Le conseguenze della pandemia sull’istruzione femminile

Le bambine che nei prossimi anni dovrebbero frequentare la scuola primaria ma che probabilmente non vi accederanno mai sono 9 milioni. Un numero tre volte superiore rispetto a quello dei coetanei maschi. A dirlo è Save the Children in un report uscito in questo mese che offre un’analisi completa delle conseguenze della pandemia di Covid-19 sull’istruzione nel mondo e in Italia. La prolungata chiusura degli istituti e le difficoltà nell’accedere alla rete Internet per seguire le lezioni a distanza potrebbe far crescere nei prossimi anni i tassi di analfabetismo e l’abbandono scolastico. Le persone analfabete nel mondo sono quasi 800 milioni, due terzi di queste sono donne. I paesi più penalizzati sono quelli dell’Asia meridionale e dell’Africa subsahariana. Un esempio: in Sud Sudan il tasso di scolarizzazione e di alfabetizzazione delle ragazze è il più basso del mondo, ogni cento maschi, solo 75 femmine sono iscritte alla scuola elementare, e meno dell’1 per cento la conclude.

La principale causa di esclusione di bambine e ragazze dal contesto scolastico è la discriminazione di genere. Nei paesi più poveri le difficoltà per accedere all’istruzione interessano in maniera indiscriminata maschi e femmine, ma se una famiglia ha la possibilità di investire sul futuro dei propri figli la scelta ricadrà sempre sui maschi. Appena raggiungono la giusta età per farlo, alle figlie femmine si impone la cura della casa e dei fratelli più piccoli. In molte realtà del mondo, infatti, specialmente in quei paesi dove gli stereotipi sessisti sono più forti, l’unico futuro possibile per le bambine è quello di mogli e madri. Quelle poche studentesse che riescono a frequentare la scuola non trovano personale docente femminile che possa in qualche modo costituire un modello per loro e la mancanza di servizi igienici adeguati le costringe a dover rinunciare alle lezioni per tutto il periodo delle mestruazioni. Anche le strade poco sicure da percorrere per tornare a casa sono un grave problema perché, se non avviene già all’interno della famiglia, le bambine rischiano di essere vittime di violenze e abusi. A tutti questi problemi spesso si aggiunge quello della guerraSecondo il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef), nei paesi interessati da conflitti armati “le bambine hanno una probabilità doppia di interrompere le lezioni rispetto alle coetanee negli Stati politicamente stabili”.

In un’indagine pubblicata l’8 marzo sempre dall’Unicef, è stato segnalato il pericolo di un aumento esponenziale a causa del Covid dei matrimoni forzati tra ragazze minorenni e uomini adulti. Si legge nel rapporto che prima della pandemia si prevedeva che le bambine costrette a sposarsi prima dei 18 anni sarebbero state più di 100 milioni in 10 anni. Oggi a queste potrebbero aggiungersene altri 10 milioni. Molte famiglie, a seguito della recessione economica, si sono trovate senza i mezzi per sostentare l’intera famiglia. Per questo, il matrimonio di una figlia, anche se minorenne, a molti sembra la scelta migliore. Per non parlare del fatto che con la chiusura delle scuole e la sospensione di molti servizi di assistenza alle famiglie le ragazze sono tornate a occuparsi, insieme alle madri, di tutta una serie di mansioni di cui gli uomini non sono in grado di occuparsi o rifiutano di farlo. A tutto questo si aggiunge, in molti paesi dove a mancare sono anche l’acqua potabile o la corrente elettrica, l’assenza della rete Internet e dei dispositivi necessari per seguire eventuali lezioni da remoto.

Impedire a una ragazza di frequentare la scuola è, in primis, la negazione di un diritto fondamentale della persona. Infatti, come si legge nel primo comma dell’articolo 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo approvata dall’ONU nel 1948, “ogni individuo ha diritto all’istruzione. L’istruzione deve essere gratuita almeno per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali. L’istruzione elementare deve essere obbligatoria. L’istruzione tecnica e professionale deve essere messa alla portata di tutti e l’istruzione superiore deve essere egualmente accessibile a tutti sulla base del merito”. In più, la promozione delle pari opportunità in ambito scolastico permetterebbe alla società di crescere e progredire nel suo insieme. Consentire alle bambine di avviare un percorso di studi che gli permetta di inserirsi in futuro nel mondo del lavoro porterebbe a un aumento della produttività, del reddito delle famiglie e, di conseguenze, alla crescita economica di un paese. L’Unicef ha anche sottolineato come spesso le donne istruite siano più attente e informate riguardo alla propria salute e a quella dei propri figli. Nei paesi dove alle ragazze è consentito studiare si è verificata una diminuzione significativa di violenze, sfruttamento, gravidanze precoci o indesiderate e di malattie come l’infezione da HIV.

Eleonora Panseri

Articolo originariamente pubblicato su news.upday.com

Coronavirus, molti studi clinici non considerano le differenze di genere

“Le differenze di genere hanno un impatto sull’incidenza dell’infezione da SARS-CoV-2 e della mortalità da COVID-19. In più, tali differenze influenzano la frequenza e la severità di possibili effetti collaterali dati dai farmaci”.

Si apre così lo studio Mancata considerazione delle differenze di genere negli studi clinici sul Covid-19, uscito il 6 luglio sulla rivista scientifica “Nature communications“. L’obiettivo della pubblicazione: sottolineare come nei recenti studi clinici sul Covid-19 il diverso impatto della malattia su uomini e donne sia un fattore spesso trascurato.

Partendo dall’analisi del sito PubMed, uno dei più grandi archivi per la ricerca online, gli autori della pubblicazione hanno scoperto che dei 4,420 studi sulla SARS-CoV-2 e sul COVID-19, 935 (21.2%) si occupano del genere solo nel contesto della selezione dei volontari, 237 (5.4%) pianificano campionamenti basati sul sesso o enfatizzano il tema del genere e solo 178 (4%) riportano esplicitamente un piano per includere il genere o il sesso biologico come variabile analitica. Solamente 8 (17.8%) dei 45 test clinici pubblicati su riviste scientifiche fino al 15 dicembre 2020 riferiscono risultati divisi per sesso o analisi in sottogruppi.

Un’assenza di dati che, come sottolineato anche dalla giornalista e attivista britannica Caroline Criado-Perez nel libro Invisibili pubblicato nel 2019, investe molti aspetti della vita delle donne, non soltanto quello sanitario, e questo determina un effettivo peggioramento della qualità della vita del genere femminile.

E anche se le donne sono state tra le categorie più penalizzate dalla pandemia (a causa del lockdown che ha aumentato il numero delle violenze e in ambito lavorativo), l’anno scorso sono state protagoniste facendosi promotrici attive di cambiamenti epocali importanti e necessari.

Eleonora Panseri

Lavoro, differenze di genere e pandemia

In un suo famoso testo, pubblicato per la prima volta il 24 ottobre 1929, la scrittrice Virginia Woolf immagina come sarebbe stata la vita di Judith, fittizia sorella di Shakespeare, altrettanto talentuosa e desiderosa di seguire la sua vocazione letteraria (lo abbiamo fatto anche noi pensando ad una versione femminile di Maradona). Il saggio, che si intitola “Una stanza tutta per sé”, è una lucida riflessione sul collegamento tra libertà intellettuale e mancanza di indipendenza economica per un genere, quello femminile, incluso nel mondo del lavoro con estrema lentezza ed enormi difficoltà.
Indipendenza economica che, a lungo negata e faticosamente conquistata, per molte oggi rischia di essere rimessa in discussione a causa della pandemia.

Secondo gli ultimi dati di Un Women, agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di emancipazione femminile, la pandemia di Covid-19 quest’anno “potrebbe spazzare via 25 anni di passi avanti nel campo dell’uguaglianza di genere”.
Essendo impiegate principalmente nel settore dei servizi, che a causa del virus ha dovuto ridimensionare o interrompere molte delle sue attività, come la ristorazione e il turismo o la moda, le donne sono quelle che hanno pagato e continuano a pagare il prezzo più alto. In Italia, l’Istat conta 470mila occupate in meno nel secondo trimestre del 2020 rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso e attesta il tasso di occupazione femminile fra i 15 e i 64 anni intorno al 48,4%, contro il 66,6% di quello maschile. Negli Stati Uniti, secondo i dati del National Women’s Law Center, sono 2,2 milioni le donne che hanno perso il lavoro e almeno una donna su quattro sta valutando la possibilità di ridimensionare o abbandonare la propria carriera.

Questo perché?
Principalmente per due motivi.

Il primo è legato ad una concezione del lavoro femminile. Il “gender pay gap”, ovvero la differenza che esiste tra gli stipendi che ricevono gli uomini e le donne a parità di mansioni, porta a percepire il lavoro femminile come non essenziale nell’economia familiare. Infatti, secondo uno studio europeo, nel 2019 le donne hanno guadagnato l’11.7% in meno all’ora rispetto agli uomini. In più, i primi tagli operati dalle aziende hanno risparmiato i contratti a tempo indeterminato, spesso rivolti più agli uomini che alle donne. Molte infatti sono assunte part-time, contratti decisamente meno remunerativi ma più comodi per gestire altri impegni.


E questo ci porta a parlare dell’altro annoso problema emerso durante questa pandemia, quello del lavoro non retribuito. Se già prima dell’arrivo del virus, le donne contavano circa tre quarti dei 16 miliardi di ore di lavoro non remunerato svolte ogni giorno in tutto il mondo (cura della casa, dei figli, degli anziani della famiglia, …), adesso, come illustrano le Nazioni Unite nel loro studio, quella cifra è diventata ancora più alta. La vicedirettrice esecutiva di UN Women, Anita Bhatia ha dichiarato in un’intervista rilasciata alla BBC che esiste il ““rischio reale di tornare agli stereotipi di genere degli anni ‘50”.


Per non parlare dell’impatto che tutto questo ha sulla salute mentale delle donne. Secondo uno studio che ne ha coinvolte 10 milioni provenienti da ogni parte del mondo, i problemi di salute mentale legati alle conseguenze della pandemia hanno riguardato il 27% delle donne, a fronte del 10% degli uomini.

Il tema comunque non è passato inosservato. Se n’è parlato molto sui giornali e tanti Paesi hanno fatto dichiarazioni in merito, promettendo di impegnarsi per risolvere questo problema.
L’indipendenza economica per le donne è stata e continua ad essere un passo importante verso l’emancipazione da un genere maschile che le ha spesso considerate un fardello. Donne che sono state costrette a sottomettersi e a subire per secoli gli abusi degli “uomini della famiglia”, padri, zii, fratelli, mariti, perché incapaci di contribuire economicamente al bilancio familiare.
Speriamo davvero non si torni indietro.

Eleonora Panseri