentire la propria voce. Per esempio, se un amico mostra una foto di nudo della propria compagna, l’uomo dovrebbe dire: “Ma che stai facendo?”.
Alla frase “non tutti gli uomini”, una donna può rispondere: “Sì, però tutte le donne…” perché ognuna di noi ha sperimentato certe dinamiche, dal catcalling, le battute sessiste, alla violenza sessuale vera e propria. Per gli uomini lo sforzo dovrebbe essere quello di fare attivamente qualcosa. Che non significa necessariamente diventare un attivista, ma quanto meno cercare di frenare il più possibile questi comportamenti, almeno con la cerchia di persone più vicine, parenti e amici.

Ultima domanda, un po’ utopica: se fossimo tutti fossimo femministi, come dice Chimamanda Ngozi Adichie, a quel punto non avremmo più bisogno del femminismo. Secondo te, che mondo sarebbe se effettivamente riuscissimo a raggiungere questo traguardo?
Allora, partiamo col dire che la maggior parte dei teorici che ho studiato dice che la disuguaglianza non si può eliminare del tutto, può essere ridotta soltanto al “minimo accettabile”. Se partiamo da questo presupposto, anche se fossimo tutti femministi, probabilmente le disuguaglianze non verrebbero completamente sradicate. La cosa importante però è organizzarsi collettivamente per cercare una risposta forse non efficace al 100%, ma utile per limitare la disuguaglianza. Oggi questo tentativo quasi non esiste perché quando si prova a farlo c’è sempre una gran discutere, in ogni ambito. Prendiamo di nuovo come esempio il ddl Zan, intorno al quale si sarebbe potuto costruire un bel confronto e invece si è finiti a fare un discorso fazioso.
A me piacerebbe tanto vedere quest’utopia realizzata, anche se ci sarebbero appunto nuove forme di disuguaglianza. Non è facile riuscire a essere empatici a sufficienza per riconoscere le difficoltà dell’altro e ascoltare le sue istanze di riconoscimento. Dipende pure di che tipo di femminismo si parla perché, come abbiamo già detto, sono tanti e c’è una pluralità di opinioni che divergono, che propongono soluzioni diverse. Le istanze delle sex workers, per esempio, riceverebbero, a seconda dei vari femminismi, delle risposte diverse.  Ma, se lo fossimo veramente tutti quanti, forse troveremmo dei meccanismi che renderebbero la risposta alla disuguaglianza immediata. E questa rimane sicuramente una speranza.

Potete trovare il podcast sul sito dei Radicali Italiani, su Spotify, Google Podcast, Apple Podcast e sulle principali piattaforme di streaming audio!

Eleonora Panseri

Treccani.it elimina i riferimenti sessisti dalla voce “donna”

Due mesi fa un gruppo di donne guidate dall’attivista italiana Maria Beatrice Giovanardi aveva fatto un appello all’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani chiedendo di rimuovere i riferimenti sessisti presenti sull’enciclopedia online alla voce “donna”. Queste espressioni infatti, secondo le 100 firmatarie della lettera inviata all’Istituto, non erano da ritenere soltanto offensive ma anche, “quando offerte senza uno scrupoloso contesto”, causa di “stereotipi negativi e misogini che oggettificano e presentano la donna come essere inferiore”. A seguito di un lungo dibattito oggi, 14 maggio, è arrivato il responso positivo della Treccani che ha deciso di ascoltare la richiesta delle attiviste.

Valeria Della Valle, direttrice del vocabolario, ha spiegato a Repubblica che la scelta di modificare la voce è solo l’inizio di un più lungo processo “culturale”:

«L’operazione richiederà più tempo perché il lavoro di un dizionario è simile a quello del sarto, la voce “donna” che contempla già espressioni relative ai diritti, all’emancipazione e ai movimenti di liberazione delle donne, ha bisogno di ritocchi che aggiungeranno frasi relative al ruolo professionale della donna».

Nel 2019 Giovanardi aveva portato avanti la stessa battaglia con l’Oxford Dictionary che, dopo un anno di dibattito, aveva acconsentito a modificare la voce “woman”.

Eleonora Panseri

Potrebbe essere una donna il nuovo presidente del Consiglio?

Autorevole e competente.
Emma Bonino, parlamentare di “Più Europa” ed ex Ministra degli Affari Esteri, pensa siano queste le caratteristiche di un premier.
E se queste le avesse una donna, sarebbe davvero così utopico?

In questi giorni di consultazioni si continuano a sentire nomi su nomi, nel bene e nel male. Ma non emerge mai una proposta femminile per la posizione centrale di Governo. Solo Emma Bonino ha sollevato la questione. È così impensabile che in Italia venga scelto un capo di Governo che non sia un uomo?

Un primo ministro dovrebbe essere autorevole e competente perché sta guidando una nazione, non sta giocando una partita a poker in una serata tra amici (mi permetto di aggiungere che chiunque entri in politica dovrebbe esserlo, ma in effetti così entriamo in un’utopia che rasenta la distopia). Ma in Italia preferiamo metter davanti il genere alla capacità
politica e governativa della persona. Non riconosciamo le donne come leader e in parte è anche responsabilità di noi donne.

Come al solito è tutto causa e conseguenza di una politica fatta da e per gli uomini. Basti pensare alla scena ridicola di Matteo Renzi in conferenza stampa che parla al posto delle Ministre dimissionarie del suo partito politico (le “ministre della discordia,” Bonetti e Bellanova). Hanno avuto entrambe degli spazi per esprimersi e credo siano emerse come personaggi competenti, ma sono state letteralmente fagocitate dall’egocentrismo di Renzi.

Oggi il personaggio politico femminile più di spicco nel Parlamento italiano è Giorgia Meloni, nota più per le sue affermazioni social alla “Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, etc.” e alle sue visioni conservatrici che effettivamente fanno poco paura al patriarcato (basti pensare che i suoi commenti sulla questione dell’aborto in Polonia sono quasi identici a quelli di Matteo Salvini).

In ogni caso, siamo sempre delle “Cenerentole”, cerchiamo, sì, di prenderci delle piccole quote di potere, ma quando si tratta di occupare la poltrona più importante non abbiamo neanche una candidata da proporre.
Nel 2018 un avvocato pugliese semisconosciuto con studio a Roma è stato scelto come “Presidente di garanzia”, tale Giuseppe Conte. Si è poi trovato a gestire una prima crisi nel 2019 (con Salvini direttamente da Riccione, e temo faccia già ridere così) e una seconda nel 2021 (Renzi, in piena emergenza pandemica, pur sollevando delle questioni rilevanti ha avuto indubbiamente un pessimo tempismo).
Non ho fatto nomi a caso, ho intenzionalmente scelto di sottolineare come, ancora una volta, a reggere le fila della politica italiana che conta siano gli uomini. E vi cito un paio di eventi recenti per parlare di
questi personaggi.
Matteo Salvini è il politico che preferisce evitare i prestiti del Recovery per usare solo finanziamenti di mercato a fondo perduto, geniale strategia che consentirebbe di pagare ben 25 miliardi in più nei prossimi 10 anni, visto che notoriamente navighiamo in buone acque (il professor Cottarelli gli ha anche gentilmente offerto una lezione di economia in televisione per insegnargli a fare i calcoli).
Matteo Renzi è invece quello che dopo aver aperto una crisi politica, ha preso un jet privato per andare ad intascare il denaro del “grande principe Mohammad bin Salman”, augurandosi un “nuovo rinascimento”
in Arabia Saudita (peccato che quando era al governo a noi italiani offriva in busta paga solo 80 euro di bonus, illuminato…).
Sono questi personaggi autorevoli e competenti? A voi l’ardua sentenza. Ma come italiani possiamo fare sicuramente di meglio.

E come italiane dovremmo fare di più per abbattere il famoso “glass ceiling“, il famoso “soffitto di cristallo”, e contribuire attivamente, di più e ancora meglio, al nostro paese. In fondo, non è un momento storico decisamente propizio per provarci?
Alla Casa Bianca, Kamala Harris ha dimostrato che si può fare.
In Estonia, Kersti Kaljulaid e Kaja Kallas ricoprono le cariche più alte dello Stato, rispettivamente Capo di Stato e Capo di Governo.
In Nuova Zelanda, Jacinda Ardern è stata internazionalmente riconosciuta come una delle migliori leader nella gestione della pandemia da coronavirus.

Quando toccherà a noi?

Eleonora Scialo

Aggiornamento: nella giornata di ieri, durante le Consultazioni, sembra sia stato fatto il nome della costituzionalista Marta Cartabia per il ruolo chiave di Palazzo Chigi.

Crisi di governo, le ministre della discordia: Teresa Bellanova

Insieme ad Elena Bonetti, ha lasciato il suo incarico al Governo anche Teresa Bellanova, deputata di Italia Viva, ex ministra delle politiche agricole alimentari e forestali. Bellanova viene scelta come sottosegretaria di Stato al lavoro nel 2014, viceministra dello sviluppo economico nel 2016 e ministra del Conte bis per il suo passato da bracciante (lascia la scuola subito dopo aver finito le medie per lavorare) e da sindacalista impegnata nella lotta al caporalato. Insomma, un curriculum di tutto rispetto. Questo però non è bastato ai detrattori del binomio “donne e politica”.


Nel 2019 infatti, subito dopo il giuramento al Colle, piovvero critiche feroci sull’aspetto della ministra e sul suo titolo di studio. Perché quando le donne entrano in politica non importa quante competenze ed esperienza abbiano accumulato nelle loro carriere: chi non accetta che sia una donna ad avere il potere, troverà sempre qualcosa a cui attaccarsi. Soprattutto con commenti che sviliscano quella tanto decantata “femminilità” che non deve essere assente, ma nemmeno troppo evidente. Perché, ormai lo sappiamo troppo bene, quando si attacca una donna non lo si fa mai sulla base delle azioni che questa compie, come capita ai colleghi uomini, ma proprio in quanto come rappresentante del genere femminile.

Ora, tornando alla crisi di governo, al leader di Italia Viva Matteo Renzi sono state rivolte pesanti accuse di sessismo perché, durante la conferenza in cui sono state annunciate le dimissioni, le due ministre Teresa Bellanova e Elena Bonetti hanno avuto la possibilità di intervenire soltanto dopo l’intervento del capo di partito.
Sì, esatto, sui social e non, si sono schierati tutti in difesa di Bonetti e della stessa Bellanova che soltanto qualche tempo fa veniva massacrata da insulti come «vai a lavorare, tricheco» o «balena blu» (perché l’abito scelto dalla ministra per il giuramento era blu elettrico). La parola data soltanto dopo alle due donne ha fatto insorgere alcuni “femministi d’occasione”, quelli che si battono per la parità di genere solo quando questa porta loro un vantaggio. Infatti, quando si tratta di attaccare il nemico, le donne vengono strumentalmente difese o distrutte, come successo a Bonetti e Bellanova o, di recente, a Melania Trump, chiamata “escort” da Alan Friedman durante una trasmissione di Rai1.

Quello che le donne dovrebbero fare in questi casi è non rimanere in silenzio. Come ha fatto qualche tempo fa Alexandria Ocasio-Cortez che ha pronunciato un lungo discorso rivolto al collega repubblicano della Florida Ted Yoho che le si era rivolto chiamandola “fucking bitch“.
“Io sono qui perché devo mostrare ai miei genitori che sono figlia loro e che non mi hanno cresciuta per accettare gli abusi degli uomini”, ha dichiarato fermamente la deputata. “Trattare le persone con dignità e rispetto è ciò che rende onesto un uomo. E quando un uomo onesto fa un errore, come tutti noi possiamo fare, cerca di fare del suo meglio per scusarsi. Non per salvare la faccia, non per avere un voto in più.  Si scusa genuinamente per riparare e riconoscere il male che ha fatto cosicché sia possibile superare la cosa tutti insieme”.

Bellanova e tutte le donne della politica di ieri e di oggi stanno ancora aspettando le scuse di quanti non hanno pensato due volte a massacrarle e che le hanno difese solo quando farlo era funzionale ai loro scopi. 

Eleonora Panseri


Questo pezzo si inserisce in un progetto condiviso con i compagni della Scuola di giornalismo “Walter Tobagi” di Milano e coordinato insieme ai colleghi di All’Ultimo Banco“. Di seguito trovate alcuni contributi sul tema, gli altri li potete trovare QUI.


Gli altri protagonisti della crisi

Ma chi sono gli altri protagonisti di questa crisi di governo?
Sicuramente, il già citato Matteo Renzi che ha attirato su di sé l’ira del Presidente del Consiglio dimissionario Giuseppe Conte.

La scontro tra i due leader per molti aspetti ha ricordato una partita di tennis o un match di pugilato, come l’incontro Tyson/Holyfield del 1997 .

Non sono mancati i colpi di scena, come il voto a sostegno della fiducia dell’onorevole Mariarosaria Rossi, visto dai compagni di partito (e da tutti gli altri) come un tradimento al fondatore di Forza Italia Silvio Berlusconi. E viene quasi spontaneo il paragone con altri e più famosi “cambi di maglia“.


Crisi del passato

66 governi in 75 anni di vita repubblicana: l’Italia sembra non essere mai riuscita a trovare una stabilità politica duratura. Colpa anche del mutare delle tanto famose quanto complesse leggi elettorali, fortemente condizionate dal momento politico in cui vengono approvate.

Tra le crisi più famose, è quella del 1876: con la caduta della Destra storica in Italia si aprì una nuova stagione politica dominata dalla sinistra e dalla figura di Agostino Depretis.


Molte altre “sono passate alla storia con espressioni tra il culinario e il goliardico, sorte toccata anche a diversi accordi e patti: dal famoso “patto della crostata” del ’94 a quello delle sardine del 1997 fino al più recente “patto delle tagliatelle” del 2018 con cui di fatto è nato il primo governo Conte”.

Per restare in tema, nei pressi di Montecitorio si trovano alcuni locali divenuti famosi per l’assidua frequentazione da parte delle diverse forze politiche che compongono il nostro variegato parlamento.


Il giornalismo e le donne al potere: cosa ne pensiamo

Da diversi anni, la riflessione sul modo in cui il mondo dell’informazione tratta il tema delle donne al potere è spesso al centro del dibattito. Può capitare che giornali e programmi televisivi/radiofonici promuovano, il più delle volte inavvertitamente, stereotipi e narrazioni sessiste. Sull’argomento siamo state intervistate dal fondatore di “30 Penne Bianche“, Filippo Menci.

Vivere da “Invisbili”

A chi crede che oggi il femminismo non abbia senso o che sia lesivo per la società e per le donne stesse bisognerebbe far leggere questo libro. Non è un testo semplice ma deve essere annoverato tra gli “essenziali” per capire come molte rivendicazioni del movimento femminista non siano semplicemente frutto del delirio collettivo di una massa informe di pazze.
Caroline Criado Perez, scrittrice, giornalista e attivista, ha pubblicato “Invisibili” l’anno scorso, una riflessione che di astratto non ha nulla. Nelle oltre 400 pagine di questo saggio, forse uno dei migliori del 2020, l’autrice parla di dati. O, meglio, di dati raccolti che non vengono presi in considerazione. In una realtà come quella in cui viviamo oggi i data sono strumenti essenziali e lo sono sempre stati perché è proprio sulla base di queste informazioni che costruiamo il mondo che ci circonda.

Cosa c’entra tutto questo con il femminismo?
La risposta ce la dà direttamente Criado Perez nella sua Prefazione:

“La storia dell’umanità, così come ci è tramandata, è un enorme vuoto di dati”.

L’autrice parla di quel fenomeno, il gender data gap, la mancanza di dati di genere, che impedisce alle donne di vedersi realmente rappresentate nelle società in cui vivono e operano. E se, come si legge nel libro, doversi vestire pesante anche in estate perché l’aria condizionata è regolata in base alla media della temperatura dei corpi maschili o dover compire uno sforzo per raggiungere i prodotti posti su scaffali che per un uomo sono di un’altezza adatta ma troppo alti per le donne possono sembrare cose “stupide”, paranoie femminili, decisamente più grave è “avere un incidente su un’auto con dispositivi di sicurezza che non tengono conto delle misure femminili” o “avere un attacco di cuore che non viene diagnosticato perché i sintomi sono considerati “atipici”.

Questa assenza di dati il più delle volte non è intenzionale, ci mancherebbe. Ma negare cocciutamente che questa disparità non esista è pura follia.

“La mia tesi è che il vuoto dei dati di genere sia al tempo stesso causa ed effetto di quella sorta di non-pensiero che concepisce l’umanità come quasi soltanto maschile”,

dice Criado Perez. E chi sostiene il contrario si troverà in difficoltà di fronte alla mole di dati raccolti dall’autrice e divisi per temi. Dalla vita quotidiana a quella pubblica e nei luoghi di lavoro, dalla salute alla rappresentazione femminile, la realtà viene filtrata attraverso quei numeri che spesso continuano a non essere considerati e che potrebbero invece aiutare ad avvicinarci di più ad un mondo paritario.

Leggete questo libro, parlatene, continuate a lottare se credete che ci siano ingiustizie che non possono e non devono continuare ad esistere. Questo libro Caroline Criado Perez lo dedica a tutte noi:

Per le donne che non mollano: siate sempre maledettamente difficili”.

Eleonora Panseri

Marisa Rodano, un secolo di lotte

Le donne italiane espressero il loro primo voto nel 1946 e Marisa, che in quell’anno aveva solo 25 anni, per il suffragio femminile ha combattuto in prima linea. Lo ha fatto insieme all’UDI, l’Unione donne italiane: il movimento, nato ufficialmente nel settembre del 1944 a Roma sotto l’ala del Partito Comunista Italiano, l’8 marzo 1946 sceglierà su sua iniziativa la mimosa come fiore-simbolo della Giornata Internazionale della Donna. Marisa presiederà l’UDI dal 1956 al 1960.

Quella per il voto però non è stata l’unica lotta per questa donna che oggi compie 100 anni e che è un esempio di infaticabile impegno nella lunga strada per il riconoscimento dei diritti delle donne.

Maria Lisa Cinciari Rodano, nata a Roma il 21 gennaio 1921, nel maggio del 1943 viene arrestata per attività contro il fascismo e detenuta per qualche tempo nel carcere delle Mantellate. Subito dopo la caduta del fascismo entra a far parte dei Gruppi di difesa della donna, diventando una partigiana. Partecipa a una “resistenza senza armi”, come la definisce nelle sue “Memorie di una che c’era“:

“Non ho mai preso un’arma in mano se non per trasportarla e ho fatto soltanto quello che centinaia di donne hanno fatto in quei mesi”.

Alla fine della guerra è nel consiglio comunale di Roma, nel 1948 entra alla Camera (di cui sarà vicepresidente dal 1963, la prima donna nella storia repubblicana a ricoprirne la carica). Cinque anni dopo arriva anche al Senato. Dal 1979 è all’Europarlamento e vi resta per dieci anni: dal 1981 al 1984 in qualità di presidente e relatrice generale della Commissione d’inchiesta del Parlamento Europeo sulla “Situazione della donna in Europa”, dall”84 come vicepresidente della Commissione dei diritti delle donne del Parlamento Europeo.

Marisa ha speso e continua a spendere la sua esistenza per il riconoscimento della parità di genere, un traguardo che è ancora lontano dall’essere raggiunto. Ma i passi avanti fatti sono tanti e tante sono le donne che si rendono conto che le cose vanno cambiate.

“Un consiglio da dare? Il primo è: fare squadra, non isolarsi, non avere sempre l’atteggiamento di vendersi al meglio sul mercato individualmente. Il secondo è di studiare e di leggere. E nel rapporto con gli uomini cercare un rapporto che sia possibilmente paritario e non di subordinazione”.


E se lo dice una persona come Marisa Rodano, che ha contribuito concretamente a fare l’Italia, possiamo davvero fidarci.
Buon compleanno!

Eleonora Panseri

Note: QUI potete trovare una recente splendida intervista di Marisa Rodano.

“Donna non si nasce, lo si diventa”

Il 9 gennaio 1908 nasce Simone Lucie Ernestine Marie Bertrand de Beauvoir, scrittrice, saggista, filosofa esistenzialista, professoressa, massima esponente del femminismo emancipazionista e autrice del testo cardine, e indiscusso capolavoro, della seconda ondata: “Il secondo sesso”.

Figlia di Françoise Brasseur e Georges Bertrand de Beauvoir e sorella di Henriette – Hélène, di due anni più giovane, trascorrerà un’infanzia difficile, a seguito delle ristrettezze economiche affrontate dalla famiglia e causate dalla bancarotta del nonno materno Gustave Brasseur.
Studiosa appassionata fin dalla giovinezza, nel 1926 decide di iscriversi alla facoltà di Filosofia della Sorbona, fatto insolito per una donna in quegli anni. Il destino delle sue coetanee era all’epoca quello di trovarsi un marito e mettere su famiglia al più presto. Ma proprio a causa della difficile situazione economica familiare, e della conseguente assenza di dote, sia Simone che Henriette si rimboccheranno le maniche per trovare un impiego (cosa che il padre Geroges vivrà come un fallimento). Laureatasi con una tesi su Leibniz, nel 1929 ottiene la cosiddetta “agrégation“, ovvero l’idoneità all’insegnamento riservata ai migliori allievi francesi. Diventa così, a soli 21 anni, la più giovane insegnante di filosofia di Francia, classificandosi seconda all’esame di idoneità (superando Paul Nizan e Jean Hyppolite e perdendo di poco contro Jean-Paul Sartre, bocciato l’anno precedente). Sartre sarà l’uomo che accompagnerà De Beauvoir per tutta la vita: i due tuttavia non si sposeranno mai e imposteranno una relazione aperta che permetterà loro di frequentare altre persone. In alcuni casi, la libertà sentimentale e sessuale della scrittrice e filosofa le causerà non pochi problemi.  

Nel 1943, infatti, De Beauvoir verrà allontanata dall’insegnamento, a causa della storia avuta qualche anno prima con una studentessa che, all’epoca dei fatti, non aveva ancora raggiunto i 15 anni, l’età del consenso fissata ai tempi in Francia. Da questo momento in poi, la donna potrà dedicarsi interamente alla scrittura. Esce in quell’anno il primo romanzo, “L’invitata”, che racconta, appunto, il rapporto intercorso tra De Beauvoir, Sartre e Olga Kosakievicz, l’ex allieva. Tra il 1943 e il 1946 scrive “Pirro e Cinea”, un trattato di etica, i romanzi “Il sangue degli altri” e “Tutti gli uomini sono mortali” e la sua unica opera teatrale, “Le bocche inutili”. Partecipa, seppur marginalmente, alla Resistenza francese con il partito Socialismo e Libertà.

Nel dopoguerra, e precisamente nel 1949, pubblicherà “Il secondo sesso”. Il testo propone a chi legge un lungo excursus, storico, sociale e politico, nel quale la filosofa analizza la creazione del mito della femminilità e le conseguenze concrete che questa mitologia ha avuto, aveva in quegli anni e, sfortunatamente, tutt’oggi ha sulla vita delle donne.

Donna non si nasce, lo si diventa

Da “Il secondo sesso” è tratta questa frase, ancora oggi famosissima e spesso fraintesa, che si riferisce proprio all’identità femminile la cui costruzione non è mai stata appannaggio esclusivo delle dirette interessate. Secondo De Beauvoir, l’emancipazione del “secondo sesso” poteva avvenire solo e soltanto attraverso l’accesso al lavoro e l’indipendenza economica, ed il conseguente riconoscimento dei diritti civili e politici. Tra i tanti temi, l’incapacità delle donne di riconoscersi come un “noi”, conseguenza della subordinazione economica che le avvicina agli uomini piuttosto che a quante subiscono lo stesso destino, ma anche il rifiuto dell’inferiorità “naturale” della donna e della maternità come suo destino fisiologico.

Da questo momento in poi De Beauvoir si mobiliterà attivamente per le battaglie femministe della seconda ondata e verrà annoverata tra le iniziatrici di questa fase del movimento. Nel 1971 sottoscrive “Il Manifesto delle 343”, pubblicato sulla rivista Nouvel Observateur, nel quale 343 donne dichiaravano di aver abortito, esponendosi alle conseguenze penali, visto che in quegli anni la pratica era ancora illegale, e rivendicando il loro diritto a farlo. Non mancarono le durissime critiche e, a partire da una vignetta della rivista Charlie Hebdo, il documento fu soprannominato “Il Manifesto delle puttane”. Nonostante tutto, “Il Manifesto” rimane comunque tra i contributi che in maniera significativa portarono all’approvazione della “legge Veil“: nel gennaio del 1975 la Francia riconosceva alle donne il diritto di abortire. Nel 1977 fonda la rivista Questions féministes, insieme a Christine Delphy, Colette Capitan, Colette Guillaumin, Emmanuèle de Lesseps, Nicole-Claude Mathieu, Monique Plaza e successivamente anche Monique Wittig.

Nel 1980 muore Jean Paul Sartre, De Beauvoir commenterà così la dipartita del compagno di vita:

La sua morte ci separa. La mia morte non ci riunirà.
È così; è già bello che le nostre vite abbiano potuto essere in sintonia così a lungo”

Lei lo seguirà sei anni dopo, il 14 aprile 1986, e oggi i due riposano, l’una accanto all’altro, nel cimitero di Montparnasse.

Il contributo di De Beauvoir continua ad essere d’ispirazione per il mondo della filosofia e per le donne, femministe e non, di ogni epoca e paese.
La sua figura resta una delle più importanti e affascinanti del ‘900.

Eleonora Panseri

Fonti:
Carlotta Cossutta, “Profilo di Simone De Beauvoir“, APhEx 17, 2018 (ed. Vera Tripodi).

Ode alle streghe

Qualche giorno fa io e Chiara ci siamo ritrovate insieme a riflettere su uno dei personaggi più famosi del folclore italiano, la Befana, e nel giorno a lei dedicato, il 6 gennaio, ci è anche sembrato giusto restituire spazio ad un’altra figura ad essa vicina che nei secoli è stata a lungo temuta e vessata, quella della strega.
Se ci pensiamo bene, Babbo Natale e la Befana fanno, con alcune piccole variazioni, la stessa cosa: durante le feste portano doni ai bambini buoni, puniscono invece quelli che si sono comportati male. Entrambi sono molto vecchi, esistono praticamente da sempre, ma l’anzianità del primo non viene percepita come sgradevole; quella della seconda le dà, al contrario, un aspetto trasandato (tant’è che il termine è entrato nell’uso comune per definire una donna non avvenente). Dunque, tirando un po’ le somme, la Befana è una vecchia e, quindi, brutta, fondamentalmente una strega, che porta carbone a chi non si merita i dolci. Non stupisce il fatto che Babbo Natale le venga di gran lunga preferito…

Ma chi l’ha detto che le streghe sono orrendamente vecchie e sempre malvagie?
Come ci racconta Mona Chollet nel suo libro Streghe. Storie di donne indomabili: dai roghi medievali al #metoo, l’immagine della strega come la conosciamo oggi arriva da un passato non troppo recente. La lotta alla stregoneria portata avanti dall’Inquisizione ha fortemente contribuito a crearla ed è stata più volte riproposta senza essere, se non di recente, oggetto di rilettura.
Gli stessi classici Disney con i quali molte di noi sono cresciute hanno al centro della storia lo scontro fra bene e male, incarnati rispettivamente dalla principessa e dalla strega. La seconda, guarda caso, è sempre cattiva, destinata ad essere sconfitta, mai dalla principessa sua vittima ma sempre dal valoroso principe (sulla storia del “principe che ci salva sempre” non voglio dilungarmi ora, forse lo farò prossimamente…). Solo negli ultimi anni sono stati realizzati prodotti culturali e d’intrattenimento nei quali ci sono principesse che possono talvolta essere “cattive” (pensiamo ad Elsa di “Frozen”, per esempio) e che “si salvano da sole”. In alcuni casi vengono aiutate da personaggi maschili che possono dare una mano alle protagoniste. Queste, tuttavia, (e grazie al cielo, aggiungerei) riescono ugualmente, con o senza aiuto, a realizzare grandi imprese: un bel messaggio per le bambine di oggi che possono riconoscersi in queste eroine e iniziare a considerare il loro ruolo non accessorio, il loro contributo fondamentale.

Ma torniamo alle nostre streghe…

Crescendo e studiando la storia, quella con la S maiuscola, abbiamo avuto modo di rivedere la narrazione che ci è stata proposta. La figura della maga esiste praticamente dalla notte dei tempi: sacerdotesse, guaritrici et similia sono state e sono ancora presenti in molte società con un valore tutt’altro che negativo. I secoli durante i quali ha operato l’Inquisizione sono stati riconosciuti come uno dei periodi più bui della storia dell’Occidente, nel quale quest’istituzione si è “divertita” a perseguitare e processare migliaia di persone, principalmente donne. Lo ha raccontato anche la giornalista Ilaria Simeone nel suo libro “Streghe. Le eroine dello scandalo”, nel quale ricostruisce tre processi per stregoneria della fine del ‘500, del ‘600 e ‘700.
Per quasi cinque secoli, dal 1326* al 1782** (è del 1487 il “Malleus Maleficarum”, il “Martello delle streghe”, testo cardine della caccia alle streghe), le accuse rimasero praticamente invariate: essere in combutta con il demonio, operare sortilegi mortiferi, avere costumi sessuali non conformi con altre streghe e stregoni o con animali e creature demoniache. Nonostante molte di queste fossero pure illazioni, a seguito di torture atroci molte donne furono costrette a confessare azioni mai compiute (le condanne arrivavano anche in assenza di confessione e, come già detto, di prove). Quelle che venivano considerate colpevoli erano punite con l’allontanamento dai luoghi in cui erano nate e cresciute, marchiate con orribili mutilazioni e, nel peggiore dei casi, uccise sul rogo.

La verità tuttavia è che tante “streghe” erano tutt’altro che persone malvagie o emarginate: non tutte vivevano ai limiti della società, alcune facevano addirittura parte della nobiltà. L’unica loro “colpa” era quella di non essere quello che ci si aspettava dal loro genere in quell’epoca. Le vittime della “caccia alle streghe” erano levatrici, balie e guaritrici, a cui tanti si rivolgevano per i motivi più disparati, donne che non si facevano mantenere ma che guadagnavano il proprio denaro e che venivano accusate di praticare la stregoneria quando qualcosa andava storto, se un bambino nasceva morto o se il sortilegio d’amore che avevano fornito a chi lo aveva richiesto non sortiva gli effetti desiderati. Erano vedove che avevano deciso di non risposarsi, cosa che non si addiceva alle donne per bene in una società dove queste erano ancora considerata un “bene” posseduto da un uomo. Streghe erano anche quante per mestiere o libera scelta avevano tanti partner sessuali.
Insomma, donne considerate scomode perché volevano autodeterminarsi e non essere definite da altri, perché volevano rispondere delle proprie azioni e non essere dipendenti da qualcuno. In un’epoca in cui, purtroppo, tutto questo non era accettato; un’epoca dove bastavano pettegolezzi e maldicenze per farle processare e condannare a morte.

Fortunatamente, tante cose sono cambiate da allora ma le violenze, fisiche e psicologiche, che tante donne in cerca della loro libertà subiscono ogni giorno e in ogni parte del mondo dimostrano che forse non lo sono poi così tanto e che la strada da percorrere è ancora lunga.
Di donne libere ed emancipate, e temporalmente più vicine ai giorni nostri, hanno parlato Michela Murgia e Chiara Tagliaferri nel podcast “Morganache raccoglie storie di donne “fuori dagli schemi, controcorrente, strane, pericolose, esagerate, “stronze”, difficili da collocare, donne che vogliono piacersi e non compiacere”. Murgia stessa definisce le protagoniste di queste storie “molto streghe”, utilizzando il termine non per demonizzarle ma per omaggiarle.

Abbiamo già detto che sono tanti i passi avanti fatti (QUI quelli del 2020 e QUI trovate un omaggio per alcune donne che durante l’anno appena trascorso sono state “molto streghe”, per riprendere le parole di Murgia). Le cose stanno ancora cambiando, seppur molto lentamente, e meno male!, vorrei aggiungere.
Piccoli grandi cambiamenti per cui dobbiamo essere grat* e che sono il risultato dell’azione di quant* si sono accorti che l’essere donna non poteva e non doveva continuare ad essere vista come una condizione di inferiorità, che hanno dedicato e spesso sacrificato le loro vite in favore di tante battaglie giuste.
Le femministe (e i femministi!) di tutte le ondate e le persone che, pur non definendosi tali, ogni giorno combattono per costruire un mondo migliore, più inclusivo e paritario, sono modern* “streghe” e “stregoni”. Sono persone di tutte le età, di tutte le nazionalità, di tutte le estrazioni, spesso percepite come strane e pericolose: spaventano per le loro idee innovative perché in molti sensi stravolgono un mondo che per secoli ha continuato a funzionare in questo modo. Persone che vengono condannate sui moderni roghi della morale e del buon senso ma che non si vergognano di dire quello che pensano, che chiedono di cambiare quelle regole che hanno costretto una parte della società a nascondersi e limitarsi.

E quando mi chiedono che tipo di donna voglio essere, non dico più, come facevo da bambina, che vorrei essere “una principessa (da salvare)” (anche se mio padre si ostina a chiamarmi in questo modo: ti voglio bene lo stesso, papà!).
Oggi dico che voglio essere forte e indomabile come una strega.

Eleonora Panseri

P.s. Suggerisco la visione della puntata del programma “Il tempo e la storia” condotta da Massimo Bernardini e con la presenza in studio dello storico Alessandro Barbero dedicata alla caccia alle streghe.

Note:
*l’anno in cui la stregoneria venne considerata dalla Chiesa come forma di eresia.
**data dell’ultimo processo per stregoneria.

Le donne e le arti: tutto è permesso ma nulla conta

“Chi le capisce è bravo”: il più grande luogo comune di sempre. Noi donne siamo misteriose, chiuse, “dolcemente complicate”. E siamo state tenute nascoste per bene, prima che iniziassero a capirci e si accorgessero che siamo anche valide. Infatti, nei secoli una gran parte dei personaggi memorabili è uomo. E spesso lo siamo tutt’ora…


Quante donne ci sono nei libri di storia? Nelle antologie di letteratura e di filosofia?
Quanti teoremi portano un nome di donna?
Quante prime ministre?
E potrei andare avanti così per ore.

Da donna c’è questa cosa che mi domando sempre: perché in secoli di cultura, arte, scrittura, etc… ci sono così poche donne note?
Sicuramente una coincidenza. Oppure esiste davvero qualcuno che crede che per ogni Dante, per ogni Shakespeare, per ogni Picasso non possa esistere un corrispettivo femminile?

Ammettiamolo, sì, fa male ma è vero: l’accesso alla formazione superiore è stato negato alle donne di qualsiasi estrazione sociale per secoli. Potremmo essere capaci di scrivere “La Divina Commedia” senza studiare letteratura? No. E quando abbiamo avuto la possibilità di studiare si trattava comunque di un privilegio delle élite. Mentre sappiamo che alcuni grandi autori passati alla storia arrivavano anche da ceti sociali inferiori, non elitari.
E se teniamo conto del fatto che le donne hanno avuto accesso all’istruzione più elevata, da quanto? Un centinaio di anni? Mi piacerebbe esser viva tra altri 100 anni per riprendere questi temi e fare un confronto.
Ora, facciamo quella cosa divertente che si fa a volte ma che spesso si preferisce ignorare perché i numeri rendono le cose molto più evidenti: contiamo.

Facciamo un giro alla Pinacoteca di Brera (VIRTUALE, QUI). Ho contato 3 donne: Fede Galizia, Marianna Calevarijs, Antonietta Raphael de Simon Mafai. Quasi quasi spero di aver visto male e di non averne contate altre per errore mio, accecata dal nervoso. Infatti, per gli uomini ho smesso quando sono arrivata a 58. La disparità mi sembrava già abbastanza evidente e ormai mi borbottava anche il colon (e, comunque, basta uno scroll sulla pagina per vedere che si va ben oltre i 58 artisti…).

Prendiamo la musica, oggi apparentemente più egualitaria di altre arti e, come dice Marina Abramovic, in una gerarchia artistica, la più elevata di tutte. Facciamola facile e consideriamo solo la musica moderna (perché se torniamo indietro nel tempo la situazione è tragica: in anni di studio di pianoforte, in mezzo agli spartiti di Chopin, Bach, Beethoven, Mozart, ricordo solo una compositrice, Clara Wieck Schumann, che è pure passata alla storia con il nome del marito!).
A prescindere dalle disparità di trattamento nell’industria musicale, dalla credibilità, dai sacrifici che si chiedono alle donne ma non agli uomini, guardiamo solo il risultato finale. Aprite Spotify e selezionate la vostra ultima playlist: quante canzoni cantate/scritte da donna e quante da uomini ci sono?
Io amo il cantautorato italiano ma indovinate un po’ nelle playlist tematiche di Spotify quante cantautrici troviamo? Ve lo dico io, c’è spazio per una sola: Carmen Consoli. L’unica in un mondo di uomini, brava da lacrime agli occhi e più sottovalutata di Samuele Bersani (e tra l’altro confesso che “En e Xanax” è stata la canzone che più ho ascoltato nel 2020, maledette statistiche di Spotify che mi fanno notare che anche se non vuoi rischi di essere maschilista perché il patriarcato è talmente radicato nel mondo di oggi che abbatterlo è difficile pure se ti definisci “femminista”!). Vi prego, ditemi che la vostra ultima playlist è composta al 100% da canzoni di Beyoncè e fatemi felice.

E parliamo di letteratura, il mio argomento preferito.
Si pubblicano tante donne, vero. Si pubblicano da tanti anni, vero. Ma vengono prese in considerazione come gli autori? No.
Non guardiamo il mercato per un attimo, ma concentriamoci sulla qualità delle opere. Analizziamo il premio per eccellenza della letteratura italiana, lo Strega: 11 vincitrici e 72 vincitori dalla prima edizione del 1947 (e se la disparità non vi sembra abbastanza, pensate che ci sono anni in cui non c’è neanche una scrittrice candidata). E facciamo pure i loro nomi, perché sono immense e se lo meritano: Elsa Morante, Natalia Ginzburg, Anna Maria Ortese, Lalla Romano, Fausta Cialente, Maria Bellonci, Maria Teresa di Lascia, Dacia Maraini, Margaret Mazzantini, Melania Mazzucco, Helena Janeczek.
Sottovalutate e mai considerate degne abbastanza, c’è sempre quel “pff, l’ha fatto una donna” come sottofondo maschilista ad ogni opera. Ed è tutto causa e conseguenza. Si leggono poche donne, perché se ne pubblicano poche. In libreria si vendono poco e nelle classifiche dei libri più venduti non ne appaiono troppe, diciamocelo. Quindi, se il mercato non le recepisce, non si pubblicano ma, se non si pubblicano, non c’è possibilità di vendere. Si apre allora un circolo vizioso che dovrebbe essere interrotto. Ma come e quando non è ancora chiaro.

A conti fatti, una sola domanda: MA PERCHE’?
Credo sia estremamente difficile dare un’unica risposta che tenga conto della moltitudine di fattori che in millenni di storia ci portano a questi risultati.
E probabilmente è proprio questo il punto: la storia ci insegna che ci hanno tenuto nascoste e ci hanno considerate inferiori. La situazione sta forse cambiando negli ultimi anni ma con una lentezza pachidermica che da donna più o meno giovane faccio fatica ad accettare.
E siamo oneste: nonostante millenni di storia, i primi movimenti femministi nascono negli anni ‘60. Come possiamo pensare di ribaltare completamente la situazione in meno di un secolo? I cambiamenti epocali sono tali perché effettivamente ci mettono epoche ad avvenire.

Siamo forse pronti ad accettare che una donna sia valida quanto un uomo? Siamo pronti ad accettare che una donna possa scrivere un romanzo migliore di uomo? Possiamo accettare che una donna sia preparata tanto quanto, se non più di un uomo? Forse no. Ma dobbiamo incominciare a farlo ora.

Ci hanno tenuto nascoste, è vero, ma ci siamo, abbiamo valore, siamo brave tanto quanto gli uomini. Abbiamo fatto la storia anche noi, pure se non emergiamo nei libri di scuola. Abbiamo aspettato secoli che ci rivalutassero e ci considerassero degne a prescindere dagli uomini (non è Simone de Beauvoir ad essere l’ombra di J.P. Sartre, ma allo stesso tempo è lei che si è presa l’onere di mettere a punto “La Nausea” fino a renderlo uno dei capisaldi della letteratura francese del ‘900, lo sapevate?).

Confesso che sogno da sempre che dietro Elena Ferrante ci sia un uomo perché, dopo secoli in cui noi donne ci nascondiamo dietro pseudonimi maschili, vorrei tanto che un uomo sentisse la necessità di nascondersi dietro un nome di donna per essere riconosciuto come uno dei massimi scrittori italiani contemporanei.
E vi assicuro che siamo stufe di esser considerate meno di un uomo, di esser viste come quelle inferiori e di leggere articoli di giornale che fanno notare che ogni tanto siamo “brave come un uomo“, che siamo mamme prima che professioniste, che il Nobel per la letteratura l’ha “vinto una donna” e non “Louise Gluck, Poetessa”.

di Eleonora Scialo,
milanese di fatto, ma non di nascita, una laurea in economia per lavorare nell’azienda di famiglia ma a 31 anni non è ancora sicura sia quello che vuole fare da grande. O forse lo sa e sta lentamente aprendo il cassetto per liberare il suo sogno. Arriva sempre in ritardo per colpa del suo cane ed è femminista non estremista.

Ora il calcio è donna anche in Arabia Saudita

di Filippo Gozzo, VAR Sport

Non è solo calcio. Lo sport dimostra la sua essenza quando permette il raggiungimento di traguardi umani e sociali che vanno oltre la semplice competizione. E questo è ancora più vero quando ciò accade in Paese non così storicamente propenso alla modernizzazione come l’Arabia Saudita. Il 17 novembre scorso le calciatrici arabe hanno dato il primo giro al pallone della Saudi Women’s Football League, il primo campionato di calcio femminile nella storia del Paese. Un evento storico che coincide con un processo di emancipazione delle donne che prosegue da anni in Arabia Saudita. Era solo il gennaio 2018 quando venne concessa la partecipazione femminile negli stadi, segno che la strada da percorrere è ancora molta.

«Il successo nel torneo di tutte le sorelle che partecipano alla WFL è un passo nella giusta direzione per raggiungere il nostro sogno di universalità e per rappresentare la nostra patria al mondo esterno», ha twittato Riyan Al-Jidani, giornalista sportivo saudita, «Alzare la bandiera sul campo è una gloria e un orgoglio». La prima giornata avrebbe dovuto giocarsi lo scorso marzo, ma a causa della pandemia da Covid-19 l’appuntamento con la storia è stato rinviato. Sono più di 600 le giocatrici divise nelle 24 squadre che lotteranno per chiudere il campionato al primo posto, per sollevare la coppa e vincere il premio finale di 500 mila riyal sauditi (poco più di 110 mila euro). Le partite si giocheranno tra Riyad, Gedda e Dammam, ma non saranno trasmesse in diretta tv, un altro muro che dovrà essere abbattuto nei prossimi anni.

Le calciatrici della Saudi Women’s Football League durante un allenamento

Amal Gimie, oggi 26enne centrocampista eritrea dello Jeddah’s Kings United e laureata in sistemi informativi gestionali, entrò nella sua prima squadra di calcio femminile, la Challenge di Riyadh, nel 2014. Mai avrebbe pensato di poter partecipare ad un torneo professionistico. «Ero felice ma allo stesso tempo sapevo che giocare in un campionato ufficiale era un obiettivo irraggiungibile. Mi sentivo come se stessi invecchiando senza ottenere nulla», aveva detto Gimie al sito Arab News. Ora, invece, il sogno della calciatrice eritrea può diventare realtà.

«Questo è un giorno molto felice per tutti gli atleti, maschi e femmine», ha commentato l’allenatore e giornalista sportivo Abdullah Alyami, «E sulla base di ciò che abbiamo visto e di quanto sia amato il calcio in tutto il Regno, credo che vedremo molte altre nostre sorelle impegnate nello sport professionistico».

Ogni persona che, come chi scrive, vive di sport non può che augurarsi che l’Arabia Saudita bruci le tappe in un processo giusto e quanto mai necessario. Perché di sport si vive, per le emozioni che regala, per le storie che racconta.

Olympe de Gouges e la “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina”

Una femminista ante litteram, Olympe De Gouges è stata senza dubbio questo e non solo. La sua storia merita di essere raccontata anche se Olympe, nata Marie Gouze a Montauban il 7 maggio 1748, ha per molto tempo subito la sorte di altre donne prima e dopo di lei. Infatti, se la storia, quella con la “s” maiuscola, è da sempre considerata il prodotto dell’azione degli uomini, tanti sono i nomi delle donne a lungo dimenticate o volutamente epurate dalla narrazione ufficiale. Fortunatamente, il lavoro di molt* studios*, soprattutto nel secondo dopoguerra, ha permesso a posteriori di riscoprire le vicende di quante contribuirono, seppur tra mille difficoltà, a cambiare il mondo. Ho avuto la fortuna di “conoscere” Olympe de Gouges soltanto all’università ma spero che nei programmi di elementari, medie e licei vengano presto inserite anche figure femminili di questo livello.

La madre di Marie, Anne-Olympe Mouisset, della quale la figlia deciderà in seguito di portare il nome, si sposa nel 1737 con il commerciante Pierre Gouze. Olympe assume quindi il cognome di Pierre, che poi modificherà in “Gouges” e al quale aggiungerà il “de”, ma la madre le confida presto di essere la figlia naturale del poeta Jean-Jacques Le Franc de Pompignan che tuttavia non la riconobbe mai, anche se espresse più volte il desiderio di occuparsi della sua educazione, proposta che Anne rifiutò categoricamente.
Sposatasi appena sedicenne, nel 1765, con Louis-Yves Aubry, Olympe rimase subito incinta e, dopo poco tempo, vedova. Deciderà di non risposarsi mai.
Nel 1770 lascia Montauban col figlio Pierre, futuro generale dell’esercito della Repubblica, per raggiungere a Parigi, città in cui il figlio avrebbe potuto avere un’educazione adeguata. Spesso additata come “cortigiana” o “prostituta”, in realtà, Olympe non conduce una vita dissoluta. Ha diverse relazioni con uomini che la mantengono e grazie ai quali riuscirà ad inserirsi nel mondo borghese e ad affermarsi come scrittrice e drammaturga con una compagnia propria ma la sua vita privata non sarà mai oggetto di scandalo.

Infatti, sono soprattutto le battaglie politiche da lei promosse a favore delle categorie più deboli della società francese del tempo, le donne, i neri, i bambini, gli anziani e i poveri, che attrarranno su di lei le ire dei sostenitori del Terrore post rivoluzionario. Ma è proprio la sua visione politica che la rende il personaggio incredibile che è e che merita di essere conosciuto.
Dal 1788 inizia a pubblicare i suoi scritti, nei quali vengono espresse idee estremamente progressiste per l’epoca. Olympe si batte infatti non solo per il riconoscimento dei diritti delle donne, escluse dopo la Rivoluzione dagli organi decisionali della nuova Repubblica, ma anche per l’abolizione della schiavitù e per la creazione di una rete di strutture di accoglienza per orfani e anziani.

Lo sguardo lucido e moderno che Olympe getta sulla realtà delle donne del suo tempo si palesa anche nel suo scritto più noto, la “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina” del 1791, uscita un paio di anni dopo la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” (1789). La “Dichiarazione” di de Gouges è infatti estremamente critica verso la versione “maschile” del documento, nel quale la donna non viene considerata. Come può la donna essere “cittadino” se le disparità sociali, politiche ed economiche che caratterizzavano la sua condizione, rispetto a quella molto più libera dell’uomo, le impedivano di partecipare attivamente alla vita pubblica e di decidere della propria vita privata? La libertà di opinione e di autodeterminazione, il diritto al voto e all’essere considerate parte di una società alla quale le donne contribuivano: queste erano le rivendicazioni alla base della dichiarazione. Rivendicazioni che, se non del tutto, almeno in parte, sono valide ancora oggi.

Nell’articolo 10 si legge: ” la donna ha il diritto di salire sul patibolo, essa deve avere pure quello di salire sul podio sempre che le sue manifestazioni non turbino l’ordine pubblico stabilito dalla Legge”. Il patibolo è purtroppo il luogo dove Olympe concluderà la sua esistenza. Verrà ghigliottinata il 3 novembre 1793, all’età di 45 anni, “per aver dimenticato le virtù che convengono al suo sesso ed essersi immischiata nelle cose della Repubblica“.

Eleonora Panseri

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