Shoah, Liliana Segre e la «colpa» di essere nata

«Porto il mio numero con grande onore perché è la vergogna di chi lo ha fatto. Persone odiate per la colpa di essere nate e che non avevano più diritto al loro nome diventano un numero. Il numero serve, in quella numerazione, per sapere quanti pezzi c’erano. Io sono stata un pezzo». In una delle sue ultime apparizioni pubbliche, un’intervista rilasciata a Massimo Gramellini del novembre 2019 (un anno dopo si è ritirata a vita privata), la senatrice della Repubblica italiana Liliana Segre raccontava così l’esperienza dell’Olocausto. Segre, 91 anni, è tra le ultime testimoni sopravvissute agli orrori dei campi di sterminio nazisti: in occasione della Giornata della memoria, ripercorriamo la sua storia.

Un’infanzia felice

Milano, 1930: Liliana Segre nasce il 10 settembre e cresce in corso Magenta 55, dove oggi sono posate le pietre d’inciampo dedicate al padre Alberto e ai nonni paterni, Giuseppe Segre e Olga Lövvy. La madre Lucia muore 25enne di cancro, quando sua figlia ha solo un anno di vita. Quella di Liliana Segre è tuttavia un’infanzia felice: il padre, che perde la moglie giovanissimo, ha solo 31 anni, decide di dedicarsi totalmente alla bambina, la vizia e la ama profondamente. I Segre vivono una vita agiata.

Liliana sperimenta una prima grande sofferenza a 8 anni quando, per le sue origini ebraiche, viene espulsa da scuola: è il 1938 e in Italia entrano in vigore le leggi razziali. «Mi restò per anni la sensazione di essere stata cacciata per aver commesso qualcosa di terribile, che in seguito tradussi dentro di me come “la colpa di essere nata”; perché altre colpe certo non ne avevo: ero una ragazzina come tutte le altre», ha raccontato in diverse occasioni la senatrice.

Il tentativo di fuga in Svizzera e il carcere

L’8 settembre 1943 cade il fascismo, il centro e il sud Italia vengono liberati dagli Alleati. Ma il nord del Paese rimane in mano ai fascisti e ai tedeschi. Alberto Segre capisce il pericolo che corrono gli ebrei e tenta la fuga in Svizzera con Liliana: «La storia di questa fuga grottesca la racconto sempre, quando vado a testimoniare nelle scuole, perché sulle prime mi sentivo un’eroina, sui valichi dietro Varese. Era inverno e attraversavamo i boschi, io e mio papà: passavamo il confine come clandestini, come animali sulle montagne. Eravamo liberi, pieni di speranza. Ma arrivati di là, un ufficiale svizzero tedesco ci trattò come degli imbroglioni, come delle cose orribili che capitavano proprio a lui, e ci respinse, ci consegnò agli italiani, condannandoci a morte».

I due vengono arrestati a Varese, portati nel carcere di Como, infine trasferiti in quello milanese di San Vittore. Restano per 40 giorni nel V raggio, sezione che i fascisti avevano destinato ai detenuti ebrei. Segre, all’epoca 13enne, e suo padre lasciano il carcere e Milano il 30 gennaio 1944, insieme a più di seicento persone, tra cui quaranta bambini. Dal binario 21 della Stazione Centrale inizia «il viaggio verso il nulla durato una settimana» in un vagone sprangato. Il viaggio verso Auschwitz.

Il campo di concentramento e la perdita del padre Alberto

«Ad Auschwitz un passo avanti o indietro poteva cambiare il destino. Sono anziana, ma non sono mai uscita davvero dalla me stessa di allora. E ogni anno che passa, mi chiedo “Ma come ho fatto, ma come ho fatto, ma come ho fatto?”. Potrei andare avanti all’infinito ma non ho la risposta. Uomini di qua, donne di là: quando scendemmo dal treno e ci separammo, mio padre mi disse di restare con una nostra conoscente, la signora Morais. Eppure quando la guardia mi chiese se fossi sola, ebbi l’istinto di dire di sì. Finii in una fila, la signora Morais in un’altra, e andò al gas». Liliana Segre raggiunge il campo di concentramento il 6 febbraio 1944. Arrivano ad Auschwitz 605 persone, ma in poche ore 500 ne vengono uccise con il gas. La ragazza perde in quel momento suo padre Alberto, che non rivedrà mai più: «Mi ha amato e io lo ho amato con tutta me stessa. Resta il grande nodo irrisolto della mia vita. Il dolore più grande del mondo ce lo siamo dati reciprocamente: io per la sua perdita, lui perché quando ha lasciato la mia mano sulla rampa di Auschwitz-Birkenau, non credo pensasse che ce l’avrei mai fatta». La stessa sorte sarebbe toccata nel maggio dello stesso anno anche ai nonni paterni Giuseppe e Olga, arrestati 6 mesi dopo Alberto e Liliana, e ai suoi cugini.

Liliana Segre invece vede la sua vita risparmiata ed è costretta a lavorare in una fabbrica, la “Union”, che produce munizioni, diventa 75190. Un numero diverso per ogni sopravvissuto ma per tutti il simbolo dello sterminio di 17 milioni di persone: ebrei, disabili, zingari, omosessuali, prigionieri politici. Tra le esperienze più strazianti che la senatrice ha raccontato in questi anni, c’è quella di Janine: una ragazza, ebrea francese di 12 anni, internata con Liliana Segre ad Auschwitz. Una mattina la ragazzina viene ritenuta non idonea per continuare a lavorare e destinata alla camera a gas. Soltanto perché aveva perso due dita. Resta uno dei rimpianti di Segre, quello di non averla salutata, di non averle mostrato un ultimo gesto di affetto e umanità: «Lei non serviva più, andava al gas. E io, che ero appena passata e che tutti i giorni lavoravo con lei, sono stata orribile, così ero diventata. Non mi sono voltata, non accettavo più distacchi. Ma non ci fu mai più un tempo in cui non mi ricordai di Janine».

Dopo circa un anno di lavori forzati e la chiusura del campo, Segre viene trasferita in Polonia, poi in Germania, nei campi di Ravensbrück e Malchow. È il 1° maggio del 1945 quando viene liberata dai russi. Tornerà a Milano nel 1946, fra i 25 sopravvissuti di età inferiore ai 14 anni.

Nel 1948 conosce a Pesaro, durante una vacanza al mare, Alfredo Belli Paci, il suo futuro marito. Anche lui deportato in diversi campi di concentramento nazisti per non aver aderito alla Repubblica di Salò, Alfredo conquista Liliana, colpita dalla sua somiglianza fisica e caratteriale con il padre Alberto. I due si sposano con rito cattolico nel 1951 e dalla loro unione nasceranno Alberto, Luciano e Federica.

La testimonianza per le generazioni future e l’impegno politico

Solamente nei primi anni ’90 Liliana Segre decide di rompere il silenzio in cui si era rifugiata e di diventare testimone vivente della sua prigionia. Per molti anni parla con gli studenti di varie scuole, un’attività alla quale, come lei, tanti altri sopravvissuti alla Shoah si sono dedicati con l’intenzione di educare le generazioni future, affinché cose come queste non avvengano mai più.

Il riconoscimento non è solo civile, ma anche politico: nominata prima Commendatore della Repubblica Italiana sotto il governo Ciampi, poi senatrice a vita, nel 2018, dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, “per aver illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo sociale“. Nel 2004 una medaglia d’oro dalla città di Milano e nel 2008 e 2010 due lauree ad honorem, in Legge dall’Università di Trieste, e nel 2010 in Scienze pedagogiche dall’Università di Verona. E in diversi altri momenti la cittadinanza onoraria in diverse città, tra cui Lecco, Palermo e Varese.

Nel 2020 è invitata al Parlamento europeo dal recentemente scomparso Presidente David Sassoli. Davanti ai più alti rappresentanti delle istituzioni di tutta Europa ripercorre gli orrori vissuti, meritando l’applauso commosso di tutta l’assemblea: «La forza della vita è straordinaria, è questo che bisogna trasmettere ai giovani, che sono mortificati dalla mancanza di lavoro, mortificati dai vizi che ricevono dai loro genitori molli per cui tutto è concesso Mentre la vita non è così, è una marcia. Noi non volevamo morire, eravamo pazzamente attaccati alla vita, qualunque fosse».

Qualche tempo dopo l’Università di Roma “La Sapienza” le conferisce un dottorato honoris causa in storia dell’Europa che Segre dedica al padre Alberto,“ucciso per la colpa di essere nato”. Nell’ottobre dello stesso anno l’ultimo discorso pubblico, prima di ritirarsi a vita privata. A Rondine, in provincia di Arezzo, inaugura idealmente il progetto dell’ “Arena di Janine”, dedicata alla ragazza “scartata”, la compagna di Auschwitz. In quell’occasione ha detto: «Non perdono e non dimentico, ma non odio».

Rispettando i suoi compiti da senatrice a vita, nel 2021 ha votato la fiducia al Governo Conte II e la mozione di conferimento della cittadinanza italiana onoraria al ricercatore egiziano dell’Università di Bologna Patrick Zaki, liberato l’8 dicembre scorso dopo due anni di detenzione nel carcere del Cairo. Ha partecipato anche all’elezione del futuro Presidente della Repubblica italiana nel gennaio 2022.

«C’è una bambina, tra quelli del campo di Terezin, poi deportati e uccisi ad Auschwitz per la sola colpa di essere nati, che ha disegnato una farfalla gialla che vola sopra i fili spinati. […] Questo è un semplicissimo messaggio da nonna che vorrei lasciare ai miei futuri nipoti ideali: che riescano sempre a fare una scelta, che con la loro responsabilità e coscienza siano in grado di essere sempre quella farfalla gialla che vola sopra i fili spinati», Liliana Segre.

Eleonora Panseri

La “troppa vita” dimenticata della poetessa Antonia Pozzi

«Quando la nomino non la conosce nessuno». Se ne stupisce ancora, dopo anni, Valeria Torresan, laureata in Lettere moderne all’Università degli Studi di Milano. Mai il programma della sua facoltà si è imbattuto nel nome di Antonia Pozzi. Eppure Eugenio Montale l’aveva inserita, unica donna, tra i più grandi poeti del ‘900. Valeria aveva letto per caso i suoi versi e ne era rimasta folgorata: «Ho deciso di fare la tesi su di lei, sentivo che mi chiamava». Ne è rimasto affascinato anche Paolo Cognetti, scrittore premio Strega, che ha curato la raccolta «L’Antonia», pubblicata pochi mesi fa.

Antonia Pozzi, poetessa nata nel 1912 a Milano, oltre a essere concittadina di Valeria, frequentava la stessa università. Nelle stesse aule ha affinato il talento poetico. Ciò nonostante la città non la ricorda, niente parla di lei e della sua arte. Valeria è la prima ad ammetterlo: «Mi sono stupita di aver trovato alcune sue poesie appese ai muri della stazione Garibaldi e il suo viso è raffigurato su una facciata dell’Istituto alberghiero Pasolini. È qualcosa, ma si potrebbe fare molto di più».

Antonia Pozzi non era solo una stella nascente della letteratura, era anche figlia di una famiglia prestigiosa: padre avvocato e madre di stirpe nobiliare, discendente di Tommaso Grossi. Eppure, secondo lo storico Gianfranco Scotti, furono proprio i genitori, alla morte prematura della figlia, a nascondere per lungo tempo il suo talento: «Il padre era un uomo duro, un fascista. Non perdonò ad Antonia la fine che aveva deciso per se stessa».

La ragazza, infatti, si uccise in una fredda mattina del dicembre 1938, a soli 26 anni. Salutò i suoi studenti dell’Istituto Tecnico Schiaparelli di Milano, dove insegnava Lettere, disse loro «fate i bravi», poi salì in sella alla sua bicicletta e pedalò fino all’abbazia di Chiaravalle, nella periferia della città. Si stese nella campagna innevata lì attorno e ingerì una dose letale di barbiturici. I genitori, a cui Antonia aveva lasciato una lettera,  fecero di tutto per evitare che la notizia di una fine così vergognosa si spargesse e ignorarono i componimenti di Antonia, da cui già si poteva presagire il peggio. Una sua breve poesia recita:

«E poi – se accadrà ch’io me ne vada – Resterà qualche cosa / di me / nel mio mondo - / resterà un’esile scia di silenzio / in mezzo alle voci - / un tenue fiato di bianco / in cuore all’azzurro»

Antonia aveva ragione: dopo la sua morte, attorno a lei e ai suoi versi si formò uno strato di oblio, reso ancora più spesso dallo scoppio della Seconda guerra mondiale. Fu Eugenio Montale il primo ad accorgersi, nel 1945, del valore della Pozzi, curando la prefazione della sua prima raccolta di poesie. La definì: «Una voce leggera, pochissimo bisognosa di appoggi, essa tende a bruciare le sillabe nello spazio bianco della pagina. La purezza del suono e la nettezza dell’immagine erano il suo dono nativo». La sua stima nei confronti della poetessa milanese non sfiorì con il tempo: «Quando fu chiesto a Montale, negli ultimi anni della sua vita, chi fossero per lui i più grandi poeti del Novecento, egli collocò nel novero, unica donna, Antonia Pozzi. Da allora si ebbe la sua rivalutazione, che la inserì nelle voci autorevoli della “linea lombarda”», spiega Scotti.

Ma anche nel percorso di riscoperta di Antonia Pozzi, Milano non compare tra i protagonisti. Il contributo più grande lo diede, infatti,  suor Onorina Dino, di Pasturo, piccolo paese in Valsassina. Fu lei a raccogliere e custodire con affetto le poesie che Antonia aveva scritto durante i mesi di villeggiatura. La città la opprimeva e Pasturo era il suo rifugio, come testimoniano i suoi versi:

«Giungere qui – tu lo vedi - / dopo un qualunque dolore / è veramente / tornare al nido»

«Antonia non aveva un grande rapporto con la sua città natale», racconta Scotti, «Provava più trasporto per la natura e adorava le montagne di Pasturo. Sentiva che Milano non l’aveva capita».

Meno ancora sembravano capirla i suoi genitori che avevano ostacolato l’amore tra la figlia e il suo professore di latino e greco Antonio Maria Cervi. «Antonia si innamorava spesso dei suoi compagni di scuola o di università, senza mai venire corrisposta. Ma solo Cervi fu l’amore della sua vita. La famiglia fece di tutto per impedirle di sposarlo, prevedendo per lei un matrimonio all’altezza della sua classe sociale», spiega Scotti.

Da qui il legame gelido con il capoluogo lombardo che non le permetterà mai di trovare la pace. Come analizza lo storico: «In lei si alternavano delusioni e speranze. La sua forza sta in aver tradotto queste emozioni in versi brillanti di purezza, senza tempo». Antonia sapeva come scavare nell’anima, tra burrasche e passioni ardenti: la letteratura, i viaggi, la montagna, l’arrampicata, la fotografia. Persino quando si tolse la vita, non lo fece per aridità di spirito ma, al contrario, per l’incapacità di incasellare il proprio estro nei rigidi limiti imposti dai genitori e dalla società. Lucida e tenace, i suoi versi parlano, postumi, per lei:

«Per troppa vita che ho nel sangue, tremo»

Nonna*

Se chiudo gli occhi posso ancora sentire sotto le dita i tuoi zigomi sodi di ragazza. Mi piaceva accarezzarti e chiederti quale fosse il tuo segreto. Nessun trucco, nessuna crema. Solo genetica. La stessa che si manifesta prepotentemente sul mio viso. Mi guardo allo specchio, e ti vedo.

Te ne sei andata in silenzio, l’ultima presa di posizione nei confronti di una vita che ti ha dato tanto e tolto altrettanto. Negli ultimi anni ti ha privata della memoria, di quei ricordi cui eri tanto affezionata.

Al collo portavi il viso del bambino che troppo presto era andato via da te, lasciandoti un vuoto enorme. Cercavi di colmarlo con un ciondolo che ogni tanto guardavi con orgoglio, gli occhi velati dalle lacrime.

Poi è stato il momento di tuo marito, anche lui all’improvviso. Portato via da un Dio della cui esistenza a tratti dubitavi.

Ma nessuno dei due ha mai lasciato davvero questa Terra. Vivi più che mai nelle tue parole.

La tua infanzia difficile, fatta di dolore e rinunce ti aveva segnata nei modi, a tratti bruschi. Ricordo i tuoi piccoli pugni battuti sul tavolo quando volevi sottolineare un concetto. Ti tradivano gli occhi, dolci e brillanti, l’opposto della forza che ostentavi. Gli stessi occhi con cui a volte guardavi spaesata il mondo che cambiava troppo velocemente per una come te, eterna ragazza anni ’50.

Abbiamo discusso, credevi che l’emancipazione femminile fosse una mia fantasia di bambina viziata. Tu eri stata fortunata. Instancabile lavoratrice e moglie devota di un uomo che ti amava e rispettava. Stavi bene così, protetta e indipendente. Tuo malgrado sei stata femminista. Hai passato 37 anni sola, senza bisogno di nessuno che non fossero i tuoi figli o i tuoi nipoti. Fiera nella solitudine che portavi come uno scialle. Troppo occupata a lavorare a macchina per piangerti addosso, ti concedevi qualche momento di malinconia.

Perdonami per averti capita fino in fondo solo ora, come chi è troppo cieco per vedere le cose prima che svaniscano.

Ti immagino in sella della tua bicicletta verde, a pedalare in un luogo in cui non esiste dolore. Finalmente non puoi più cadere.

Chiara Barison

*può sembrare un articolo atipico per questo blog, ma ho deciso di rendere omaggio a mia nonna soprattutto in quanto donna.

Florence Nightingale, la “ragazza con la lampada”

Vegliava i feriti di notte, un gesto semplice che permise di salvare molte vite e le valse il soprannome di “ragazza con la lampada”. Parliamo di Florence Nightingale, la madre dell’infermieristica moderna.

Nata in una famiglia dell’aristocrazia inglese, Florence decise di non sposarsi, un gesto di ribellione nell’età vittoriana in cui è vissuta. Si dedicò così agli studi e all’assistenza dei bisognosi. Una volta giunta in Turchia, durante la guerra di Crimea, capì che qualcosa nella gestione dei feriti di guerra andava cambiato. Una condizione su tutte: l’igiene in corsia. Un ambiente pulito e l’assistenza continua determinarono un cambiamento rivoluzionario: i morti nell’ospedale da campo diminuirono di due terzi.

Dopo questa esperienza, Florence scrisse un trattato di più di 800 pagine sull’importanza delle condizioni di vita dei pazienti ricoverati. Sua è anche l’invenzione di una serie di servizi ospedalieri come li conosciamo oggi: la mensa, la lavanderia e la biblioteca per tenere i degenti intellettualmente attivi.

Non si limitò a essere un’infermiera. Le sue doti l’hanno resa una vera e propria statista: durante le sue esperienze in guerra raccolse instancabilmente dati ed è sua l’invenzione del grafico chiamato diagramma polare (Nightingale rose diagram) attraverso il quale riuscì a dimostrare il rapporto tra interventi sanitari e il tasso di mortalità.

Dal 1965, il 12 maggio di ogni anno tutto il mondo la ricorda grazie all’istituzione della giornata mondiale degli infermieri. Nel 2019 Bologna le ha anche dedicato un giardino pubblico.

Chiara Barison

Transessualità: Antonia Monopoli si racconta

Nonostante il filtro dello schermo di un pc, la luce negli occhi di Antonia Monopoli non può che abbagliare. Ancora più forti sono le sue parole. Ha scritto un libro che vale la pena di leggere: La forza di Antonia. Storia di una persona transgender. Parla della sua vita, degli ostacoli e di come è riuscita a superarli. Una storia che supera le barriere di genere, in cui ognuno di noi può identificarsi. Ora è responsabile dello sportello trans dell’associazione Ala Onlus Milano ed è una delle attiviste più influenti della comunità trans.

Innanzitutto, qual è la differenza tra omosessualità e transessualità? Spesso non si hanno le idee molto chiare.

Anche io in un periodo della mia vita sono andata alla ricerca di un gruppo di appartenenza credendo di essere gay. Ma ciò che sento io è diverso, perché io non cerco un gay ma un uomo eterosessuale a cui piacciono donne cisgender. Quando ho visto per la prima volta una trans ho capito di voler essere come lei, prima non sapevo di esistere. La differenza quindi sta nel percepirsi anche in relazione al genere opposto.

Quando hai realizzato per la prima volta la tua “diversità”?

Verso i sette anni. Giocavo con le bambole, mi piacevano i capelli lunghi. Per me i capelli sono un segno di femminilità. Io amo i miei, mi arrabbio ancora adesso quando la parrucchiera taglia troppo (ride).

A proposito di capelli lunghi, quali sono gli stereotipi della femminilità che non ti piacciono?

Minigonna, tacco a spillo, calze a rete. In alcuni contesti l’abito fa il monaco. La minigonna va bene per andare in discoteca, bisogna tenere sempre conto del luogo in cui andiamo. A me piacciono le cose particolari ed estrose ma sempre raffinate: amo molto Thierry Mugler e Jean-Paul Gaultier.

Che rapporto hai con la moda?

Quando ero un maschietto aspettavo la domenica per vedere “Non solo moda”, ero appassionata. Mi piace molto lo stile vintage, soprattutto anni ’50.

Secondo te le problematiche che incontrano le persone transessuali oggi sono le stesse che hai incontrato tu all’inizio del tuo percorso o sono cambiate? Pensi sia più facile oggi?

Per me le cose sono cambiate. Negli anni ’80 quando dissero a mia madre che ero un bambino diverso dagli altri, si allarmò moltissimo e si rivolse al medico di base. Lui le suggerì di portarmi al manicomio. Ero considerata una malata mentale curabile solo con il lavaggio del cervello e la lobotomia. A 18 anni a Trani incontrai il primo terapeuta che disse a mia madre che non ero malata e a dover essere aiutata in questo percorso fosse lei, non io. In quel momento vidi la luce. Dopo ho iniziato a fare le ricerche per diventare quella che sono oggi.

E arrivi a Milano.

Nel ’94 non c’era nulla, mancava un punto di riferimento per le persone trans che mi potesse consigliare cosa fare. Erano le altre ragazze, non un medico, a dirmi quale farmaco utilizzare per avere il seno e ottenere una fisionomia più femminile possibile. Nel 2002 trovai il primo centro diagnostico al Niguarda, anche se all’epoca era ancora piuttosto rudimentale: all’interno del centro sterilità c’era un medico ginecologo che seguiva la transizione creando un’équipe multidisciplinare. Così, nel 2009 ho deciso di creare il punto di riferimento che mancava, per dare alle persone come me quello che io non ho avuto. Quindi direi di sì, dagli anni ’80 i cambiamenti ci sono stati e io ho stessa ho contribuito a innovare la quotidianità delle persone trans.

Quale consiglio daresti alla vecchia te?

Io ho passato periodi un po’ bui. Alla vecchia me posso consigliare di avere più fiducia in se stessa, andare avanti a testa alta (quasi si commuove). Non avrei mai pensato di arrivare a 48 anni. Siccome ho lavorato 10 anni in strada, mi dicevano che le trans prostitute non vivono a lungo. Mi guardo indietro e mi dico che nonostante le difficoltà ho fatto tanta strada.

Chiara Barison

Marisa Rodano, un secolo di lotte

Le donne italiane espressero il loro primo voto nel 1946 e Marisa, che in quell’anno aveva solo 25 anni, per il suffragio femminile ha combattuto in prima linea. Lo ha fatto insieme all’UDI, l’Unione donne italiane: il movimento, nato ufficialmente nel settembre del 1944 a Roma sotto l’ala del Partito Comunista Italiano, l’8 marzo 1946 sceglierà su sua iniziativa la mimosa come fiore-simbolo della Giornata Internazionale della Donna. Marisa presiederà l’UDI dal 1956 al 1960.

Quella per il voto però non è stata l’unica lotta per questa donna che oggi compie 100 anni e che è un esempio di infaticabile impegno nella lunga strada per il riconoscimento dei diritti delle donne.

Maria Lisa Cinciari Rodano, nata a Roma il 21 gennaio 1921, nel maggio del 1943 viene arrestata per attività contro il fascismo e detenuta per qualche tempo nel carcere delle Mantellate. Subito dopo la caduta del fascismo entra a far parte dei Gruppi di difesa della donna, diventando una partigiana. Partecipa a una “resistenza senza armi”, come la definisce nelle sue “Memorie di una che c’era“:

“Non ho mai preso un’arma in mano se non per trasportarla e ho fatto soltanto quello che centinaia di donne hanno fatto in quei mesi”.

Alla fine della guerra è nel consiglio comunale di Roma, nel 1948 entra alla Camera (di cui sarà vicepresidente dal 1963, la prima donna nella storia repubblicana a ricoprirne la carica). Cinque anni dopo arriva anche al Senato. Dal 1979 è all’Europarlamento e vi resta per dieci anni: dal 1981 al 1984 in qualità di presidente e relatrice generale della Commissione d’inchiesta del Parlamento Europeo sulla “Situazione della donna in Europa”, dall”84 come vicepresidente della Commissione dei diritti delle donne del Parlamento Europeo.

Marisa ha speso e continua a spendere la sua esistenza per il riconoscimento della parità di genere, un traguardo che è ancora lontano dall’essere raggiunto. Ma i passi avanti fatti sono tanti e tante sono le donne che si rendono conto che le cose vanno cambiate.

“Un consiglio da dare? Il primo è: fare squadra, non isolarsi, non avere sempre l’atteggiamento di vendersi al meglio sul mercato individualmente. Il secondo è di studiare e di leggere. E nel rapporto con gli uomini cercare un rapporto che sia possibilmente paritario e non di subordinazione”.


E se lo dice una persona come Marisa Rodano, che ha contribuito concretamente a fare l’Italia, possiamo davvero fidarci.
Buon compleanno!

Eleonora Panseri

Note: QUI potete trovare una recente splendida intervista di Marisa Rodano.

“Lucky” o l’apologia della brava ragazza

«Molti di noi hanno uno scopo che non scelgono, ma che al contrario va a stanarli con l’ostinazione tipica di questo genere di fenomeni. Sottrarsi a questo non era possibile, per il mio bene e per quello di tutte le vittime ridotte al silenzio dalla vergogna o da imperativi familiari o culturali».

Alice Sebold aveva solo 18 anni quando, diretta verso la residenza universitaria di Syracuse in cui alloggiava, è stata aggredita e violentata da uno sconosciuto. Nel suo libro c’è tutto il dolore dell’evento in sé, compresa la tragicità del riviverlo per farne una testimonianza che sia di aiuto per gli altri.

“Lucky”, fortunata, così è stata definita dal poliziotto che raccolse la sua deposizione quella notte del 1981. Nello stesso luogo un’altra ragazza prima di lei fu uccisa. «Uno stupratore può violentare non solo il corpo ma anche la mente – spiega Sebold – se potessi avere una gomma magica e cancellare quella notte lo farei in un batter d’occhio».

Nonostante tutto, Sebold riesce a scorgere l’abbozzo di una benedizione: l’autrice si sofferma ad analizzare il ruolo che l’estrazione sociale delle parti in causa ha avuto nel processo. Lei infatti è bianca, benestante, istruita e all’epoca dello stupro fu accertato che fosse ancora vergine.

Al contrario, il suo aggressore era povero, nero e con precedenti penali. Anche se sembra assurdo, la verginità e il suo abbigliamento pudico giocarono un fondamentale ruolo a suo favore.

Detto questo, il processo fu tutt’altro che una passeggiata. Emotivamente devastante, le conseguenze hanno prodotto strascichi in tutte le pieghe dell’esistenza di Sebold: alcol, eroina, relazioni tossiche, sindrome da stress post traumatico. Nonostante la condanna del suo violentatore, parla della vittoria come «una condizione fuggevole, balena per un attimo e poi si spegne».

E provoca i lettori: «Prendete lo stesso identico caso e provate a invertire i ruoli. Esempio: lo stupratore è un professionista bianco appartenente alla classe media o alta e proviene da una famiglia rispettabile. Violenta una prostituta filippina transessuale in una camera d’albergo. Il delitto è esattamente lo stesso, ma le possibilità che l’imputato venga condannato? Nemmeno lontanamente paragonabili».

P.s.: vale la pena di leggere anche “Amabili resti”, altro capolavoro di Sebold. Nel 2009 ne è stato tratto un film con Saoirse Ronan nei panni della protagonista.

Chiara Barison

“Donna non si nasce, lo si diventa”

Il 9 gennaio 1908 nasce Simone Lucie Ernestine Marie Bertrand de Beauvoir, scrittrice, saggista, filosofa esistenzialista, professoressa, massima esponente del femminismo emancipazionista e autrice del testo cardine, e indiscusso capolavoro, della seconda ondata: “Il secondo sesso”.

Figlia di Françoise Brasseur e Georges Bertrand de Beauvoir e sorella di Henriette – Hélène, di due anni più giovane, trascorrerà un’infanzia difficile, a seguito delle ristrettezze economiche affrontate dalla famiglia e causate dalla bancarotta del nonno materno Gustave Brasseur.
Studiosa appassionata fin dalla giovinezza, nel 1926 decide di iscriversi alla facoltà di Filosofia della Sorbona, fatto insolito per una donna in quegli anni. Il destino delle sue coetanee era all’epoca quello di trovarsi un marito e mettere su famiglia al più presto. Ma proprio a causa della difficile situazione economica familiare, e della conseguente assenza di dote, sia Simone che Henriette si rimboccheranno le maniche per trovare un impiego (cosa che il padre Geroges vivrà come un fallimento). Laureatasi con una tesi su Leibniz, nel 1929 ottiene la cosiddetta “agrégation“, ovvero l’idoneità all’insegnamento riservata ai migliori allievi francesi. Diventa così, a soli 21 anni, la più giovane insegnante di filosofia di Francia, classificandosi seconda all’esame di idoneità (superando Paul Nizan e Jean Hyppolite e perdendo di poco contro Jean-Paul Sartre, bocciato l’anno precedente). Sartre sarà l’uomo che accompagnerà De Beauvoir per tutta la vita: i due tuttavia non si sposeranno mai e imposteranno una relazione aperta che permetterà loro di frequentare altre persone. In alcuni casi, la libertà sentimentale e sessuale della scrittrice e filosofa le causerà non pochi problemi.  

Nel 1943, infatti, De Beauvoir verrà allontanata dall’insegnamento, a causa della storia avuta qualche anno prima con una studentessa che, all’epoca dei fatti, non aveva ancora raggiunto i 15 anni, l’età del consenso fissata ai tempi in Francia. Da questo momento in poi, la donna potrà dedicarsi interamente alla scrittura. Esce in quell’anno il primo romanzo, “L’invitata”, che racconta, appunto, il rapporto intercorso tra De Beauvoir, Sartre e Olga Kosakievicz, l’ex allieva. Tra il 1943 e il 1946 scrive “Pirro e Cinea”, un trattato di etica, i romanzi “Il sangue degli altri” e “Tutti gli uomini sono mortali” e la sua unica opera teatrale, “Le bocche inutili”. Partecipa, seppur marginalmente, alla Resistenza francese con il partito Socialismo e Libertà.

Nel dopoguerra, e precisamente nel 1949, pubblicherà “Il secondo sesso”. Il testo propone a chi legge un lungo excursus, storico, sociale e politico, nel quale la filosofa analizza la creazione del mito della femminilità e le conseguenze concrete che questa mitologia ha avuto, aveva in quegli anni e, sfortunatamente, tutt’oggi ha sulla vita delle donne.

Donna non si nasce, lo si diventa

Da “Il secondo sesso” è tratta questa frase, ancora oggi famosissima e spesso fraintesa, che si riferisce proprio all’identità femminile la cui costruzione non è mai stata appannaggio esclusivo delle dirette interessate. Secondo De Beauvoir, l’emancipazione del “secondo sesso” poteva avvenire solo e soltanto attraverso l’accesso al lavoro e l’indipendenza economica, ed il conseguente riconoscimento dei diritti civili e politici. Tra i tanti temi, l’incapacità delle donne di riconoscersi come un “noi”, conseguenza della subordinazione economica che le avvicina agli uomini piuttosto che a quante subiscono lo stesso destino, ma anche il rifiuto dell’inferiorità “naturale” della donna e della maternità come suo destino fisiologico.

Da questo momento in poi De Beauvoir si mobiliterà attivamente per le battaglie femministe della seconda ondata e verrà annoverata tra le iniziatrici di questa fase del movimento. Nel 1971 sottoscrive “Il Manifesto delle 343”, pubblicato sulla rivista Nouvel Observateur, nel quale 343 donne dichiaravano di aver abortito, esponendosi alle conseguenze penali, visto che in quegli anni la pratica era ancora illegale, e rivendicando il loro diritto a farlo. Non mancarono le durissime critiche e, a partire da una vignetta della rivista Charlie Hebdo, il documento fu soprannominato “Il Manifesto delle puttane”. Nonostante tutto, “Il Manifesto” rimane comunque tra i contributi che in maniera significativa portarono all’approvazione della “legge Veil“: nel gennaio del 1975 la Francia riconosceva alle donne il diritto di abortire. Nel 1977 fonda la rivista Questions féministes, insieme a Christine Delphy, Colette Capitan, Colette Guillaumin, Emmanuèle de Lesseps, Nicole-Claude Mathieu, Monique Plaza e successivamente anche Monique Wittig.

Nel 1980 muore Jean Paul Sartre, De Beauvoir commenterà così la dipartita del compagno di vita:

La sua morte ci separa. La mia morte non ci riunirà.
È così; è già bello che le nostre vite abbiano potuto essere in sintonia così a lungo”

Lei lo seguirà sei anni dopo, il 14 aprile 1986, e oggi i due riposano, l’una accanto all’altro, nel cimitero di Montparnasse.

Il contributo di De Beauvoir continua ad essere d’ispirazione per il mondo della filosofia e per le donne, femministe e non, di ogni epoca e paese.
La sua figura resta una delle più importanti e affascinanti del ‘900.

Eleonora Panseri

Fonti:
Carlotta Cossutta, “Profilo di Simone De Beauvoir“, APhEx 17, 2018 (ed. Vera Tripodi).

Olympe de Gouges e la “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina”

Una femminista ante litteram, Olympe De Gouges è stata senza dubbio questo e non solo. La sua storia merita di essere raccontata anche se Olympe, nata Marie Gouze a Montauban il 7 maggio 1748, ha per molto tempo subito la sorte di altre donne prima e dopo di lei. Infatti, se la storia, quella con la “s” maiuscola, è da sempre considerata il prodotto dell’azione degli uomini, tanti sono i nomi delle donne a lungo dimenticate o volutamente epurate dalla narrazione ufficiale. Fortunatamente, il lavoro di molt* studios*, soprattutto nel secondo dopoguerra, ha permesso a posteriori di riscoprire le vicende di quante contribuirono, seppur tra mille difficoltà, a cambiare il mondo. Ho avuto la fortuna di “conoscere” Olympe de Gouges soltanto all’università ma spero che nei programmi di elementari, medie e licei vengano presto inserite anche figure femminili di questo livello.

La madre di Marie, Anne-Olympe Mouisset, della quale la figlia deciderà in seguito di portare il nome, si sposa nel 1737 con il commerciante Pierre Gouze. Olympe assume quindi il cognome di Pierre, che poi modificherà in “Gouges” e al quale aggiungerà il “de”, ma la madre le confida presto di essere la figlia naturale del poeta Jean-Jacques Le Franc de Pompignan che tuttavia non la riconobbe mai, anche se espresse più volte il desiderio di occuparsi della sua educazione, proposta che Anne rifiutò categoricamente.
Sposatasi appena sedicenne, nel 1765, con Louis-Yves Aubry, Olympe rimase subito incinta e, dopo poco tempo, vedova. Deciderà di non risposarsi mai.
Nel 1770 lascia Montauban col figlio Pierre, futuro generale dell’esercito della Repubblica, per raggiungere a Parigi, città in cui il figlio avrebbe potuto avere un’educazione adeguata. Spesso additata come “cortigiana” o “prostituta”, in realtà, Olympe non conduce una vita dissoluta. Ha diverse relazioni con uomini che la mantengono e grazie ai quali riuscirà ad inserirsi nel mondo borghese e ad affermarsi come scrittrice e drammaturga con una compagnia propria ma la sua vita privata non sarà mai oggetto di scandalo.

Infatti, sono soprattutto le battaglie politiche da lei promosse a favore delle categorie più deboli della società francese del tempo, le donne, i neri, i bambini, gli anziani e i poveri, che attrarranno su di lei le ire dei sostenitori del Terrore post rivoluzionario. Ma è proprio la sua visione politica che la rende il personaggio incredibile che è e che merita di essere conosciuto.
Dal 1788 inizia a pubblicare i suoi scritti, nei quali vengono espresse idee estremamente progressiste per l’epoca. Olympe si batte infatti non solo per il riconoscimento dei diritti delle donne, escluse dopo la Rivoluzione dagli organi decisionali della nuova Repubblica, ma anche per l’abolizione della schiavitù e per la creazione di una rete di strutture di accoglienza per orfani e anziani.

Lo sguardo lucido e moderno che Olympe getta sulla realtà delle donne del suo tempo si palesa anche nel suo scritto più noto, la “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina” del 1791, uscita un paio di anni dopo la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” (1789). La “Dichiarazione” di de Gouges è infatti estremamente critica verso la versione “maschile” del documento, nel quale la donna non viene considerata. Come può la donna essere “cittadino” se le disparità sociali, politiche ed economiche che caratterizzavano la sua condizione, rispetto a quella molto più libera dell’uomo, le impedivano di partecipare attivamente alla vita pubblica e di decidere della propria vita privata? La libertà di opinione e di autodeterminazione, il diritto al voto e all’essere considerate parte di una società alla quale le donne contribuivano: queste erano le rivendicazioni alla base della dichiarazione. Rivendicazioni che, se non del tutto, almeno in parte, sono valide ancora oggi.

Nell’articolo 10 si legge: ” la donna ha il diritto di salire sul patibolo, essa deve avere pure quello di salire sul podio sempre che le sue manifestazioni non turbino l’ordine pubblico stabilito dalla Legge”. Il patibolo è purtroppo il luogo dove Olympe concluderà la sua esistenza. Verrà ghigliottinata il 3 novembre 1793, all’età di 45 anni, “per aver dimenticato le virtù che convengono al suo sesso ed essersi immischiata nelle cose della Repubblica“.

Eleonora Panseri

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