Senza “Roe v. Wade” l’indice di mortalità materna è destinato a crescere

Dopo la revoca del diritto all’aborto negli Stati Uniti, le morti legate alle gravidanze sono sicuramente destinate ad aumentare, specialmente tra le persone appartenenti alle minoranze, secondo gli esperti, che raccomandano azioni urgenti per proteggere i diritti riproduttivi e la salute delle pazienti nel Paese.

Come riportato dal Guardian, che ha intervistato Rachel Hardeman, professoressa di salute riproduttiva egualitaria e ricercatrice alla University of Minnesota School of Public Health, ci saranno molte più persone che verranno costrette a portare a termine una gravidanza, e questo significa che aumenterà anche il numero di quelle a rischio. “Più gravidanze significano anche più morti materne“, ha osservato la professoressa.

I divieti statali che verranno approvati nelle prossime settimane faranno registrare un aumento di 75.000 parti all’anno. E questi avranno effetto in maniera sproporzionata soprattutto sulle persone più giovani, più povere, su quante hanno già dei figli e sulle donne appartenenti a minoranze.

Ma gli Stati Uniti è un paese dove è estremamente difficile essere una donna incinta, con il più alto tasso di mortalità tra i Paesi sviluppati, che negli ultimi anni è anche rapidamente aumentato. Per ogni 100.000 nascite, quasi 24 persone sono morte a causa della gravidanza o per altre complicanze legate al parto nel 2020, per un totale di 861 donne, secondo il US Centres for Disease Control and Prevention (CDC).

A seguito della decisione della Corte Suprema di ribaltare la “Roe v. Wade“, c’è anche chi, come l’ex vicepresidente USA Mike Pence, un divieto a livello nazionale, ma questo determinerebbe un aumento del 21% della mortalità legata alle gravidanze in tutto il Paese, ma sarebbe ancora peggiore per le donne nere, indigene e latine: il dato che le riguarda salirebbe al 33%, secondo uno studio condotto dall’University of Colorado Boulder.

Secondo la professoressa Hardeman, infatti, “il fatto che le donne delle comunità nere, indigene e latine saranno maggiormente colpite dal mancato accesso all’aborto farà crescere ancora di più il gap razziale nella mortalità materna che già esiste negli Stati Uniti”. Le persone incinte appartenenti alle minoranze sono state a lungo marginalizzate e trascurate dal sistema sanitario, e hanno spesso sperimentato razzismo e discriminazione a tutti i livelli.

Gli stati che hanno vietato o applicato restrizioni registrano alcuni dei più alti tassi di mortalità legati a gravidanza e parto, così come i più alti tassi di mortalità infantile. Il Mississippi, per esempio, dove ha avuto origine il caso Roe versus Wade, ha un tasso di mortalità materna due volte superiore a quello del resto del Paese e il più alto tasso di mortalità infantile.

E mentre la metà del Paese è in procinto di vietare l’aborto, altri Stati e città hanno lavorato per garantire questo diritto, anche alle pazienti non residenti. Ma restano comunque limitazioni importanti per raggiungere questi luoghi sicuri. Molte persone delle comunità marginalizzate che devono ogni giorno affrontare barriere sistemiche per avere accesso al sistema sanitario potrebbero non avere gli strumenti, le risorse, il denaro e il tempo per poter abbandonare il lavoro o la cura di casa e figli per viaggiare in un altro Stato e ricevere le cure di cui avrebbe bisogno.

Articolo originariamente pubblicato su theguardian.com
Traduzione di Eleonora Panseri

La decisione della Corte Suprema ci insegna una grande lezione: mai dare per scontati i diritti che altr* hanno conquistato per noi

Da alcune ore continuo a ricevere mail da parte di associazioni pro-choice e pro-aborto statunitensi che chiedono aiuto. È un’enorme macchina, quella che le attiviste del Paese in poche ore hanno messo in moto, ma già mesi fa stavano pensando a come organizzarsi nel caso in cui la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America avesse deciso di ribaltare la “Roe v. Wade“, la sentenza del 1973 che quasi 50 anni fa aveva riconosciuto l’aborto come diritto federale, basandosi su un’interpretazione del XIV emendamento della Costituzione. Non solo a maggio, quando era stata diffusa la bozza di sentenza, ma anche in momenti precedenti le attiviste avevano pensato a tutte le possibili soluzioni che contenessero i danni di questa catastrofe giuridica.

Negli scorsi mesi, una sentenza così sembrava un’eventualità, seppur terribile, che ancora si poteva evitare. Oggi, purtroppo, è divenuta una triste realtà. Da questo momento ai singoli Stati spetterà legiferare in materia di aborto e molti di questi, mesi fa, hanno approvato le tristemente note “trigger laws“, ovvero leggi che sarebbero entrate in vigore soltanto se la Corte avesse deciso come poi ha effettivamente fatto. Leggi che ostacoleranno in tutti i modi chi avrà la necessità di interrompere una gravidanza e che criminalizzeranno l’aborto, facendo rischiare a chi cercherà di aiutare queste donne multe e anni di prigione. Tra quelli che già erano pronti a negare questo diritto e quelli che lo faranno a breve dovrebbero essere circa 25 su 50 gli Stati, quasi tutti a trazione repubblicana, che renderanno l’aborto illegale. In alcuni, abortire diventerà impossibile anche in caso di stupro o incesto.

Molti governatori dei restanti 25, soprattutto democratici, hanno già fatto sapere che si muoveranno per tutelare ulteriormente il diritto all’aborto nelle loro giurisdizioni. Ma la decisione della Corte Suprema penalizzerà inevitabilmente, anche se non esclusivamente, le donne che risiedono negli Stati dove sarà illegale interrompere una gravidanza, soprattutto quelle che non hanno le possibilità economiche per recarsi laddove invece i loro diritti verrebbero rispettati. Il rischio che dilaghino gli aborti illegali c’è, questa potrebbe essere l’alba di una strage perché, come mi ha detto un’attivista statunitense che ho intervistato qualche tempo fa, “chi avrà bisogno di abortire, non smetterà mai di cercare un modo per farlo”. La depenalizzazione dell’interruzione di gravidanza, al contrario, garantisce non solo il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione delle donne, ma anche del rispetto della loro salute riproduttiva.

Dagli anni ’70 a oggi la vita di molte donne è cambiata, possiamo dire in meglio. Ci sono tante, troppe cose che ancora non vanno, dobbiamo però riconoscere che alcuni traguardi sono stati raggiunti. Ma la grande lezione che abbiamo da imparare dalla sentenza “Dobbs v. Jackson” è che purtroppo non possiamo e non dobbiamo darli per scontati. Non possiamo e non dobbiamo dimenticare che prima di noi qualcun* ha lottato, e in alcuni casi è anche mort*, per consentirci oggi di fare cose che per queste persone erano impensabili, immorali o illegali. Non possiamo e non dobbiamo dimenticare che in molte parti del mondo c’è ancora chi combatte per andare a scuola e lavorare o per non doversi coprire integralmente, come sta succedendo alle nostre sorelle in Afghanistan, che il mondo sembra aver dimenticato. Non possiamo e non dobbiamo dimenticare che ci sarà sempre qualcuno che vorrà negarci dei diritti, perché una società patriarcale si nutre di violenza, di esclusione, di prevaricazione, di ingiustizia e prospera solo in presenza di queste.

Credo fermamente nella possibilità di ogni individuo di autodeterminarsi: di cambiare idea, di trovare una soluzione a eventuali errori commessi, di non dover subire quelli fatti da altri. Dobbiamo lasciare alle persone il diritto di scegliere, a patto che questo non leda il resto della comunità. Io non so se mai abortirò e probabilmente avrei la risposta solo trovandomi nella condizione di doverlo fare o meno. Ma a oggi non posso pensare che una democrazia costringa un individuo vivente a dover compiere un passo, quello della maternità, che per tante ragioni non è pronto o non vuole fare. Non posso pensare che uno Stato intenda tutelare una potenziale vita, distruggendone milioni di altre.

Eleonora Panseri

Texas, aborto vietato dopo la sesta settimana

Il governatore repubblicano del Texas Greg Abbott ha annunciato la firma di una legge che modifica in senso restrittivo il diritto di aborto: da settembre 2021 in Texas non sarà più possibile abortire trascorse le sei settimane di gestazione.

Sono previste eccezioni nel caso in cui la gravidanza sia frutto di incesto o stupro. La legge texana si basa sul principio del cosiddetto heartbeat bill (legge del battito cardiaco) che individua nella sesta settimana di gravidanza il momento in cui il cuore del feto inizia a funzionare autonomamente.

Nonostante negli Stati Uniti l’aborto sia legale a livello federale – in base a quanto stabilito dalla Corte Suprema nella sentenza Roe v. Wade del 1973 – ogni singolo Stato ha potere discrezionale nella determinazione dei criteri e dei limiti.

Il Texas però non è il solo: Kentucky, Mississippi, Ohio e Georgia sono solo alcuni degli Stati che prevedono le stesse regole.  Secondo il Guttmacher Institute solo nel 2021 sono state introdotte più di 60 restrizioni all’accesso all’aborto in più di quindici Stati.

Sempre secondo le ricerche del Guttmacher Institute, le restrizioni del diritto di aborto non corrispondono a una riduzione effettiva delle interruzioni di gravidanza: negli ultimi 30 anni le gravidanze interrotte in Paesi poco tolleranti sono state più che nei Paesi maggiormente liberali. Complessivamente, il 61% delle gravidanze indesiderate sono culminate nell’Ivg. A prescindere dalla legislazione vigente.

La domanda sorge spontanea: non si fanno più figli perché c’è l’aborto? Oppure perché le politiche sociali a favore della maternità sono ineffettive? E ancora, siamo tutte tenute a diventare madri? Forse è ora di partire da un’adeguata educazione sessuale, comprensiva di una riflessione sulla salute riproduttiva delle donne. I numeri dimostrano che quando viene garantito l’accesso ai contraccettivi, gli aborti diminuiscono. Inoltre, è il caso di eliminare la narrativa tossica che dipinge le donne che abortiscono come giovani disinibite che non vogliono assumersi la responsabilità di un’eccessiva libertà sessuale: il 59% di chi ricorre all’Ivg è già madre di almeno un figlio. La retorica non regge.

Chiara Barison

“Libera di abortire”, la nuova campagna di Radicali Italiani

“Siamo davvero libere di abortire?”

Questa è la domanda con cui i Radicali Italiani e un gruppo di associazioni lanceranno oggi, lunedì 24 maggio, a Milano con una conferenza stampa alle 11.45 nella sede dell’Associazione Enzo Tortora Radicali Milano e in diretta Facebook la loro nuova campagna, “Libera di abortire“. Per “garantire il libero accesso all’aborto“, come si legge sul sito dedicato al progetto.

Presentata qualche giorno fa anche a Roma e Pescara, l’iniziativa nasce con l’obiettivo di informare sulla pratica dell’aborto e di denunciare una situazione che in Italia vede una diffusa disinformazione sull’argomento e un numero altissimo di obiettori. A questo si aggiungono le scelte politiche di amministrazioni anti-abortiste che rendono ancora più difficile per gli/le/* cittadin* l’accesso all’aborto.

In Italia tante donne sono ancora oggi sottoposte a violenze fisiche e psicologiche, anche se, grazie alla legge 194 approvata 43 anni fa, l’aborto nel nostro Paese non dovrebbe più essere né un crimine né uno stigma.

La critica dei Radicali è rivolta all’impegno dello Stato che risulta carente nel fornire a tutti gli strumenti per vivere la propria sessualità in maniera consapevole, per conoscere e accedere all’IVG (l’Interruzione Volontaria di Gravidanza) e alle sue alternative.

E’ possibile sostenere “Libera di abortire” in due modi: finanziando uno dei manifesti che racconteranno le storie e i pensieri di attivist* che hanno subito violenze per aver scelto responsabilmente di abortire o/e firmando l’appello rivolto al Ministro della Salute Roberto Speranza.

Sul sito della campagna potete trovare maggiori informazioni. Qui invece trovate la pagina dove firmare l’appello e qui quella per cofinanziare i manifesti.

Eleonora Panseri

40 anni fa l’Italia difendeva l’aborto

In Italia, l’interruzione di gravidanza è legale dal 1978. Tre anni dopo la sua entrata in vigore la legge 194 è stata messa in discussione. Da una parte c’erano i Radicali che chiedevano di eliminare il limite dei 90 giorni per ricorrere all’Ivg. Dall’altra, il Movimento per la Vita – di matrice cattolica – che chiedeva l’abrogazione dell’aborto o, in alternativa, che fosse limitato a necessità terapeutiche.

L’acceso dibattito nell’opinione pubblica aveva portato alle urne il popolo italiano per rispondere al quesito di due referendum. Entrambi respinti: la 194 doveva rimanere così come era stata originariamente formulata.

Negli ultimi anni è centrale il tema della pillola abortiva Ru 486 che, nonostante i vantaggi, viene osteggiata su più fronti. Anche in piena pandemia molte strutture ritengono necessario il ricovero, rendendo così il diritto di accesso all’Ivg quasi impossibile.

La nuova frontiera è la telemedicina. Con questo termine si intende l’assistenza medica in forma telematica, in cui il medico assiste la paziente online. Dopo l’assunzione della Ru 486 la donna può essere seguita con videochiamate e messaggi, evitando il rischio di essere contagiata durante la permanenza in ospedale. Cosa stiamo aspettando?

Chiara Barison

Abortire in Italia

L’aborto o Ivg (interruzione volontaria di gravidanza) in Italia è stato depenalizzato solo nel 1978 con l’introduzione della legge n. 194. Fino a quel momento era possibile trovarlo nel codice penale tra i “reati contro l’integrità e la sanità della stirpe”. In poche parole, era più importante garantire un seguito al popolo italiano che tutelare la vita e la salute delle donne.

Questi concetti, letti con la sensibilità di oggi, possono sembrare anacronistici e superati. Bisogna però considerare che il reato di procurato aborto si inseriva nel codice penale entrato in vigore nel 1930, in pieno ventennio fascista, un periodo che dava moltissima importanza alla questione della razza. Oggi troviamo ancora l’aborto come reato se procurato senza il consenso della donna oppure causato da una condotta colposa.

Dopo anni di lotte e morti a causa del ricorso a pratiche clandestine, la legge 194 del 1978 registra il cambio di passo. Le donne non vogliono più essere madri a tutti i costi, ma si fa strada il concetto di maternità come scelta. Soprattutto tra le classi più povere, le donne non potevano permettersi di avere troppi figli perché questo avrebbe impedito loro di lavorare.

Ma cosa prevede di preciso la legge?

Innanzitutto, il principio cardine è la tutela della salute fisica e psichica della donna, di conseguenza la gravidanza può sempre essere interrotta in caso di grave pericolo per la vita della gestante o del feto. Significa che nel caso in cui venissero diagnosticate patologie incompatibili con la vita, oppure malformazioni che potrebbero rendere rischioso portare a termine la gestazione, è possibile ricorrere all’Ivg in qualsiasi momento.

In assenza di fattori di rischio, il diritto di interrompere la gravidanza è garantito entro e non oltre i primi 90 giorni dall’inizio della gravidanza che decorrono dall’ultima mestruazione.

Oltre alla possibilità di abortire chirurgicamente, nel 2009 è stato introdotto il cosiddetto aborto farmacologico attraverso l’assunzione della pillola Ru486. La pillola abortiva non deve essere confusa con la pillola del giorno dopo. La seconda è infatti un contraccettivo d’emergenza ed è possibile acquistarla in farmacia senza ricetta medica. Deve essere assunta possibilmente entro le 24 ore dopo il rapporto a rischio e impedisce la fecondazione.

Al contrario, la pillola abortiva Ru486 può essere somministrata solo in caso di accertato stato di gravidanza e costituisce una valida alternativa all’aborto chirurgico. I dati che emergono dall’ultima relazione del Ministero della salute sono però sconfortanti: solo il 21% delle donne italiane ricorre all’Ivg farmacologica contro una percentuale che sfiora il 100% in Finlandia.

Tenuto conto dei minori rischi per la salute della donna, anche solo in termini d’invasività della procedura, la bassissima percentuale si spiega tenendo conto di due fattori. In primo luogo, la maggior parte delle Regioni prevede un regime di ricovero ordinario fino all’espulsione del prodotto del concepimento. Inoltre, a differenza degli altri Paesi europei, fino a poco tempo fa in Italia era possibile ricorrere alla RU486 solo entro le 7 settimane invece di 9. Le linee guida del Ministero della salute sono state aggiornate in tal senso solo nel mese di agosto 2020.

Quanto ai luoghi, la legge prevede che ogni donna possa abortire rivolgendosi alle strutture sanitarie pubbliche: in pratica, non è così. Visto l’altissimo numero di ginecologi obiettori di coscienza, in alcune zone d’Italia la 194 è quasi lettera morta. Secondo quanto riportato dall’associazione Luca Coscioni, fino al 2017 in Lombardia gli obiettori di coscienza erano circa il 66 per cento. Questa situazione porta le donne a rivolgersi a medici che praticano l’aborto privatamente, costringendole a sostenere un costo che per alcune può essere un deterrente.

Le stime parlano di un dato che oscilla tra le 10 e le 13 mila donne l’anno che evitano le strutture ospedaliere per interrompere una gravidanza. Insomma, in Italia l’Ivg non è per tutte e in alcuni casi comporta una selezione su base censitaria.

Chiara Barison

La libertà di essere (o non essere) madre

Ieri sera il Senato ha confermato con 156 voti favorevoli la fiducia al governo Conte bis. Anche se la maggioranza relativa non renderà le cose facili all’esecutivo, l’Italia tira un sospiro di sollievo. Quello che però colpisce, in un’ottica femminile e femminista, sono le parole pronunciate dal leader della Lega Matteo Salvini. Durante il suo intervento, l’ex ministro ha tuonato: “il nostro modello sono i centri d’aiuto alla vita, non le pillole abortive regalate per strada a chiunque”.
Così poche parole, così tante cose sbagliate.

La maternità è da sempre “croce e delizia” delle donne di tutti i tempi e di ogni parte del mondo. Croce perché la storia le ha relegate (e spesso ancora le relega) al ruolo esclusivo di genitrici, privandole della possibilità di occuparne di diversi, etichettando quelle che non riuscivano o non volevano avere figli come delle disgraziate, come angeli ribelli in un paradiso dove la norma doveva essere “donna = madre e basta”. Delizia perché le donne che vogliono e scelgono di diventare madri accettano questo ruolo con una dedizione infinita, bellissima ma spesso al limite del martirio, viste le difficoltà che devono affrontare, cose che paradossalmente spesso non riguardano anche i padri (nonostante, bisogna dirlo, un figlio si faccia IN DUE).

Le parole del ex ministro dell’Interno non solo insultano la libertà delle donne di scegliere il destino dei loro corpi, una libertà sacrosanta, ma allo stesso tempo proseguono la lunga tradizione della “caccia alle streghe” sul tema dell’interruzione di gravidanza.
L’aborto in Italia non è reato, se eseguito nei modi e nei tempi stabiliti dalla legge. E la pillola abortiva non viene “regalata per strada”. Nel nostro paese e in tutto il mondo sono morte milioni di donne, prima che l’interruzione di gravidanza fosse legale. Questa veniva praticata (e in alcuni paesi è ancora così) con ferri da calza e altri oggetti che provocavano emorragie letali o problemi di salute per tante (troppe) donne. La legge 194 ha impedito ad altre di fare la stessa orribile fine. Perché, no, le donne non vogliono e NON DEVONO per forza essere madri. Le donne che decidono di abortire non sono mostri ma semplici esseri umani che come tutti hanno il diritto di autodeterminarsi in quanto individui nella società in cui vivono.  

Le donne che scelgono la maternità devono essere allo stesso modo rispettate e aiutate. Lo Stato dovrebbe dare loro tutto quello di cui hanno bisogno per sostentare i loro figli, dovrebbe non costringerle a scegliere tra una carriera e il loro ruolo di madri, dovrebbe educare tutti alla parità di genere e al rispetto di chi assume su di sé, uomini e donne, l’immenso compito di educare una generazione futura (a questo proposito, trovate QUI la petizione lanciata da “Il giusto mezzo”, il gruppo di donne che ha avanzato la proposta di destinare il 50% dei fondi del “Next Generation EU”, in Italia meglio conosciuto come “Recovery Fund“, a politiche a favore dell’occupazione femminile, della lotta alla disparità di genere e della creazione di servizi sulla cura della persona, dall’infanzia alla terza età, ).

È molto facile fare politica, urlare slogan “in favore delle donne e della vita”, quando si è uomini. E soprattutto quando si vive in un paese dove il corpo delle donne è continuamente strumentalizzato e sessualizzato ma la sessualità femminile è un tabù. Non si parla di educazione sessuale nelle scuole e quella all’affettività non si sa nemmeno cosa sia. Però abortire non si può e non si deve fare. Perché? Perché lo ha deciso Matteo Salvini? L’ex ministro è mai stato una donna? Sa cosa significa esserlo oggi?

Un’opinione è tale quando non lede la libertà di chi la pensa diversamente e le parole pronunciate ieri sono l’ennesimo attacco a chi difende rispettosamente la propria. Essere prochoice non significa disprezzare la vita ma affermare il diritto all’aborto legale e sicuro e riconoscere che la maternità non può essere imposta a chi, per mille motivi, non può o non se la sente di portare avanti una gravidanza. E, allo stesso tempo, lottare affinché chi vuole essere madre lo sia senza incontrare enormi difficoltà sul proprio cammino.

Non è ancora ben chiaro come in un paese che si definisce civile queste due cose siano incompatibili.  

Eleonora Panseri

Il lungo cammino verso l’uguaglianza e le conquiste del 2020

Il 2020 è stato un anno a dir poco impegnativo per tutti, ma lo è stato in particolar modo per le donne, penalizzate maggiormente dagli effetti negativi della pandemia: sono state la categoria più colpita (insieme ai giovani) dalla perdita occupazionale e, contemporaneamente, le più soggette a un aumento del lavoro domestico e di cura non retribuito. Inoltre, è purtroppo noto come la maggiore permanenza in casa abbia esposto le donne a un aumento della violenza domestica, mentre l’accesso all’aborto e più in generale alla cura della salute sessuale e riproduttiva si è ulteriormente complicato.

In effetti, il quadro presentato dal World’s Women 2020, il report annuale dell’Onu sulla condizione femminile e sulla parità di genere nel mondo, non è per niente roseo: siamo ancora molto lontani dall’uguaglianza e dagli obiettivi stabiliti dalla Dichiarazione di Beijing di 25 anni fa, ulteriormente minacciati dall’impatto della pandemia di Covid-19. Ma qualche buona notizia c’è: non solo la partecipazione delle donne all’istruzione è in continuo aumento in tutto il mondo, ma quando le donne hanno l’opportunità di studiare presentano un miglior rendimento scolastico rispetto agli uomini e proseguono gli studi fino ai più alti livelli di educazione. In più, la rappresentanza delle donne in parlamento è più che raddoppiata a livello globale, raggiungendo il 25% dei seggi nel 2020, e ora ci sono 20 Paesi con una donna capo di stato o di governo, rispetto ai 12 del 1995.

Questo è stato un anno particolarmente vittorioso dal punto di vista degli incarichi istituzionali e non: molti settori, spaziando dalla politica allo sport, hanno visto accedere le donne a ruoli e posizioni di potere rimaste finora esclusivo appannaggio degli uomini. Impossibile non nominare in primis Kamala Harris, che si accinge a diventare la prima vicepresidente donna e afroamericana degli Stati Uniti e che fa da apripista a una squadra, quella amministrativa di Joe Biden, che batte tutti i record di rappresentanza politica femminile (e di minoranze etniche), con l’intenzione dichiarata di rispecchiare fedelmente il Paese in tutta la sua eterogeneità. L’intero staff addetto alla comunicazione, per esempio, è composto da donne, mentre Janet Yellen e Avril Haines saranno le prime donne a capo di due dei dipartimenti più rilevanti dell’amministrazione americana, rispettivamente ministro del Tesoro e direttrice dell’Intelligence nazionale.

In Belgio (e in Europa), invece, Petra de Sutter è stata la prima donna transgender a essere eletta vice primo ministro e ministro della Pubblica Amministrazione. E anche l’Italia, nel suo piccolo, qualche soddisfazione ce l’ha data: dalla prima rettrice dell’Università di Roma La Sapienza, Antonella Polimeni, passando per Francesca Nanni, prima procuratrice generale di Milano, fino a Sara Gama, eletta vicepresidente dell’Associazione italiana calciatori.  

In ambito legislativo, poi, ci sono stati alcuni importanti provvedimenti: l’anno è iniziato con la decisione della Scozia di garantire un accesso universale e gratuito agli assorbenti, estendendo una misura già in atto da tempo per tutte le studentesse. È proseguito, a maggio 2020, con il Sudan che ha vietato le mutilazioni genitali femminili, pratica tristemente diffusa e radicata nel Paese, come in almeno altri 27 Paesi africani e in parti dell’Asia e del Medio Oriente, nonostante sia spesso formalmente vietata dalla legge. Ed è finito, a dicembre, con l’approvazione da parte del Parlamento danese di una nuova e storica “legge sul consenso“, che giudicherà come stupro ogni rapporto sessuale in cui una delle persone coinvolte non abbia dato il proprio esplicito consenso, superando il modello (vigente in Italia) secondo il quale si considerano stupri solo i rapporti sessuali perpetuati attraverso violenza, minacce e costrizione. Anche in Medio Oriente si è smosso qualcosa: l’Arabia Saudita e la Palestina hanno proibito i matrimoni infantili (che nella maggior parte dei casi vedono protagoniste proprio le bambine), imponendo un’età minima di 18 anni.

Ma i progressi più significativi sono quelli riguardanti le legislazioni che regolano l’aborto, ancora illegale o parzialmente illegale in più di due terzi dei Paesi del mondo – e molto spesso, seppur consentito, ostacolato -. A marzo la Nuova Zelanda ha depenalizzato l’aborto e, nello stesso periodo, dall’altra parte del mondo, è entrato in vigore il Northern Ireland Act 2019, che prevede l’estensione all’Irlanda del Nord di alcuni diritti civili già in vigore nel Regno Unito, tra cui appunto l’interruzione volontaria di gravidanza. Da agosto, in Italia, l’assunzione della pillola abortiva RU486 non prevede più un ricovero di tre giorni e può essere somministrata in ambulatorio o nei consultori entro nove settimane, invece che sette (questo almeno in teoria, dal momento che le nuove linee di indirizzo hanno incontrato l’indifferenza o la resistenza di molti governi regionali).

In Polonia il governo di estrema destra, che da anni tenta di introdurre restrizioni al diritto all’aborto, già fortemente limitato, ha fatto un altro buco nell’acqua: a fine ottobre, il Tribunale costituzionale aveva emesso una sentenza per eliminare la possibilità di interrompere la gravidanza in caso di grave malformazione del feto, motivo per il quale vengono praticate il 90% delle procedure abortive nel Paese. Le proteste sono state talmente estese e partecipate che la sentenza ancora non è stata convertita in legge. Dulcis in fundo, il 30 dicembre 2020 in Argentina è stato completamente depenalizzato e legalizzato l’aborto, finora consentito solo in caso di stupro o di pericolo per la salute della donna, ma di fatto ostacolato in tutti i modi. Sebbene sia stato necessario introdurre l’obiezione di coscienza per far sì che la proposta passasse in Senato, la legge rappresenta un traguardo incalcolabile per tutte le donne argentine e per la Campaña Nacional por el Derecho al Aborto Legal, Seguro y Gratuito, movimento femminista che ha presentato la richiesta 13 volte in 15 anni.

Ciò che è fondamentale sottolineare è il ruolo essenziale dei movimenti femministi nel raggiungimento di questi risultati: prorompenti e instancabili hanno rivendicato le loro battaglie e il loro valore, rendendosi protagonisti non solo delle loro lotte personali (vedi appunto l’Argentina, la Polonia, e poi la Turchia, l’Iran, il Brasile), ma dominando e guidando anche la scena delle manifestazioni antigovernative di mezzo mondo. Le donne sono in prima linea nelle proteste contro il regime di Lukashenko in Bielorussia, reclamano il loro diritto all’autodeterminazione nell’ambito delle rivendicazioni democratiche dei thailandesi contro il governo autoritario del generale Prayuth Chan-o-cha e sono donne le leader del movimento antirazzista americano Black Lives Matter, alla guida delle proteste che hanno scosso l’America in seguito all’uccisione di George Floyd da parte della polizia a maggio. Inoltre, in seguito alle grosse manifestazioni che hanno attraversato il Cile tra il 2019 e il 2020, in cui la presenza femminile è stata determinante, i cittadini cileni hanno ottenuto l’abolizione dell’attuale Costituzione, che verrà riscritta da donne e uomini, garantendo la parità di genere.

Il 2020, nonostante la pandemia, è stato un anno di fuoco. Una cosa è chiara: le donne di tutto il mondo sono stanche di essere considerate cittadine di serie B, sono stanche di dover dimostrare quanto un loro ruolo attivo e non subordinato nella società sia necessario e imprescindibile per la sua crescita e il suo benessere, sono stanche di dover dimostrare giorno dopo giorno quanto valgono. Ma per quanto siano stufe, non sono più disposte a lasciar correre: l’insostenibilità della loro condizione non fa che alimentare la rabbia, la forza e la sensazione di urgenza della loro missione. Le donne non sono più disposte ad aspettare né a indietreggiare, nemmeno di un centimetro.

Michela Morsa

Per un’altra dose di buone notizie: 20 buone notizie del 2020

Argentina, decisione storica sull’aborto: primo passo verso la legalizzazione

Buone notizie dall’Argentina. Dopo una seduta iniziata il 10 dicembre alle ore 11 e conclusasi dopo 19 ore, la Camera dei deputati ha approvato un disegno di legge per la legalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza. Una pratica, quella dell’aborto, ammessa al momento solo nel caso in cui la salute della donna sia in pericolo o in caso di stupro. Per passare all’esame del Senato, dove nel 2018 il disegno era stato bocciato, erano necessari 129 voti favorevoli. L’esito della discussione ne ha portati ben 131 a favore. Contro 117, solo 6 gli astenuti.

Ci sono buone possibilità che il documento ottenga un secondo “Sì”, visto che il testo originario è stato modificato rispetto a quello proposto in precedenza. L’inserimento dell’obiezione di coscienza, contestata dai movimenti femministi, e il sostegno del partito al governo sono due elementi che potrebbero fare la differenza. Infatti, il progetto di legge è stato presentato con l’appoggio del presidente Alberto Fernández a metà novembre insieme a quello per l’assistenza sanitaria e la cura di quante, al contrario, decidono di portare a termine la gravidanza.

La gioia dei movimenti femministi e di migliaia di persone è esplosa per le strade di Buenos Aires, al grido di “In questa lotta, ci siamo tutte!”. Sventolano in aria fazzoletti verdi, scelti come simbolo del diritto all’aborto legale.

Quello dell’aborto è infatti un problema serio e un tema molto sentito nel paese e in tutto il Sud America. Sono migliaia le ragazze minorenni alle quali non viene garantito il diritto di interrompere la gravidanza e costrette a dare alla luce il frutto delle violenze. La resistenza proviene soprattutto da esponenti della Chiesa cattolica, presenza molto forte in molti paesi sudamericani. È infatti di qualche settimana fa la notizia delle proteste di gruppi anti-abortisti contro l’interruzione di gravidanza di una bambina di dieci anni, rimasta incinta dopo essere stata stuprata dallo zio in Brasile. L’Argentina femminista, e noi con lei, resta con il fiato sospeso nella speranza che la proposta divenga finalmente legge.

Eleonora Panseri