Papa Francesco nomina tre donne al dicastero per i Vescovi: è la prima volta

Papa Francesco ha nominato tre donne al Dicastero per i vescovi: sono suor Raffaella Petrini, suor Yvonne Reungoat e Maria Lia Zervino.

Il Dicastero per i vescovi è l’organo vaticano che si occupa del processo di selezione dei pastori che andranno a guidare le diocesi, proponendo al Pontefice per ogni sede una terna di candidati (che il Papa è però libero di rifiutare).

Suor Raffaella Petrini è dal 2021 la segretaria generale (e quindi numero due) del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, l’organo di potere esecutivo della città-stato. Suor Yvonne Reungoat è stata superiora generale delle Figlie di Maria Ausiliatrice, mentre Maria Lia Zervino è presidente dell’Unione Mondiale delle Organizzazioni Femminili Cattoliche. La loro nomina fra i membri, fino ad oggi tutti uomini, del Dicastero guidato dal cardinale Marc Ouellet era stata anticipata dal Pontefice nel corso di un’intervista alla Reuters.

La presenza di donne in Vaticano

«Io sono aperto che si dia l’occasione», ha affermato il Papa rispondendo a una domanda del giornalista Philip Pullella sulla presenza femminile in Vaticano. «Oggi il Governatorato ha una vice governatrice», ha aggiunto, facendo riferimento proprio a suor Petrini. «Adesso, nella Congregazione dei Vescovi, nella commissione per eleggere i vescovi, andranno due donne per la prima volta. Un po’ si apre in questo modo».

Negli ultimi anni, Bergoglio ha nominato diverse donne in ruoli di governo e responsabilità, che spesso in precedenza erano stati ricoperti solo da uomini. Oltre a Petrini, anche altre religiose occupano posti importanti in dicasteri vaticani: l’economista suor Alessandra Smerilli è segretaria, e quindi numero due, del Dicastero per lo sviluppo umano integrale, mentre suor Carmen Ros Nortes è sottosegretaria al Dicastero per i religiosi. E la francese suor Nathalie Becquart è sottosegretaria del Sinodo dei vescovi: un ruolo che da regolamento la porterebbe ad essere la prima donna a poter votare sul documento conclusivo del Sinodo, l’assemblea che raduna vescovi da tutto il mondo ogni tre anni per discutere di questioni importanti per la vita della Chiesa universale.

Durante il pontificato di Francesco è anche aumentata la presenza di donne laiche all’interno delle istituzioni vaticane: ci sono ad esempio Francesca Di Giovanni, sottosegretaria per il Settore multilaterale della Sezione per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato e le Organizzazioni Internazionali o le sottosegretarie al Dicastero per i laici, famiglia e vita Linda Ghisoni e Gabriella Gambino. Ma anche la direttrice dei Musei Vaticani Barbara Jatta, la professoressa Emilce Cuda che è segretaria della Pontificia commissione per l’America Latina, la direttrice della Direzione teologico-pastorale del Dicastero per la comunicazione Nataša Govekar e Cristiane Murray, vicedirettrice della Sala Stampa della Santa Sede.

Praedicate Evangelium e il ruolo delle donne

Dal 5 giugno è in vigore la nuova Costituzione apostolica sulla Curia romana Praedicate Evangelium, punto di arrivo del lavoro di riforma degli organismi della Santa Sede. Uno dei principi fondamentali contenuti in Praedicate Evangelium è il coinvolgimento anche di laici e laiche nei ruoli di governo della Curia romana. Rispondendo su questo punto specifico a una domanda di Pullella, il Papa ha sottolineato che in futuro come prefetti di alcuni dicasteri (che di solito sono guidati da cardinali) potrebbero essere nominati uomini o donne laiche e ha fatto come esempi quello del Dicastero per i laici, famiglia e vita o quello per la cultura e l’educazione.

Le reazioni delle donne cattoliche

«È una cosa importante e ne sono felice», è stato il commento della teologa e femminista americana Natalia Imperatori-Lee sulla futura nomina al Dicastero dei vescovi. «Ma – ha aggiunto – rimane scoraggiante la sensazione di dover celebrare il minimo cenno alla nostra partecipazione paritaria in questa chiesa. Due donne. Due». (Nell’intervista a Reuters il Papa aveva parlato di due donne e non tre, ndr).

Sul fronte italiano, l’associazione Donne per la chiesa ha accolto la notizia in maniera meno calorosa: «Non sono le nomine di singole donne a scardinare un sistema clericale maschile».

Francesco si è più volte detto contrario alla possibilità di ammettere le donne al sacerdozio. Nel 2020 il Papa ha costituito una seconda commissione di studio sul diaconato femminile: i lavori di una prima commissione, incaricata di studiare le forme in cui le donne ricoprivano questo ministero oggi riservato agli uomini nella Chiesa primitiva, avevano secondo il Pontefice portato a un “risultato parziale”. Mentre nel 2021, Francesco ha aperto le porte dei ministeri laicali – dunque non parte dell’Ordine sacro, come è invece il diaconato – del lettorato e dell’accolitato.

Maria Tornelli
(IG: @torn.maria)

Quirinale, da Cederna a Belloni: tutte le donne (quasi) Presidente della Repubblica

Da qualche giorno circola il nome di Elisabetta Belloni, la donna a capo dei servizi segreti italiani, come possibile figura terza che metta d’accordo le diverse forze politiche chiamate a eleggere, il 24 gennaio, il nuovo Presidente della Repubblica italiana. Se Belloni dovesse effettivamente salire al Colle, sarebbe la prima donna a farlo (come già lo è stata, nel ricoprire la carica che attualmente riveste). Anche se il suo non è l’unico nome femminile apparso nella lunga storia delle elezioni al Quirinale.

Camilla Cederna, Elena Moro e Ines Boffardi

Le prime candidate al ruolo apparvero in sede di scrutinio soltanto 30 anni dopo l’istituzione del ruolo presidenziale. Nel 1978 venne poi eletto Sandro Pertini (1896-1990), prima partigiano, poi politico e giornalista, uno dei più amati presidenti della Repubblica di sempre (il settimo). Ma durante lo scrutinio vennero fatti anche i nomi di Camilla Cederna (1911-1997), giornalista famosa per l’inchiesta realizzata per l’Espresso che costrinse il predecessore di Pertini, Giovanni Leone, a dimettersi; quello di Eleonora Moro (1915-2010), moglie dell’ex presidente del Consiglio assassinato lo stesso anno, Aldo Moro; e il nome di Ines Boffardi (1919-2014), partigiana attiva nelle Sap, le Squadre di azione patriottica, durante gli anni della guerra. Le tre ottennero rispettivamente quattro, tre e due voti. Il futuro presidente Pertini, in qualità di presidente della Camera durante le votazioni di quell’anno, dovette richiamare i colleghi che di fronte ai voti di Boffardi scoppiarono a ridere: «Colleghi, non c’è nulla da ridere, anche una donna può essere eletta!».

Camilla Cederna (Photo by Fototeca Gilardi/Getty Images)

Nilde Iotti

Il nome di Cederna apparve anche nell’elezione successiva, quella del 1985, insieme a quello della partigiana Tina Anselmi (1927-2016), prima donna eletta ministro della Repubblica nel 1976. Anselmi venne candidata anche alle votazioni del 1992, dove ottenne 19 voti. Ma quell’anno fu Nilde Iotti (1920-1999), partigiana e per 13 anni (dal ’78 al ’92) prima donna a ricoprire l’incarico di presidente della Camera, a ottenere un ottimo risultato. Proposta dal partito democratico della sinistra come candidata di bandiera, conquistò 256 preferenze. Molte, se pensiamo a quelle delle colleghe, ma non sufficienti per superare il quorum e venire eletta.

Nilde Iotti (Photo WikimediaCommons)

Emma Bonino

Emma Bonino (1948-), storica leader del Partito radicale e senatrice della Repubblica, è stata nominata per la prima volta alle elezioni del 1999, insieme a Rosa Russo Iervolino (1936-), parlamentare dal ’79 al 2001 ed ex sindaca di Napoli. In quell’occasione le due ottennero rispettivamente 15 e 16 preferenze. Il nome di Bonino è poi tornato in tutte le successive elezioni: nel 2006, insieme a quelli di Anna Finocchiaro, Franca Rame e Lidia Menapace; nel 2013 ancora con Finocchiaro, Rosy Bindi, Paola Severino, Alessandra Mussolini, Daniela Santanchè e Annamaria Cancellieri, nel 2015 insieme al nome di Luciana Castellini. Anche per la votazione del 2022 alcuni avevano parlato di lei, ma  in un’intervista a Repubblica, Bonino ha detto: «Ringrazio tutti quelli che pensano a me, da Roberto Saviano a Carlo Calenda a tutti i militanti che mi scrivono. Ma credo proprio che il mio momento fosse anni fa».

Emma Bonino con il Presidente Sandro Pertini (Photo by WikimediaCommons)

Il “caso Gabanelli”

Una situazione particolare si verificò nel 2013, quando venne fatto il nome della giornalista Milena Gabanelli (1954-). La fondatrice ed ex voce narrante di Report, il noto programma d’inchiesta di Rai 3, fu infatti la più votata alle “quirinarie“: un sondaggio organizzato dal Movimento cinque stelle sul proprio blog per scegliere il candidato che il partito avrebbe poi presentato. Gabanelli ottenne il voto online di 6000 persone ma declinò l’invito: «Credo che per ricoprire un ruolo così alto ci voglia una competenza politica che io non credo di avere».

Milena Gabanelli (Photo by WikiCommons)

I nomi del 2022

Oltre a Belloni e Bonino, quali altre donne sono state indicate per il “toto nomi” del 2022? È tornato quello di Rosy Bindi (1951-), ministra della Repubblica e presidente della Commissione parlamentare antimafia dal 2013 al 2018, tra le “papabili” del 2006. Per l’elezione di quest’anno sono state proposte anche Letizia Moratti (1949-), ex sindaca di Milano e da gennaio 2021 vicepresidente e assessore al Welfare della Regione Lombardia, ed Elisabetta Alberti Casellati (1946-), eletta presidente del Senato nel 2018 su proposta del centrodestra, ma ritenuta valida da tutte le parti politiche. Ugualmente gradita potrebbe essere Marta Cartabia (1963-), prima donna presidente della Corte costituzionale (dal 13 settembre 2011 al 13 settembre 2020) e attuale ministra della Giustizia nel Governo del premier Mario Draghi.

Marta Cartabia (Photo by WikiCommons)

Quelle che “ce l’hanno fatta”

Come abbiamo già detto, la prima a sfondare l’ormai ben noto “soffitto di cristallo” delle istituzioni italiane è stata Nilde Iotti, prima presidente della Camera dei deputati, dal 1979 al 1992. Solo altre due, però, hanno avuto l’occasione di seguirla: Irene Pivetti nel 1994 e Laura Boldrini nel 2013, 19 anni dopo. Per non parlare del fatto che soltanto nel 2018 è stata eletta la prima (e, di conseguenza, l’unica) presidente del Senato donna, ancora in carica: Maria Elisabetta Alberti Casellati. Belloni potrebbe davvero farcela? Come ha detto qualche tempo fa il nostro Presidente della Repubblica uscente, Sergio Mattarella, sarebbe “un sogno, forse una favola”.

Eleonora Panseri

Cile, Boric sceglie 14 donne per il suo Governo: tra loro anche Maya Fernández, nipote di Allende

Gabriel Boric, il nuovo presidente cileno, candidato leader della sinistra progressista eletto a dicembre 2022, ha presentato la squadra di Governo. I ministri che si insedieranno ufficialmente a marzo sono 24. Ma la grande novità, il chiaro segnale di rottura con il passato che Boric ha voluto mandare, sono le 14 ministre che, in numero maggiore, occupano importanti ministeri. Due dei quali, Difesa e Interni, per la prima volta nella storia del Paese sono affidati a figure femminili: Maya Fernández e Izkia Siches.

Maya Fernández: la nipote di Allende alla Difesa

La guida del ministero della Difesa è stata affidata a Maya Fernández, 50 anni, figlia di Beatriz Allende e nipote del defunto presidente Salvador Allende, vittima del colpo di Stato ordito dal generale Augusto Pinochet. Nata nel 1970, un anno dopo l’elezione del governo di Unità Popolare, guidato dal nonno, ha vissuto in esilio all’Avana (Cuba) dal 1973 al 1990. Membro del Partito socialista cileno, Fernández ha avuto il primo incarico politico nel 2002, durante l’amministrazione del presidente Ricardo Lagos. Eletta deputata nel 2017, ha assunto il ruolo di presidente della Camera due anni dopo. È stata una delle prime figure del suo partito ad appoggiare pubblicamente la candidatura di Boric, quando la proposta dei vertici socialisti era stata la democristiana Yasna Provoste.

Il ministero dell’Interno e della Sicurezza pubblica va alla 35enne Izkia Siches

Boric sceglie la 35enne Izkia Siches, di professione medico, per il ministero degli Interni e della Sicurezza pubblica. Con un passato di militante nella gioventù comunista, Siches si è poi impegnata come indipendente nelle organizzazioni universitarie. Ha deciso di dimettersi dalla presidenza del Collegio dei medici del Cile, ottenuta nel 2017 (è stata la più giovane nella storia dell’istituzione) per aiutare Boric, durante il ballottaggio presidenziale del 19 dicembre 2021, a recuperare lo svantaggio del primo turno nei confronti del candidato della destra, José Antonio Kast. Il suo ruolo nella pandemia la trasformata in una figura nazionale. Infatti, sono partite da lei alcune proposte importante per la lotta al coronavirus: la richiesta di affidarsi agli esperti e agli specialisti del settore sanitario, di rafforzare le restrizioni alla mobilità delle persone e di intensificare le attività di screening.

Eleonora Panseri

Violenza sulle donne: perché il sistema preventivo fallisce

Juana Cecilia Hazana Loayza aveva già denunciato Mirko Genco, 24 anni, l’ex compagno che le ha tolto la vita il 19 novembre. Era stato arrestato il 5 settembre per atti persecutori e il giorno dopo scarcerato e sottoposto alla misura cautelare del divieto di avvicinamento. Ma il 10 settembre Genco era stato arrestato di nuovo per violazione della misura, violazione di domicilio e ulteriori atti vessatori, riuscendo a ottenere i domiciliari con un patteggiamento a due anni. Anche Vanessa Zappalà, 26 anni, uccisa lo scorso agosto ad Acitrezza (Catania) a colpi di pistola, aveva denunciato per stalking l’ex compagno 37enne Antonio Sciuto. L’arresto dell’uomo, però, non era mai stato convalidato.
Nella relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidi, presieduta dalla senatrice Valeria Valente, viene riportato che solo una donna su sette uccisa tra il 2017 e il 2018 aveva denunciato il proprio assassino. Ma quelle che denunciano non vengono tutelate: lo dimostrano alcune delle storie delle 109 donne assassinate dall’inizio del 2021. A questo si aggiunge il mancato sovvenzionamento dei centri antiviolenza e un ritardo culturale che non viene colmato dal sistema educativo. Dopo ogni femminicidio il solito commento è: “Qualcosa non ha funzionato”. Ma in Italia c’è più di “qualcosa” che non funziona.

“C’è un grande problema: l’assenza di professionalità tra magistrati e forze dell’ordine”, ha dichiarato il giudice Fabio Roia, presidente vicario del tribunale di Milano e componente dell’Osservatorio sulla violenza contro le donne, in un’intervista a Repubblica pubblicata martedì 23 novembre. Avviene spesso che le denunce non vengano prese in considerazione con la necessaria serietà: alcune vittime di violenza raccontano di essere state invitate dalle stesse forze dell’ordine a pensarci due volte prima di formalizzare le accuse. In più, su 118 processi arrivati a sentenza per femminicidio considerati dalla Commissione d’inchiesta istituita sul tema, solo 98 si sono conclusi con una condanna.
“È necessario che chi si occupa di questa materia sia formato su scienze complementari, dalla psicologia all’esperienza quotidiana degli operatori dei centri antiviolenza. Occirre essere in grado di comprendere il ruolo della donna nel ciclo della violenza. Le leggi che abbiamo sono buone ma non vengono applicate con competenza”, prosegue Roia. E conclude: “Dobbiamo essere in grado di proteggere le donne senza limitare la loro libertà. Le donne stanno sei mesi chiuse nelle case rifugio in attesa che i giudici decidano eventuali misure cautelari nei confronti degli uomini che le minacciano. Ma non dobbiamo sradicare dalle loro case e dal loro quotidiano, sono gli uomini che dobbiamo togliere dalla circolazione”.

Non ci sono i soldi per le attività dei centri antiviolenza. Anzi, bisognerebbe dire piuttosto che i fondi ci sono ma non arrivano a destinazione. Lo ha denunciato qualche giorno fa l’ong ActionAid nel dossier “Cronache di un’occasione mancata”, un documento che monitora il movimento dei fondi antiviolenza sul territorio nazionale. Di quelli stanziati per il 2020 solo il 2% del totale è stato effettivamente consegnato a centri e case per donne vittime di abusi (e in sole due regioni: Liguria e Umbria).
A marzo 2020, su iniziativa della ministra per le Pari Opportunità Elena Bonetti, la cifra totale ammontava a 3 milioni di euroma solo poco più di 25mila sono effettivamente arrivati ai centri (meno dell’1%). Il mese successivo, con un bando d’emergenza per gli enti che gestiscono il sistema antiviolenza, la ministra aveva chiesto 5,5 milioni di euro: soltanto 142 hanno potuto farne richiesta perché i soldi venivano distribuiti a quanti erano in grado di offrire una garanzia pari all’80% dell’importo.
A maggio poi è stato istituito il “reddito di libertà“, misura pensata per permettere alle donne vittime di violenza di essere economicamente indipendenti con un contributo massimo di 400 euro al mese per 12 mesi. L’Inps ha pubblicato la circolare per definire le modalità e i requisiti di accesso al fondo l’8 novembre. Da maggio a oggi, quindi, nemmeno un euro dei 3 milioni complessivi stanziati a Centri e Case è stato consegnato. In più, secondo un gruppo di 84 associazioni di donne che gestiscono circa 150 realtà del sistema antiviolenza (la rete D.i.Re), per sostenere tutte le donne che avrebbero bisogno del “reddito di libertà” servirebbero almeno 48 milioni.

In una nota Istat sull’andamento del mercato del lavoro nel primo trimestre del 2021 si leggeva che il 59,3% delle donne fra i 15 e i 34 anni, cioè 6 su 10, non lavora e non cerca lavoro e che le donne inattive per motivi familiari sono più di quelle inattive per studio. Quando si tratta di indipendenza economica femminile spesso si sottovaluta l’importanza che questa assume in contesti familiari violenti.
Promuovere politiche che favoriscano l’assunzione delle donne, la giusta retribuzione e servizi che consentano di ridurre il carico del lavoro di cura, da sempre ritenuto appannaggio quasi esclusivo del genere femminile, permetterebbe a buona parte delle donne di abbandonare compagni e mariti violenti dai quali però, purtroppo, sono costrette a dipendere in assenza di impiego. Situazione che si fa ancora più complessa quando sono coinvolti anche eventuali figli minorenni. La necessità di rendere le donne sempre più autonome economicamente diventa stringente se si osserva l’ultimo report della Direzione centrale anticrimine della polizia: il 36% dei femminicidi è stato commesso da mariti o conviventi delle vittime.

Il fallimento del sistema che dovrebbe prevenire le violenze deriva, forse non del tutto ma sicuramente in parte, da una prolungata assenza della società su questi temi. Dal linguaggio sessista che riempie le pagine dei giornali e i programmi televisivi, all’assenza di progetti educativi capillari negli istituti scolastici che formino i giovani sul tema. Anche nella comunicazione delle iniziative volte a sensibilizzare la popolazione si osservano carenze non indifferenti: la nuova campagna contro la violenza di genere della polizia di Catania si chiama “Aiutiamo le donne a difendersi”, come se il problema riguardasse solo le vittime e non un sistema, una mentalità che da secoli limita l‘autodeterminazione femminile. Come se la causa di questa enorme problematica sociale non fossero gli uomini che le massacrano di botte o le uccidono.

Lavorare sugli uomini sarebbe la cosa più logica da fare e a dirlo sono le statistiche. Per esempio, a Milano è stato sperimentato il “protocollo Zeus” che obbliga gli uomini segnalati per violenze a fare percorsi terapeutici e che ha portato nel capoluogo a una riduzione dei casi recidivi del 90%.
Dal 2006 è attivo il numero di pubblica utilità 1522, tra i pochi strumenti che le donne hanno per denunciare le violenze e il reato di stalking, introdotto nel 2013. Operatrici volontarie rispondono 24h su 24, tutti i giorni dell’anno, sull’intero territorio nazionale e forniscono un primo supporto a quante ne hanno bisogno, offrendo informazioni e indirizzando le vittime, quando necessario, verso i centri antiviolenza. Il numero garantisce l’assoluto anonimato e nel secondo trimestre 2020, a causa del lockdown, l’Istat ha registrato un picco: 12.942 chiamate valide e 5.606 vittime. Uno strumento sicuramente utile ma non risolutivo.
Negli ultimi anni si è parlato con maggiore frequenza di violenza sulle donne ma spesso lo si fa male e non in maniera continuativa e trasversale, quasi a voler dedicare a un tema importante ma complesso solo un giorno, il 25 novembre. Riducendo al silenzio le vittime passate, presenti e future per il resto dell’anno.

Eleonora Panseri

Articolo originariamente pubblicato su Upday news

Cancro alla cervice in UK, con vaccino contro Hpv cala il rischio dell’87%: «Risultato storico»

È un risultato storico. Cervarix, il vaccino contro il Papilloma virus, a 13 anni dalla sua introduzione nel Regno Unito ha favorito la riduzione dei casi di cancro alla cervice uterina dell’87%. I dati emersi grazie al Cancer Research Uk sono stati pubblicati sulla rivista scientifica britannica “The Lancet”, che lancia questo studio come uno dei più straordinari degli ultimi decenni, considerando che il Papilloma è uno dei virus più diffusi e letali al mondo con 300.000 vittime ogni anno. Questi numeri sono l’esito di una lunga ricerca che ha avuto i suoi primi frutti l’1 settembre 2008 con l’introduzione in commercio del vaccino, destinato nel Regno Unito a ragazze di giovane età compresa tra gli 11 e i 13 anni. I risultati si sono visti ora che le pazienti sono in età adulta, mentre lo studio ha stimato che a partire da giugno 2019 il programma di vaccinazione contro il Papilloma ha permesso di prevenire 448 tumori alla cervice e 17.235 fasi pretumorali. «Questa è solo la punta dell’Iceberg. I risultati sono ancora più eccezionali di quello che avevamo predetto», ha detto alla Bbc il professor Peter Sasieni, esperto di prevenzione tumorale al King’s College.

Dati sorprendenti – A fare la differenza nella campagna di immunizzazione è l’età in cui le donne hanno ricevuto il vaccino. Più la fascia di età si abbassa, più è alta la possibilità di non contrarre il virus. Tra i 16 e i 18 anni la riduzione di casi di cancro alla cervice è pari al 34%, nella fascia tra i 14 e i 16 anni è del 62%, mentre per le ragazze molto giovani a cui il Cervarix è stato inoculato all’età di 12-13 anni, la possibilità di contrarre il cancro diminuisce dell’87%. I dati utilizzati sono relativi a 13,7 milioni di donne che ad oggi hanno tra i 20 e i 30 anni.

Alta adesione alla vaccinazione – La campagna vaccinale nel Regno Unito ha avuto grande successo. Tra il 2008 e il 2012 circa il 90% delle giovani adolescenti inglesi si è vaccinato, garantendo così un alto livello di prevenzione in fase di crescita. «Per le donne è fondamentale ricevere il vaccino in giovane età, prima che si inizi ad essere sessualmente attive, considerando che il Papilloma si trasmette principalmente tramite rapporti sessuali», ha detto Sasieni, che poi ha aggiunto: «Sappiamo che in passato molti teenagers sono stati colpiti dal Papilloma e in generale l’80% della popolazione ha contratto il virus». La speranza è che Cervarix possa favorire l’immunizzazione di gregge e garantire una protezione dal Papilloma per tutta la durata della vita di una donna, ma ancora non ci sono certezze. Per questo è fondamentale ricevere i richiami del vaccino.

Il metodo di ricerca – Dal primo momento in cui Cervarix è stato introdotto l’obiettivo era uno solo: ridurre l’incidenza del cancro alla cervice e favorire la campagna di prevenzione. Ad essere più a rischio sono le donne tra i 16 e i 18 anni, sessualmente attive e con maggior esposizione al virus, che nel 2008 rappresentavano l’80% dei casi totali di contagio nel Paese. Il programma vaccinale, quindi, ha preso in considerazione come fattore principale le fasce d’età: 12-13, 14-16 e 16-18 anni, mentre per la comparazione dei risultati sono state individuate donne nate tra l’1 maggio 1989 e il 31 agosto 1990 e non vaccinate. L’aspettativa di riduzione del cancro alla cervice e della neoplasia intraepiteliale alla cervice era pari al 36–48%, 59–64%, e 68–71% per ogni fascia d’età (dalla più vecchia alla più giovane). Aspettative che sono state di gran lunga superate.

Papilloma virus: come riconoscerlo – Il 99% dei tumori alla cervice uterina è causato dal Papilloma virus che, però, può essere fermato grazie a un’attenta e periodica attività di monitoraggio. Prima che il cancro si formi e cresca in stato avanzato attraversa una fase pre-tumorale che può essere bloccata in tempo. I principali sintomi causati dal Papilloma sono un anormale sanguinamento durante i rapporti sessuali, tra un ciclo mestruale e l’altro e anche dopo la menopausa. Inoltre può provocare anche dolore, fastidi e perdite vaginali. Se peggiora nel tempo può portare a cistite, diarrea, incontinenza e sangue nelle urine. È necessario, quindi, fare uno screening continuo con controlli ogni tre, cinque anni e ovviamente procedere con la vaccinazione.

Benedetta Mura

Originariamente pubblicato su:
https://www.lasestina.unimi.it/layout-2/apertura/cancro-alla-cervice-con-vaccino-contro-hpv-cala-il-rischio-dell87-risultato-storico/

Emmy Awards 2021, candidata la prima donna transgender

L’attrice statunitense MJ Rodriguez entra nella storia come prima attrice transgender a essere candidata agli Emmy Awards nella categoria di migliore attrice protagonista. Al secolo Michaela Antonia Jaé Rodrig, deve la nomination al prestigioso premio televisivo a Pose, serie in cui interpreta Blanca Evangelista. Il personaggio incarna quello di una donna transgender che si porta sulle spalle un passato drammatico, segnato dal rifiuto della sua famiglia proprio a causa della sua identità di genere.

Nata il 7 gennaio 1991 a Newark (Usa), ha capito di sentirsi donna a 7 sette anni. Da sempre appassionata di canto, ballo e recitazione, debutta inizialmente a teatro, per esordire poi sul piccolo schermo nel 2012 in un episodio della serie Nurse Jackie – Terapia d’urto.

Dovrà concorrere con attrici di altissimo livello: le altre candidate sono Uzo Aduba, Olivia Colman, Emma Corrin, Elisabeth Moss e Jurnee Smollett.

Chiara Barison

Women20, il summit del G20 dedicato alla parità di genere

Tre giorni dedicati ai temi dell’occupazione femminile e del divario salariale, alle strategie per il contrasto alla violenza di genere. A Roma si apre oggi Women20, il gruppo di discussione del G20 sulla parità di genere. A guidare i lavori Linda Laura Sabbadini, specializzata in statistiche di genere e presidentessa del Women20.

“Saranno presenti scienziate, economiste, donne che lottano per i diritti della propria terra, una rappresentanza ampia”, ha detto Sabbadini parlando delle ospiti che si riuniranno per “rimettere le donne al centro del cambiamento“.

In un momento storico in cui le donne sono state tra le categorie più penalizzate (la pandemia ha aumentato il carico di lavoro non retribuito e il numero di licenziamenti, ne abbiamo parlato qui), il Women20 si tiene con l’obiettivo di costruire strategie utili per il futuro che favoriscano l’imprenditoria e la leadership femminile, l’abbattimento degli stereotipi di genere e un cambiamento culturale.

Ph. Polina Zimmerman

Secondo Sabbadini, “la parità, l’empowerment femminili sono degli obiettivi strategici di fondo, l’interazione tra la politica e la società civile è centrale per raggiungerli. Abbiamo l’opportunità di realizzare il pieno potenziale delle donne. Non solo aumenterà la crescita sostenibile, ma sarà anche un imperativo per l’esistenza di società creative e inclusive, sostenute da una cittadinanza attiva. L’uguaglianza è una grande sfida che si può vincere”.

Eleonora Panseri

Mario Draghi e il rilancio del Paese: serve il «coinvolgimento delle donne»

Nel suo discorso al Senato il Presidente del Consiglio incaricato Mario Draghi ha dedicato grande spazio alla questione della parità di genere. La parola “donne” è stata infatti pronunciata ben 10 volte, superata solo da “cittadini” (11), “lavoro” (16), “pandemia” (18) e programma (19).

Draghi si è inizialmente soffermato sulle difficoltà che il genere femminile sta vivendo in conseguenza del Covid-19, sottolineando come a perdere il lavoro in questo anno di pandemia siano stati principalmente i giovani e le donne.

«La diffusione del virus ha comportato gravissime conseguenze anche sul tessuto economico e sociale del nostro Paese. Con rilevanti impatti sull’occupazione, specialmente quella dei giovani e delle donne. Un fenomeno destinato ad aggravarsi quando verrà meno il divieto di licenziamento».

Ma il Presidente ha anche sottolineato come gli squilibri nel nostro Paese siano un retaggio del passato. Una situazione che negli anni è migliorata ma sulla quale è ancora necessario fare interventi importanti e incisivi, soprattutto per quanto riguarda il gap salariale e le posizioni dirigenziali ricoperte in numero non rilevante dalle donne.

«La mobilitazione di tutte le energie del Paese nel suo rilancio non può prescindere dal coinvolgimento delle donne. Il divario di genere nei tassi di occupazione in Italia rimane tra i più alti di Europa: circa 18 punti su una media europea di 10. Dal dopoguerra ad oggi, la situazione è notevolmente migliorata, ma questo incremento non è andato di pari passo con un altrettanto evidente miglioramento delle condizioni di carriera delle donne. L’Italia presenta oggi uno dei peggiori gap salariali tra generi in Europa, oltre una cronica scarsità di donne in posizioni manageriali di rilievo».

Interventi sul pay gap ma anche riforme che consentano alle donne di ridurre le ore dedicate al lavoro domestico non retribuito (il 75% è a loro carico) e di non dover scegliere più tra soddisfazione professionale e vita familiare. Una critica decisamente poco velata alle quote rosae la promessa di un maggiore impegno nel garantire ad entrambi i generi le stesse possibilità e gli stessi oneri.

«Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge: richiede che siano garantite parità di condizioni competitive tra generi. Intendiamo lavorare in questo senso, puntando a un riequilibrio del gap salariale e un sistema di welfare che permetta alle donne di dedicare alla loro carriera le stesse energie dei loro colleghi uomini, superando la scelta tra famiglia o lavoro. Garantire parità di condizioni competitive significa anche assicurarsi che tutti abbiano eguale accesso alla formazione di quelle competenze chiave che sempre più permetteranno di fare carriera – digitali, tecnologiche e ambientali. Intendiamo quindi investire, economicamente ma soprattutto culturalmente, perché sempre più giovani donne scelgano di formarsi negli ambiti su cui intendiamo rilanciare il Paese. Solo in questo modo riusciremo a garantire che le migliori risorse siano coinvolte nello sviluppo del Paese».

E’ necessario fare sempre la solita premessa: le cose non cambieranno di certo da un giorno all’altro. Questo discorso però si inserisce in quell’ottica di “primi passi” che chi ci governa può e deve compiere in direzione di una maggiore inclusione del genere femminile negli interventi e nelle scelte della politica. Perché questo Paese non può essere davvero grande se esclude e limita la metà delle sue “migliori risorse”.

Possiamo dire che per l’Italia oggi è un bel giorno.

Eleonora Panseri

Qui trovate il testo integrale del discorso del Presidente.

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Sessismo linguistico, l’importante è parlarne

La nozione di sessismo linguistico (linguistic sexism) è stata elaborata negli anni ’60-’70 negli Stati Uniti. In quel periodo era infatti emersa la marcata discriminazione nel modo di rappresentare la donna rispetto all’uomo attraverso l’uso della lingua, e di ciò si discuteva anche in Italia soprattutto in ambito semiotico e filosofico. Nel 1987 esce un volume rivoluzionario, Il sessismo nella lingua italiana di Alma Sabatini, pubblicato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, che allargò il dibattito all’ambito sociolinguistico e arrivò a interessare attraverso la stampa anche il grande pubblico.
Lo scopo del lavoro era politico e si riallacciava a quello di ristabilire la “parità fra i sessi”, attraverso il riconoscimento delle differenze di genere (inteso come l’insieme delle caratteristiche socioculturali che si legano all’appartenenza a uno dei due sessi).

Al linguaggio viene riconosciuto un ruolo fondamentale nella costruzione sociale della realtà e, quindi, anche dell’identità di genere maschile e femminile: è perciò necessario che sia usato in modo non “sessista” e non privilegi più, come fa da secoli, il genere maschile né tantomeno continui a tramandare tutta una serie di pregiudizi negativi nei confronti delle donne, ma diventi rispettoso di entrambi i generi. Che cessi di avere, come afferma Sabatini, «un’impostazione “androcentrica”».

La lingua infatti manifesta e allo stesso tempo condiziona il nostro modo di pensare, incorpora una visione del mondo e ce la impone. Il pensiero è profondamente influenzato dal linguaggio che, a sua volta, influenza il pensiero stesso. Non solo l’esistenza di una parola riferita a una situazione o esperienza trasmette l’importanza dell’esperienza stessa, ma anche l’assenza di una parola suggerisce che non c’è niente che riguarda l’esperienza descritta che meriti di essere menzionato.

La lingua è viva e si modifica con il cambiamento della società:
se cambia la realtà cambia anche il linguaggio.

Un’azione diretta a modificare il linguaggio potrebbe sembrare artificiosa e privare la parola del senso di deposito della storia di un contesto sociale che tendiamo ad attribuirle. Ma è l’impellenza di un intervento sui costumi della disparità, tanto diffusi nel nostro Paese, che rende questa presunta artificiosità necessaria e tollerabile.
In un tempo in cui ancora ci troviamo a riflettere sui troppo numerosi femminicidi travestiti da delitti passionali, ci accorgiamo quanto siano importanti le parole che si riferiscono alle battaglie sostanziali perché si affermino modelli educativi e di comportamento in grado di mettere in comunicazione tra loro tutte le differenze, in primis quella tra uomini e donne.

La lingua è una struttura dinamica che cambia in continuazione, tuttavia la maggior parte della gente è conservatrice e mostra diffidenza, addirittura paura, nei confronti dei cambiamenti linguistici perché disturbano le proprie abitudini o sembrano una forzatura. Ciononostante, in modo del tutto contraddittorio, si accettano neologismi come “cassintegrato”, o inglesismi come “selfie”, “taggare” (da “tag”). Perché mai questi passano senza problemi? Forse perché non coinvolgono a livello profondo? O solo perché entrano nel linguaggio in modo subliminale senza che ce ne accorgiamo? Certo è che, posti davanti al problema se accettare o meno un cambiamento, spesso si assume un atteggiamento “moralistico” in difesa della lingua, vista come qualcosa di sacro e intoccabile. In realtà noi siamo tanto attivi quanto passivi nei confronti della lingua. Il processo di classificazione linguistica è dinamico perché la lingua ci offre sia le forme già codificate, sia una serie di operazioni che ci permettono di classificare nuovi contenuti o di riclassificare la nostra realtà.

Negli anni ci sono stati cambiamenti di tipo ideologico per parole riferite a classi e razze discriminate. Dopo l’olocausto, il termine “giudeo” fu sostituito dapprima da “israelita” e ora anche da “ebreo”; l’uso di “nero” anziché “negro” è entrato in Italia. Sono scomparsi dalla lingua ufficiale e da quella quotidiana termini quali “facchino”, “mondezzaro”, “spazzino”, sostituiti da “portabagagli”, “netturbino”, “operatore ecologico”. Molti di questi cambiamenti non si possono definire spontanei, ma sono frutto di una precisa azione socio-politica, che dimostra l’importanza che la parola ha rispetto alla realtà sociale e il fatto che siano già stati assimilati significa che il problema è diventato di senso comune o che, quantomeno, la gente si vergogna di poter essere tacciata come classista o razzista.

Quando ci si vergognerà altrettanto di essere considerati sessisti molti cambiamenti diverranno realtà normale. Qual è dunque la ragione di questo atteggiamento linguistico? Le risposte più frequenti fanno riferimento all’incertezza di fronte all’uso di forme femminili nuove rispetto a quelle tradizionali maschili (è il caso di “ingegnera”), la presunta bruttezza delle nuove forme, o la convinzione che la forma maschile possa essere usata tranquillamente anche in riferimento alle donne. Ma ciò non è vero, perché maestra, infermiera, modella, cuoca, nuotatrice, ecc. non suscitano alcuna obiezione: nessuno definirebbe mai Federica Pellegrini nuotatore. Termini come “architetta”, “assessora”, “avvocata”, “chirurga” vengono spesso bollati come cacofonici. Si tratta di nomi che indicano lavori o cariche in passato riservati agli uomini, ma perfettamente regolari dal punto di vista grammaticale. La parola “avvocata”, poi, indica la Madonna nella preghiera “Salve Regina”. Allora il problema qual è? È davvero la parola a suonare male o il fatto che le donne scelgono carriere diverse dal passato? Le resistenze all’uso del genere grammaticale femminile per molti titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne sembrano poggiare su ragioni di tipo linguistico, ma in realtà sono, celatamente, di tipo culturale.

In una concezione della lingua come depositaria di cultura, come prodotto della società che la parla, appare vano tentare di modificare la lingua e pretendere che sia un tale cambiamento a influenzare la società, se questa è stata ed è ancora una società sessista. Ma se è invece vero che la realtà sociale italiana è in via di modificazione, la discussione di quegli aspetti della lingua e del discorso che non riflettono ancora tale realtà e che anzi perpetuano stereotipi è quanto mai necessaria.

di Anna Miti

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Fischio d’inizio di Frappart, primo arbitro donna in Champions League

Il match di Uefa Champions League Juve-Dinamo Kiev di stasera, 2 dicembre, inizierà alle 21 all’Allianz Stadium di Torino e sarà sicuramente un incontro interessante. Parlare di questa partita e di calcio su un blog femminista è importante per due motivi. Da un lato, perché è ora di abbattere lo stereotipo della donna incapace di seguire, capire e commentare una partita di calcio. Come ci sono donne che, sì, non hanno interesse per la materia, ce ne sono tante altre che sono davvero ferrate e appassionate (ne conosco diverse). Dall’altro, perché la partita di stasera potrebbe costituire, lo spero, un importante precedente per l’emancipazione femminile in ambito sportivo. Infatti, ad arbitrarla ci sarà Stéphanie Frappart, 37 anni, il primo arbitro donna a dirigere una partita di Champions League.

A parte il fatto che mi piacerebbe chiamarla “arbitra” (ma quella del “linguaggio di genere” è tutta un’altra storia), il mondo del calcio, soprattutto in ambito popolare, ha sempre opposto una certa resistenza quando si parla del binomio “donne e pallone”.
Le “icone”, i grandi “miti” di questo sport sono stati e sono maschili, anche quando a livello umano non vantano curricula altrettanto splendenti. Basti pensare a Maradona: sportivo incredibile ma uomo certamente perfettibile. E bisogna dirlo: quello dell’arbitro, che sia esso uomo o donna, è sempre un ruolo molto spinoso.  

Eppure, sembra che qualcosa stia lentamente cambiando, le donne stanno conquistando nel mondo del pallone posizioni sempre più importanti. Penso, per esempio, a Sara Gama, “capitana” della Juventus e dell’Italia femminile, che a 31 anni è diventata la prima donna vicepresidente dell’Associazione Italiana Calciatori. Il 30 novembre Gama è stata dunque chiamata a ricoprire un ruolo al vertice. Insomma, entrando “a gamba tesa”, per usare una metafora calcistica, le donne possono e devono farcela anche nel mondo del pallone.

Riguardo alla notizia sulla scelta di Frappart, i commenti sui social si sono divisi in maniera abbastanza equa: c’è chi applaude la scelta e spera, come me, che questa possa essere una “piccola grande svolta” e chi ha invece fatto obiezioni o, peggio, deriso l’arbitro, riportando in auge le classiche battute su “le donne che non vanno contraddette”, che “vogliono avere sempre ragione”, o parlando del eccesso di zelo che “sicuramente” l’arbitro avrà per dimostrare che “anche se donna” lei quel posto se lo merita.
Io credo che, per rispondere a tutte le perplessità che ciclicamente si ripresentano ogni qualvolta una donna riesce ad “intromettersi” in un ambito considerato dai più prettamente maschile, basti citare le parole di Frappart stessa. Dall’alto della sua lunga e qualificata carriera, l’arbitro ha voluto mettere a tacere qualsiasi tipo di polemica in questo modo: «La competizione tra squadre e il gioco del calcio non cambiano: rimangono gli stessi, chiunque sia l’arbitro».

Sintetica ma efficace.

Eleonora Panseri

(IM)POSSIBILI SCENARI: se Maradona fosse nato donna

Confesso i miei peccati sin da subito: non mi piace il calcio, non capirò mai il fuorigioco e non disdegno il rosa. Proprio il cliché della femmina un po’ ottusa. Fatte queste doverose premesse, mi permetto di fare lo stesso una riflessione. Negli ultimi giorni non si parla d’altro: Diego Armando Maradona ha lasciato questo mondo. Icona del nostro tempo, ha incarnato i vizi e le virtù di una società che cerca disperatamente la rettitudine ma non riesce mai a resistere al fascino della ribellione e dell’eccesso. Con mia grande sorpresa, la luce del Pibe de oro ha abbagliato anche me e mi sono fatta una domanda, forse banale: ma che vita avrebbe avuto Diego se fosse nato donna?

Il fuoriclasse argentino è nato nel 1960 in una condizione di povertà estrema. Quinto dopo quattro figlie, è stato accolto dai suoi genitori come una benedizione. Lui stesso ha avuto modo di ribadire che suo «papà estaba cansado de mujeres». Diego Maradona Senior era stanco di avere figlie, viste come una condanna. Le femmine davano preoccupazioni, bisognava trovare a tutte un marito e le occasioni di concludere un buon matrimonio si riducevano in modo direttamente proporzionale al livello di miseria in cui versavano le promesse spose. La madre stessa, forse consapevole della sorte destinata alle donne nate nella sua terra, lo venererà come un bambino prodigio anche quando sarà troppo cresciuto e segnato dai suoi tormenti.

E poi il calcio, lo sport maschile per eccellenza da sempre, negli anni ’60 non avrebbe mai potuto rappresentare l’occasione di riscatto per una giovane donna. I primi mondiali femminili si sono celebrati nel 1991, l’Argentina parteciperà per la prima volta con la sua nazionale in rosa a partire dalla seconda edizione, tenuta nel 1995 in Svezia. La scalata al successo di “Dieguita“, quindi, non sarebbe probabilmente mai iniziata. O almeno, non segnando i gol che hanno fatto sognare intere generazioni. Oltretutto a Diego, prima o dopo, è stato perdonato tutto. L’assoluzione che si concede tipicamente ai geni che, proprio grazie al loro genio, possono permettersi tutti i colpi di testa che vogliono. «La pelota fué mi salvación» dirà Armando una volta famoso e consapevole dell’opportunità immensa che il suo talento gli aveva offerto. Per le donne non funziona e non ha mai funzionato così.

Così mi è venuta in mente Tonya Harding, la prima pattinatrice statunitense ad eseguire un triplo axel. Certo, il pattinaggio artistico non è il calcio. Ma le persone sono straordinarie a prescindere dalla competizione nella quale gareggiano. E il talento è talento. Anche Tonya è nata nella miseria, dieci anni dopo Dieguito, in un Paese che a differenza dell’Argentina era ed è una potenza mondiale. La sua povertà sarà però una condanna, portata come un fardello impossibile da far volteggiare in pista. Tonya non sarà mai abbastanza: per sua madre, per essere amata, per brillare nel panorama sportivo internazionale. Nonostante abbia vinto la sua prima gara a soli quattro anni, non le verranno mai perdonati i costumi che si fabbricava da sola. E nemmeno la tenacia rovente con la quale aggrediva il ghiaccio. Determinazione scambiata per mancanza di grazia. Tonya faceva troppo rumore. Non è mai stata la presenza docile e leggera che i giudici di gara si aspettavano che fosse, pretendevano che fosse. Non ha mai incarnato la fidanzata d’America. Ed è stata duramente penalizzata. Nella vita così come in gara.

Negli anni in cui Maradona si prodigava per diventare leggenda, Harding vedeva andare in fumo la sua carriera. Quasi come se il mondo non avesse aspettato altro per farla sparire dalla scena.

Ricordo di aver sentito dire che il pubblico ha bisogno di scegliere qualcuno da amare e qualcun altro da odiare: ha scelto per l’ennesima volta di odiare una donna.

Chiara Barison

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Perché parlare ancora di “femminismo”?

Questa domanda si sente ripetere spesso da un po’ di tempo a questa parte. Esiste ancora la necessità di parlare di “femminismo” in un mondo in cui “le donne hanno ormai raggiunto la parità”? Il termine stesso è arrivato ad assumere in certe occasioni una connotazione negativa e l’aggettivo “femminista” ad essere usato anche come “insulto”: “NON SARAI MICA UNA DI QUELLE FEMMINISTE?”.

La verità è abbastanza evidente, anche se, forse, non agli occhi di tutti: la parità, reclamata proprio dalle femministe nel corso dei decenni, è stata raggiunta solo in alcuni ambiti. In tanti altri la si è raggiunta in parte, in molti casi non esiste.

Va anche detto che “la parità”, intesa in senso stretto, può essere un’arma a doppio taglio: ciò che viene ritenuto valido per un uomo potrebbe non esserlo per una donna. Non è soltanto la parità quello che il femminismo ha chiesto da sempre e che continua oggi a chiedere, quanto piuttosto che il mondo smetta di essere un posto non adatto o ostile per il genere femminile.

Il motivo per cui crediamo sia necessario oggi parlare di femminismo e dare voce alle donne di ogni età, cultura ed estrazione (da questo desiderio nasce “Quote rosa”) è perché la vita per molte di esse può ancora essere un inferno. E, chi più, chi meno, spesso inconsciamente, tutte sperimentiamo diversi tipi di oppressione, tutte siamo spesso chiamate a giustificare le nostre scelte di fronte a quella cosa che tanti faticano a riconoscere e nominare chiamata “patriarcato”. Il modo in cui ci prendiamo cura di noi stesse, in cui ci vestiamo, quello con cui approcciamo l’altro sesso e la nostra sessualità, le nostre decisioni lavorative e personali: tutto viene analizzato e giudicato secondo un filtro che ci impedisce di fare scelte libere. Veniamo fin da bambine educate, condizionate, portate a credere che il mondo sia un posto dove i “maschi” possono fare e noi rimanere sullo sfondo a battere le mani. Quelle che rifiutano questo ruolo subalterno, quelle che “ce la fanno”, vedono i loro meriti a volte ridimensionati, se non proprio sviliti, e si tace sul fatto che loro, le donne che hanno sfondato il “soffitto di cristallo”, sono il più delle volte costrette a fare rinunce che all’uomo non verranno chieste mai. E il successo non risparmierà loro la critica costante, anzi, al minimo passo falso verranno immediatamente messe al rogo.

Tutto questo potrà sembrare un vuoto sproloquio ma saranno proprio i contenuti del nostro blog a raccontarvi cosa significa vivere una vita da “quote rosa” in un mondo dove il prototipo ideale è un uomo.
Lo diremo noi e lo diranno altre voci di donne che potranno raccontare la loro esperienza su questa piattaforma.

Fiere di essere donne, fiere di essere “femministe”.

Chiara ed Eleonora, “Quote Rosa”

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