Il diritto di essere donna

Ho letto diversi tweet in queste settimane sull’argomento “donne e molestie”. Come sempre ci sono quelli che attaccano le femministe, sostenendo che non diano lo stesso peso alle molestie degli Alpini rispetto a quelle degli “immigrati” sul treno a Riva del Garda. In particolare, mi hanno scossa due tweet che cito:

1. “Se continuiamo con questa narrazione che prevede che tutto sia molestia, arriveremo al punto che gli uomini avranno paura anche a prendere un ascensore da soli con una donna”;
2. “Arriveremo al punto che le donne dovranno supplicare gli uomini per essere considerate sessualmente, perché i maschi giustamente ci penseranno due volte”.

Purtroppo, non è facile spiegare la delicatezza e il rispetto che una donna vorrebbe dal momento in cui un uomo decide di approcciarla. Non mi stancherò mai di ripetere che non si tratta della questione in sé ma del modo in cui vengono proposte le attenzioni.


Tempo fa ero con un ragazzo (a me molto caro e vicino), un ragazzo rispettoso, e un suo amico, che chiameremo Super Mario. Davanti a noi passarono un gruppo di ragazze, con degli abitini estivi, e Super Mario, con un tono poco consono a voce alta si rivolge a loro con un: “Gonna corta, cortissima!”. Una delle ragazze lo sente, lo ignora, ma si abbassa comunque la gonna.
Di quella serata mi è rimasta solo la sensazione di impotenza per non aver reagito, per paura di sembrare pesante, quando invece sarebbe stato corretto il mio intervento. E, soprattutto, nell’immagine della ragazza che ha dovuto tirare giù la gonna per il commento di un idiota.

Mi rivolgo specialmente alle figure maschili, se mai leggeranno questa riflessione. Vedo sempre qualche “like” sporadico su vari canali social come sostegno all’indignazione di queste continue molestie che le donne ricevono, ma mai più di questo. Nessun tipo di condivisione o parere personale postato sui propri social, come invece spesso accade quando condividono altre notizie (attualità, sport, moda, viaggi e meme).

Mi viene naturale quindi domandarmi come mai una figura maschile, con una sua opinione ben precisa sull’argomento, non senta la necessità di dar voce a quello che succede, nonostante appoggi la causa.
Ora che ci penso, conto sulle dita di una mano il numero di figure maschili che, nel proprio piccolo, cercano di condannare la condizione precaria delle donne nel mondo. Per esempio, sui salari, l‘Iva sugli assorbenti, il diritto ad abortire, la violenza verbale e fisica. Non parliamo di sostenere le femministe (se considerate estremiste), ma giuste cause per cui stiamo lottando da anni.

Alla fine siete tutti fidanzati, amici, fratelli, cugini di qualche soggetto femminile che avete a cuore, quindi perché una qualsiasi altra notizia sì, e qualcosa per il “loro” bene, che poi sarebbe il bene di una società più moderna, che offre pari opportunità, no? Cosa vi porta a pensare che una notizia sia più importante di un’altra? E’ bellissimo quando le donne si fanno portavoce dei loro diritti, della loro intraprendenza e intelligenza. Del loro lato più sicuro e sfacciato. Aggiungo, però, che è sublime quando a farlo è un uomo. Abbiamo la necessità di avere al nostro fianco chi ci aiuti ad avere un futuro alla pari come compagne di vita, per davvero. Imparare a condividere e a correggere il necessario, perché è necessario.

Ai tweet che ho letto sulla crocifissione degli alpini e il placido dissenso nei confronti delle molestie da parte di uomini (non di immigrati, perché in questo caso solo di uomini si tratta) sul Garda rispondo che non esistono molestie di tipo A o di tipo Z. Non esistono molestie più gravi e meno gravi perché esiste solamente il trauma che lasciano dentro ciascuna vittima, perché di traumi e vittime parliamo, non esistono i mezzi termini. Ho lavorato in un luogo squallido in cui le ragazze venivano chiamate solo con nomignoli e vezzeggiativi: “amore, tesoro, stellina, zucchero, bambolina”. Mi sono sfogata su questo fatto e nessuno ha capito quanto mi facesse male, quanto è brutto essere demolite e sentirsi piccole tanto da non avere un nome.

“Ma lasciali stare, che schifo, lascia questo posto”, nessuno che avesse capito che la reale domanda da pormi era: ma tu come stai? Perché sono stata male, stiamo male, ognuna di noi ha i propri confini. Tutte le altre persone, di qualsiasi sesso, dovrebbero imparare a non superarli perché chiediamo rispetto, non facciamo la morale. Ognuno dovrebbe sapere quando sta superando il limite, quando si prendono spazi e libertà che non gli appartengono.


Non parliamo di messaggi sui social o un singolo fischio di qualche soggetto. Di cosa sto parlando lo sappiamo davvero tutt* anche quell* a cui non è mai capitato di essere vittima o carnefice. E siamo ancora qui a filosofeggiare sui “cambia lavoro, bloccalo sui social, rispondigli la prossima volta, se cammini da sola ti faccio compagnia al telefono”. Mentre continua la lotta tra le donne che pensano: “ il catcalling è bello” e quelle che invece lo condannano come gesto. Un palcoscenico di discussioni sterili dove un uomo medio ci osserva senza prendere una reale posizione e si gode la scena come fossimo nude sotto la doccia. Cosa ci scanniamo, ancora, tra donne? Smettiamola di dire cosa è molestia e cosa non lo è, lasciamoci il diritto di scegliere cosa per un soggetto sia molestia e cosa non lo sia, di non aver sbagliato a non denunciare subito uno stupro, di aver avuto paura a opporsi, il diritto di star male per aver subito molestie.

Dobbiamo ripartire dalla base, quindi capire prima di tutto che siamo differenti, siamo quello che siamo. Perché se non lo capiamo tra di noi, se non ci appoggiamo e non ci prendiamo i nostri diritti non lo farà mai nessuno: siamo sole. E allora, sì, mi sta bene che attrici dopo anni dichiarino di aver subito molestie, di non averlo detto subito e di aver aspettato di avere una fama a proteggerle, se questo può aiutare chi ha subito a sentirsi meno sola. Soprattutto a continuare a lottare insieme per la libertà di essere donne.


Marissa Trimarchi

#iolochiedo, una campagna per cambiare la legge sulla violenza sessuale

Nella Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, anche nota semplicemente come Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia nel 2013, lo stupro è un “rapporto sessuale senza consenso”. Nell’articolo 36 del testo, al paragrafo 2, si legge anche che tale consenso deve essere dato volontariamente, quale libera manifestazione della volontà della persona, e deve essere valutato tenendo conto della situazione e del contesto”.

Al contrario, l’articolo 609-bis del Codice penale italiano, che disciplina il reato di violenza sessuale, non considera in alcun modo l’elemento del consenso e punisce “chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali”.
Se dunque per sanzionare un comportamento come stupro la legge italiana prevede che concorrano gli elementi della violenza, della minaccia o dell’abuso di autorità, nel caso in cui questi siano assenti, diventa difficile stabilire la gravità del reato.

Proprio a questo proposito, Amnesty Italia ha lanciato una petizione per richiedere alla Ministra della Giustizia Marta Cartabia la revisione dell’articolo 609-bis. Revisione che tenga in considerazione la definizione data dalla Convenzione di Instabul e introduca in Italia l’idea che lo stupro non sia soltanto una violenza fisica ma qualsiasi comportamento sessuale privo del consenso di entrambe le parti.

Come si legge anche sul sito di Amnesty, la percezione del reato di stupro in Italia è viziata non soltanto a livello legislativo, ma anche e soprattutto a livello culturale:

“Secondo l’Istat (rilevazione del 2019), persiste in Italia il pregiudizio che addebita alla donna la responsabilità della violenza sessuale subita. Addirittura il 39,3% della popolazione ritiene che una donna è in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole. Anche la percentuale di chi pensa che le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire è elevata (23,9%). Il 15,1%, inoltre, è dell’opinione che una donna che subisce violenza sessuale quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte corresponsabile. Per il 10,3% della popolazione spesso le accuse di violenza sessuale sono false (più uomini, 12,7%, che donne, 7,9%); per il 7,2% “di fronte a una proposta sessuale le donne spesso dicono no ma in realtà intendono sì”, per il 6,2% “le donne serie non vengono violentate”. Solo l’1,9% ritiene che non si tratta di violenza se un uomo obbliga la propria moglie/compagna ad avere un rapporto sessuale contro la sua volontà”.

La campagna di Amnesty è stata lanciata in rete con l’hashtag #iolochiedo e l’obiettivo è quello delle 61000 firme.

Se volete sostenere la petizione, fate click QUI.

Eleonora Panseri

Il lungo cammino verso l’uguaglianza e le conquiste del 2020

Il 2020 è stato un anno a dir poco impegnativo per tutti, ma lo è stato in particolar modo per le donne, penalizzate maggiormente dagli effetti negativi della pandemia: sono state la categoria più colpita (insieme ai giovani) dalla perdita occupazionale e, contemporaneamente, le più soggette a un aumento del lavoro domestico e di cura non retribuito. Inoltre, è purtroppo noto come la maggiore permanenza in casa abbia esposto le donne a un aumento della violenza domestica, mentre l’accesso all’aborto e più in generale alla cura della salute sessuale e riproduttiva si è ulteriormente complicato.

In effetti, il quadro presentato dal World’s Women 2020, il report annuale dell’Onu sulla condizione femminile e sulla parità di genere nel mondo, non è per niente roseo: siamo ancora molto lontani dall’uguaglianza e dagli obiettivi stabiliti dalla Dichiarazione di Beijing di 25 anni fa, ulteriormente minacciati dall’impatto della pandemia di Covid-19. Ma qualche buona notizia c’è: non solo la partecipazione delle donne all’istruzione è in continuo aumento in tutto il mondo, ma quando le donne hanno l’opportunità di studiare presentano un miglior rendimento scolastico rispetto agli uomini e proseguono gli studi fino ai più alti livelli di educazione. In più, la rappresentanza delle donne in parlamento è più che raddoppiata a livello globale, raggiungendo il 25% dei seggi nel 2020, e ora ci sono 20 Paesi con una donna capo di stato o di governo, rispetto ai 12 del 1995.

Questo è stato un anno particolarmente vittorioso dal punto di vista degli incarichi istituzionali e non: molti settori, spaziando dalla politica allo sport, hanno visto accedere le donne a ruoli e posizioni di potere rimaste finora esclusivo appannaggio degli uomini. Impossibile non nominare in primis Kamala Harris, che si accinge a diventare la prima vicepresidente donna e afroamericana degli Stati Uniti e che fa da apripista a una squadra, quella amministrativa di Joe Biden, che batte tutti i record di rappresentanza politica femminile (e di minoranze etniche), con l’intenzione dichiarata di rispecchiare fedelmente il Paese in tutta la sua eterogeneità. L’intero staff addetto alla comunicazione, per esempio, è composto da donne, mentre Janet Yellen e Avril Haines saranno le prime donne a capo di due dei dipartimenti più rilevanti dell’amministrazione americana, rispettivamente ministro del Tesoro e direttrice dell’Intelligence nazionale.

In Belgio (e in Europa), invece, Petra de Sutter è stata la prima donna transgender a essere eletta vice primo ministro e ministro della Pubblica Amministrazione. E anche l’Italia, nel suo piccolo, qualche soddisfazione ce l’ha data: dalla prima rettrice dell’Università di Roma La Sapienza, Antonella Polimeni, passando per Francesca Nanni, prima procuratrice generale di Milano, fino a Sara Gama, eletta vicepresidente dell’Associazione italiana calciatori.  

In ambito legislativo, poi, ci sono stati alcuni importanti provvedimenti: l’anno è iniziato con la decisione della Scozia di garantire un accesso universale e gratuito agli assorbenti, estendendo una misura già in atto da tempo per tutte le studentesse. È proseguito, a maggio 2020, con il Sudan che ha vietato le mutilazioni genitali femminili, pratica tristemente diffusa e radicata nel Paese, come in almeno altri 27 Paesi africani e in parti dell’Asia e del Medio Oriente, nonostante sia spesso formalmente vietata dalla legge. Ed è finito, a dicembre, con l’approvazione da parte del Parlamento danese di una nuova e storica “legge sul consenso“, che giudicherà come stupro ogni rapporto sessuale in cui una delle persone coinvolte non abbia dato il proprio esplicito consenso, superando il modello (vigente in Italia) secondo il quale si considerano stupri solo i rapporti sessuali perpetuati attraverso violenza, minacce e costrizione. Anche in Medio Oriente si è smosso qualcosa: l’Arabia Saudita e la Palestina hanno proibito i matrimoni infantili (che nella maggior parte dei casi vedono protagoniste proprio le bambine), imponendo un’età minima di 18 anni.

Ma i progressi più significativi sono quelli riguardanti le legislazioni che regolano l’aborto, ancora illegale o parzialmente illegale in più di due terzi dei Paesi del mondo – e molto spesso, seppur consentito, ostacolato -. A marzo la Nuova Zelanda ha depenalizzato l’aborto e, nello stesso periodo, dall’altra parte del mondo, è entrato in vigore il Northern Ireland Act 2019, che prevede l’estensione all’Irlanda del Nord di alcuni diritti civili già in vigore nel Regno Unito, tra cui appunto l’interruzione volontaria di gravidanza. Da agosto, in Italia, l’assunzione della pillola abortiva RU486 non prevede più un ricovero di tre giorni e può essere somministrata in ambulatorio o nei consultori entro nove settimane, invece che sette (questo almeno in teoria, dal momento che le nuove linee di indirizzo hanno incontrato l’indifferenza o la resistenza di molti governi regionali).

In Polonia il governo di estrema destra, che da anni tenta di introdurre restrizioni al diritto all’aborto, già fortemente limitato, ha fatto un altro buco nell’acqua: a fine ottobre, il Tribunale costituzionale aveva emesso una sentenza per eliminare la possibilità di interrompere la gravidanza in caso di grave malformazione del feto, motivo per il quale vengono praticate il 90% delle procedure abortive nel Paese. Le proteste sono state talmente estese e partecipate che la sentenza ancora non è stata convertita in legge. Dulcis in fundo, il 30 dicembre 2020 in Argentina è stato completamente depenalizzato e legalizzato l’aborto, finora consentito solo in caso di stupro o di pericolo per la salute della donna, ma di fatto ostacolato in tutti i modi. Sebbene sia stato necessario introdurre l’obiezione di coscienza per far sì che la proposta passasse in Senato, la legge rappresenta un traguardo incalcolabile per tutte le donne argentine e per la Campaña Nacional por el Derecho al Aborto Legal, Seguro y Gratuito, movimento femminista che ha presentato la richiesta 13 volte in 15 anni.

Ciò che è fondamentale sottolineare è il ruolo essenziale dei movimenti femministi nel raggiungimento di questi risultati: prorompenti e instancabili hanno rivendicato le loro battaglie e il loro valore, rendendosi protagonisti non solo delle loro lotte personali (vedi appunto l’Argentina, la Polonia, e poi la Turchia, l’Iran, il Brasile), ma dominando e guidando anche la scena delle manifestazioni antigovernative di mezzo mondo. Le donne sono in prima linea nelle proteste contro il regime di Lukashenko in Bielorussia, reclamano il loro diritto all’autodeterminazione nell’ambito delle rivendicazioni democratiche dei thailandesi contro il governo autoritario del generale Prayuth Chan-o-cha e sono donne le leader del movimento antirazzista americano Black Lives Matter, alla guida delle proteste che hanno scosso l’America in seguito all’uccisione di George Floyd da parte della polizia a maggio. Inoltre, in seguito alle grosse manifestazioni che hanno attraversato il Cile tra il 2019 e il 2020, in cui la presenza femminile è stata determinante, i cittadini cileni hanno ottenuto l’abolizione dell’attuale Costituzione, che verrà riscritta da donne e uomini, garantendo la parità di genere.

Il 2020, nonostante la pandemia, è stato un anno di fuoco. Una cosa è chiara: le donne di tutto il mondo sono stanche di essere considerate cittadine di serie B, sono stanche di dover dimostrare quanto un loro ruolo attivo e non subordinato nella società sia necessario e imprescindibile per la sua crescita e il suo benessere, sono stanche di dover dimostrare giorno dopo giorno quanto valgono. Ma per quanto siano stufe, non sono più disposte a lasciar correre: l’insostenibilità della loro condizione non fa che alimentare la rabbia, la forza e la sensazione di urgenza della loro missione. Le donne non sono più disposte ad aspettare né a indietreggiare, nemmeno di un centimetro.

Michela Morsa

Per un’altra dose di buone notizie: 20 buone notizie del 2020

“No è no”: cultura dello stupro e consenso

Avete mai pensato a come cambierebbe il mondo per il genere femminile (e per quello maschile) se vivessimo in una società meno permeata dalla rape culture, la “cultura dello stupro”?

Penso spesso a tutto questo e al fatto che sostituire la prevaricazione sistemica con una “cultura del consenso”, parola di cui si parla davvero spesso negli ultimi anni, sia una delle possibili soluzioni al problema. Anche se è comprensibile il fatto che non è possibile distruggere il patriarcato dal giorno alla notte – in fondo, stiamo parlando di un sistema che esiste praticamente da sempre, come ha egregiamente raccontato Simone De Beauvoir nel suo “Il secondo sesso” -, questo non deve esimerci dal credere che un cambiamento sia necessario.

Nel testo del 1993Transforming a Rape Culture”, Emilie Buchwald, Pamela Fletcher e Martha Roth definiscono la “cultura dello stupro” come

“(…) un complesso di credenze che incoraggiano l’aggressività sessuale maschile e supportano la violenza contro le donne. Questo accade in una società dove la violenza è vista come sexy e la sessualità come violenta. In una cultura dello stupro, le donne percepiscono un continuum di violenza minacciata che spazia dai commenti sessuali alle molestie fisiche fino allo stupro stesso. Una cultura dello stupro condona come “normale” il terrorismo fisico ed emotivo contro le donne. Nella cultura dello stupro sia gli uomini che le donne assumono che la violenza sessuale sia “un fatto della vita, inevitabile come la morte o le tasse”.


Credo che il concetto così esposto sia assolutamente chiaro ma alcuni esempi di situazioni dove questo tipo di prevaricazione si palesa in maniera lampante o più sottile possono aiutare a comprendere meglio quello che Buchwalk, Fletcher e Roth sono riuscite a definire.

Il femminicidio e lo stupro (o il tentato stupro) sono le manifestazioni più evidenti della violenza di tipo fisico che l’uomo esercita sulla donna. A queste si aggiungono le molestie (sì, anche il catcalling), i ricatti sessuali, lo stalking, il revenge porn (quando materiale privato viene condiviso con terzi senza che gli attori ripresi siano d’accordo per vendetta o altri motivi ad essa legati), il victim blaming (sostenere che una survivor, una vittima di uno stupro, “se la sia cercata”) ed altre forme di violenza psicologica o economica che inficiano pesantemente la libertà e la serenità delle nostre vite.

Se osserviamo attentamente i vari fenomeni elencati qui sopra notiamo come manchi in ognuno di essi un elemento essenziale: il consenso. Lo ammetto, può sembrare un parolone ma se spiegato con l’aiuto della fidata Treccani si rivela in realtà un concetto molto semplice: “il consentire che un atto si compia” e ancora “permesso, approvazione”.

Nonostante mi sembra che fin qui la questione sia abbastanza chiara, tenterò di semplificarla ulteriormente. Non so voi, ma ho avuto spesso la sensazione che l’uomo venga cresciuto, non soltanto in famiglia – sarebbe bello, bastasse questo – ma anche dalle istituzioni e dai prodotti culturali di ogni epoca, con la convinzione che la sua virilità dipenda e sia direttamente proporzionale alla quantità di “sì” che riceve. In televisione è stato passato per anni lo spot (QUI trovate la versione dell’85) di un dopobarba che recita: “per l’uomo che non deve chiedere mai”…dovrebbe bastarci questo. La donna di conseguenza, in quanto controparte maschile, si trova a dover reprimere dei “no” perché l’essere accondiscendente e, in un certo senso “sottomessa”, le farà ottenere validità agli occhi degli uomini. Quante volte vi siete sentite dare dell’“acidona” o della “suora” nel momento in cui avete negato la vostra disponibilità all’altro sesso? Le donne che dissentono, guarda un po’, sono sempre “puntigliose“, “pesanti“, “rompiscatole“. Invece loro, gli uomini, “sono fatti così”, “boys will be boys”: impossibile che cambino, “essere uomini” è la loro natura e la giustificazione a qualsiasi scorrettezza. Prima lo impariamo, meglio è.
C’è anche un altro grande classico che alimenta questo tipo di narrazione: quante volte vi è capitato di sentire che “se ti tratta male è perché le piaci” o che una ragazza che ti dice “no” magari sta solo “facendo la difficile”? Questo in molti casi porta tanti a persistere nel tentativo di “conquistare” donne che, nel pieno delle loro facoltà mentali, li hanno rifiutati chiaramente dal giorno uno.
Ora, fatte tutte queste premesse, i concetti di “cultura dello stupro” e consenso si spiegano quasi da soli.

Io non riesco più a stupirmi davanti a chi sostiene che un determinato modo di vestire può in qualche modo mandare dei segnali ambigui e che quindi, più o meno direttamente, una minigonna giustifica uno stupro. La verità è che non bisogna arrivare a tanto, il “mondo là fuori” ci fa sperimentare diversi tipi di violenza che prescindono da femminicidi e stupri ma che possono esserne al tempo stesso causa e preludio. Finché ci sarà qualcuno che definirà “complimenti” quando parliamo del disagio che proviamo nel dover sopportare occhiate, versi e commenti di ogni tipo mentre camminiamo per strada; finché ci saranno persone che chiameranno “semplici avances” le attenzioni insistenti non richieste o non ricambiate che ci vengono rivolte sul luogo di lavoro, di studio o sui social; finché un partner, occasionale o meno, ci farà pressioni per avere rapporti sessuali che non vogliamo, lo stupro o il femminicidio saranno solo la punta dell’iceberg. E se alla voce delle donne venisse dato lo stesso peso di quella degli uomini, se un “no” pronunciato da una donna venisse considerato semplicemente come un “no” (cosa che avviene quotidianamente alla controparte maschile), se le donne non venissero considerate prede da conquistare, trofei da esibire, incapaci di esprimere la propria volontà – il proprio consenso, appunto-, una cosa come il victim blaming non esisterebbe.

C’è da rivedere dunque un intero sistema e per fare questo ci vorrà molto tempo, senza dubbio. Il primo passo però è sicuramente quello che va verso una maggiore consapevolezza, nostra e degli uomini. Noi dovremmo iniziare a dire quei “no” che potrebbero farci apparire meno desiderabili: un “sì” ottenuto con la violenza, di qualsiasi tipo esso sia, non ci farà stare meglio (fidatevi, parlo per esperienza). Il coraggio e la forza necessari, quelli che servono anche a tantissime survivors, dovremmo poterli trovare, in primis, nella solidarietà femminile di cui spesso si sente parlare ma che altrettanto spesso manca. E sarebbe bello se gli uomini aprissero gli occhi sul problema, lavorassero su se stessi per iniziare ad accettare il fatto che il rifiuto non li rende “meno uomini” e capissero che “no è no” pure se a dirlo è una donna.

Eleonora Panseri

P.s. Il 25 novembre l’Istat ha pubblicato un quadro informativo integrato sulla violenza contro le donne molto interessante. Vi lascio QUI il link, se avete voglia di capire attraverso i dati quali sono le proporzioni del fenomeno in Italia.