Perché “The Last Duel” di Ridley Scott è anche un film femminista

Francia, anno domini 1386. Due uomini si sfidano a duello. Uno per difendersi da un’accusa di stupro, l’altro invece si batte per il proprio onore di marito offeso. Al centro dell’arena, posta in alto rispetto ai duellanti, una donna, Marguerite de Carrouges, osserva la scena. Inizia così il nuovo film di Ridley Scott, “The Last Duel“, uscito nelle sale italiane il 14 ottobre e tratto dall’omonimo romanzo del 2004, scritto da Eric Jager. Il noto regista de “Il gladiatore” (vincitore di ben 5 premi Oscar) non poteva che proporre al suo pubblico un film ben fatto, consigliato a chi ama quelli di genere storico-drammatico. Tuttavia, al di là delle belle riprese e della sceneggiatura avvincente, chi ha gli strumenti per notarlo si accorgerà che il vero cuore del film non è il duello riportato nel titolo, ma quella donna che, tremante e incatenata, prega che il marito Jean de Carrouges, trionfi sullo sfidante ed ex amico Jacques Le Gris. Parlare della trama potrebbe in qualche modo portare a spoiler involontari. Quindi, in questo contesto, l’analisi verrà limitata alle tematiche femministe che, più o meno volontariamente, non ci è dato sapere, Scott ha inserito nel suo film.

Dal XIV secolo a oggi possiamo dire che, fortunatamente, la condizione della donna sia migliorata. Ma tra le qualità del regista capace sta quella di saper parlare, attraverso il passato, del presente. Il film racconta la storia di una donna stuprata nel Medioevo ma che ricorda molto da vicino quella delle survivors di tutte le epoche. Infatti, Marguerite, che trova il coraggio di denunciare il suo stupratore, finisce per affrontare tutte le prove che anche una vittima di stupro contemporanea vive sulla propria pelle.

In primis, l’atteggiamento del marito che sfida a duello l’ex amico e compagno d’armi non per un affetto sincero nei confronti della moglie, ma semplicemente per senso di rivalsa e di orgoglio maschile ferito. Marguerite è per Jean un oggetto di sua proprietà sul quale lo stupratore ha impresso un marchio d’infamia: solo il duello all’ultimo sangue potrà cancellarlo e restituire all’uomo la dignità perduta per colpa della consorte. A de Carrouges non interessa la sorte della donna che, nel caso lui perdesse il duello, verrebbe bruciata viva per aver mentito, o l’impatto che questo evento traumatico può aver avuto su di lei. L’uomo vive il fatto in virtù della propria visione del mondo e di come l’evento ha influenzato la sua, di vita.

Qui si passa a un altro interessante esperimento fatto dal regista: la divisione del film in tre parti, ognuna dedicata a uno dei protagonisti, intitolata “La versione di…”. Con questa divisione Scott enfatizza il diverso modo con cui prima Jean, poi Jacques e, per ultima, Marguerite, vivono quello che accade. In ogni versione notiamo particolari che in quella precedente o successiva non erano presenti o sfuggiti allo spettatore perché trascurati dal personaggio al centro di quel momento del film. Ne “La versione di Jacques Le Gris“, l’uomo accusato di stupro pronuncia una frase con la quale fa intendere che le resistenze della donna di fronte a un rapporto sessuale non consenziente per lui fanno parte del rituale della seduzione. Il consenso non è contemplato nella scala di valori di un uomo del Medioevo ma sembra che, in ogni secolo, anche quello attuale, non lo sia nemmeno per molti nostri contemporanei. Almeno questo è quello che emerge spesso dalle storie di donne sopravvissute ad una violenza sessuale. Ogni volta la responsabilità di uno stupro risiede nell’abbigliamento della vittima o nel fatto che fosse ubriaca o drogata e solo dopo nel comportamento criminale dell’uomo.

Le prime che fanno questo tipo di allusioni spesso sono altre donne. E’ ciò che accade anche in “The Last Duel”. Dopo la denuncia di Marguerite, le poche che lei considerava amiche le voltano le spalle, sostenendo in tribunale che, quello stupro, la donna lo desiderava perché una volta aveva riconosciuto a Les Gris di essere un bell’uomo. Il “se l’è cercata” aleggia prepotentemente in ogni scena post-denuncia.

Tra le detrattrici di Marguerite, anche la madre di suo marito che racconta alla nuora di essere stata stuprata a sua volta in gioventù. Ma questo non basta a farla empatizzare con la vittima del nuovo crimine: l’anziana donna la svilisce dicendo che lei, al contrario della ragazza, ha semplicemente scelto di stringere i denti, dimenticare il fatto e continuare con la sua vita. E da questo episodio si può trarre l’insegnamento più bello della pellicola: trovare la forza per denunciare un fatto, per non rimanere in silenzio di fronte a qualcosa che, sì, la società condanna, ma per il quale ti ritiene in parte colpevole pur non essendoci da parte tua alcuna responsabilità, non è facile. Ma alzare la testa e reagire consente non solo di cambiare il proprio destino, anche se tutti credono che sia già scritto, ma pure la sorte delle donne che verranno dopo.

Un film crudo, che lascia allo spettatore sensibile a questi fatti tanti temi su cui riflettere per giorni.

Petto in fuori e “Tette In Su”!

Vittoria Loffi, 22 anni, di cui 6 dedicati all’attivismo. Nel 1998 nasce a Cremona, ma studia e si forma politicamente a Milano. Qualche mese fa ha conseguito una prima laurea in “Scienze Internazionali e Istituzioni Europee” con una tesi su “La disciplina dell’aborto nei paesi BRICS” (BRICS: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, ndr). Oggi frequenta un corso di magistrale in “International Studies” a Roma, milita con i Radicali Italiani in qualità di membro del Comitato Nazionale e per loro ha ideato e conduce il podcast femminista “Tette In Su!”.

IG: @vittoriacostanzalow.fi

Com’è nato “Tette In Su!” e perché?
Diciamo che è nato perché ero interessata molto non solo al femminismo intersezionale, ma ai femminismi in generale e li stavo approfondendo in modo personale, singolo. Avvicinandomi ai Radicali Italiani e alla storia di Adele Faccio (attivista politica italiana, tra le prime propugnatrici del diritto all’autodeterminazione delle donne su materie riguardanti il proprio corpo e cofondatrice del centro d’informazione sulla sterilizzazione e sull’aborto, ndr), ho cercato di proporre diverse tematiche in versione podcast.
Secondo me, mancava un’analisi contemporanea, al passo coi tempi. Per esempio, si parla sempre tanto di diritto all’aborto, di sex working, di famiglie arcobaleno e persone transgender ma spesso non viene fatta un’analisi del contenitore “femminismo”. Volevo fare una sorta di “abecedario dei femminismi” per spiegarli a me, in primis, e poi agli altri. Anche se è sempre vero che studiare qualcosa significa imparare nozioni e addentrarsi in posizioni che sono magari molto lontane dalle proprie, penso a quelle del femminismo radicale. Applicare certe teorie nella vita quotidiana diventa poi tutt’altra storia. Però, secondo me, il podcast resta ugualmente uno strumento interessante per approcciarsi alle tematiche dell’oggi, in un’ottica femminista plurale. È necessario conoscere le radici dei pensieri, delle teorie, degli studi per riuscire ad esprimersi meglio.
Il nome del podcast, “Tetteinsu”, è nato guardando la serie de “La fantastica signora Maisel” durante il primo lockdown. Le cose belle della pandemia! Per me, usare il termine “tette” in modo così esplicito è stato un modo per liberare il corpo femminile. Quando parliamo di qualcosa che lo riguarda sembra sempre sia necessario trovare un linguaggio in codice, come quando diciamo “le mie cose” per parlare di mestruazioni o usiamo vezzeggiatici per parlare della vagina.

Oggi si parla tanto di “femminismo” o, meglio, di “questioni di genere”. Pensi che del femminismo, in realtà, si conosca veramente poco? Che da un lato ci sia tutto quel mondo fatto di slogan mainstream e dall’altro quelli che pensano che le femministe siano solo le donne che odiano gli uomini e che non vogliono saperne di avere figli? C’è un po’ di confusione e il podcast può aiutare a fare chiarezza?
Quando ho iniziato con il podcast, speravo proprio di sì e continuo a sperarlo, pure pensando a tutte le puntate che sono ancora in cantiere. E tra gli scopi del progetto c’era anche la rivendicazione del termine “femminista”. Indipendentemente da quale sia il femminismo in cui una persona si rispecchia (radicale, transescludente, post-strutturalista, ecc…), la volontà era proprio quella di riappropriarsi del termine e non parlarne solo come di questioni di genere. Perché è chiaro che il femminismo parli anche di questo ma usarlo come sinonimo di femminismo non è corretto.
Anche in politica capita spesso che alcune figure femminili fondamentali, che fanno un enorme lavoro in Parlamento, rifuggono il termine “femminismo”. “Perché?”, mi chiedo. Non c’è una motivazione specifica. Effettivamente nell’opinione pubblica c’è una visione stereotipata della femminista che odia gli uomini e vorrebbe sradicarli dalla faccia della terra, ma la realtà è ben diversa. Basterebbe uno sforzo in più per capirlo e il podcast voleva anche fare questo, proporre degli spunti di approfondimento.
Penso a Lorenzo Gasparrini che dice che dovremmo essere tutti femministi, riprendendo Chimamanda Ngozi Adichie. Credo sia bellissimo che lo faccia in quanto uomo e che usi proprio il termine “femminista” per sdoganarlo. Parlare semplicemente di “questioni di genere” significa, secondo me, voler negare un contenitore politico che invece è rivendicabile come è oggi definirsi “ambientalista”. L’uso del termine “femminista” dovrebbe dare subito l’idea di un insieme più ampio, “vario ed eventuale” dove ci sono tante posizioni e dove c’è anche il conflitto.
Quello che mi ha stupito in questi ultimi mesi è che, parlando del ddl Zan, si è dato per scontato che all’interno del movimento ci fosse la necessità di essere tutt* d’accordo e che il fatto che alcune femministe non lo fossero sia stato indicato come un disvalore. Una situazione che è stata sfruttata per dire: “Ecco, le donne non riescono ad andare d’accordo tra loro”, ma non è così. Le donne hanno avuto un lasso di tempo troppo ristretto per sviluppare un’ideologia unitaria ed è ovvio che ci sia uno scontro tra femministe che, per me, è comunque positivo.
Usare l’alternativa “questioni di genere” significa ridurre oggi il femminismo al rapporto uomo/donna ma è un rifiuto che nega una storia. Questo non significa che tutte le donne debbano essere femministe, ma riconoscere che una politica di genere è una politica che fa del femminismo.

A proposito di questo, perché ci sono tante persone che in qualche modo temono il femminismo, che dicono: “va bene, appoggio certe battaglie, ma non mi definisco femminista”? Cos’è che spaventa tanto?
Secondo me, la questione centrale è il tema del privilegio. Questa tematica c’è da sempre e bisogna anche vedere l’ottica dalla quale guardarla. Se una persona guarda il privilegio con un “occhio intersezionale” vedrà che nessuno gli sta chiedendo di assumersi una colpa. Questa cosa, secondo me, non è chiara.
Anche io sono una privilegiata: sono bianca, cisgender ed eterosessuale. Non sono privilegiata in quanto donna, ma per tutti gli altri fattori che compongono la mia identità. Questo privilegio però non lo sento come una colpa, ho imparato che va riconosciuto e compreso. La richiesta è prenderne atto, venirne a conoscenza.
Il discorso è chiaramente molto complesso perché la nostra identità è fatta di tanti fattori: orientamento sessuale, identità di genere, etnia, status sociale, ecc… Questi fattori si intersecano e ci fanno assumere una posizione all’interno di una società strutturata. In questo senso, chiedere a una donna di prendere coscienza del suo privilegio è più difficile rispetto al chiederlo ad un uomo perché, se storicamente esiste lo “scontro” uomo/donna, nel momento in cui le altre identità, le altre voci emergono, si chiede anche alla donna bianca, cisgender, etero di ridurre il proprio privilegio davanti a una donna nera, disabile o transgender. E il fatto che ci sia questa richiesta mette la prima in difficoltà. La reazione spesso è: “Ma anche io sono donna!”, quando non si capisce il valore dell’intersezionalità.
Su questo argomento è interessante il discorso che fa Nancy Fraser (filosofa e teorica femminista statunitense, ndr) sul femminismo che si è concentrato sull’abbattimento del famoso “soffitto di cristallo”. Fraser fa notare giustamente che non tutte le donne aspirano a diventare Ceo e si chiede: “Queste allora non sono soggetti validi di rivendicazione?”. Fa un’accusa parziale al femminismo liberale, quella di essersi dimenticato in parte dei problemi quotidiani delle donne. Questa è una conseguenza del non capire che tutt* partiamo da una condizione di privilegio rispetto al modo in cui la società ha sviluppato i concetti di “adeguato” e “non adeguato”. Si chiede semplicemente di prenderne atto per lavorare in un’ottica non negativa, ma propositiva. Rispetto agli uomini stessi, è giusto tentare di dialogare da pari. Anche se farlo è anche un talento. È chiaro che non sempre si riesce ma ci dovrebbe essere uno sforzo in questo senso.   

Rimanendo sempre sul tema del “prendere coscienza”, possiamo inserire in questo discorso anche “not all men”, “non tutti gli uomini? Possiamo dire che le donne devono prendere coscienza all’interno del movimento, ma che c’è la necessità che questo lavoro lo facciamo anche gli uomini?
Assolutamente! Secondo me, dire la famosa frase “non tutti gli uomini” è già un manifestare un privilegio, quello dell’estraniarsi da determinate dinamiche sbagliate, negative e tossiche, come quella del revenge porn, così che nessuno te ne venga a chiedere conto o che ti si richieda una maggiore partecipazione. Un uomo dovrebbe dire: “Sono in una posizione in cui la mia possibilità di essere ascoltato è maggiore, soprattutto dai miei “pari”, dal contraltare maschile” e fare lo sforzo non tanto di essere femminista, quanto piuttosto di rifiutare determinate dinamiche che hanno a che fare, banalmente, con la civiltà. Quando si parla di “cultura dello stupro”, non ci si riferisce semplicemente all’atto di stuprare concretamente una donna: la “rape culture” passa attraverso tutta una serie di pratiche sulle quali un uomo potrebbe e dovrebbe far sentire la propria voce. Per esempio, se un amico mostra una foto di nudo della propria compagna, l’uomo dovrebbe dire: “Ma che stai facendo?”.
Alla frase “non tutti gli uomini”, una donna può rispondere: “Sì, però tutte le donne…” perché ognuna di noi ha sperimentato certe dinamiche, dal catcalling, le battute sessiste, alla violenza sessuale vera e propria. Per gli uomini lo sforzo dovrebbe essere quello di fare attivamente qualcosa. Che non significa necessariamente diventare un attivista, ma quanto meno cercare di frenare il più possibile questi comportamenti, almeno con la cerchia di persone più vicine, parenti e amici.

Ultima domanda, un po’ utopica: se fossimo tutti fossimo femministi, come dice Chimamanda Ngozi Adichie, a quel punto non avremmo più bisogno del femminismo. Secondo te, che mondo sarebbe se effettivamente riuscissimo a raggiungere questo traguardo?
Allora, partiamo col dire che la maggior parte dei teorici che ho studiato dice che la disuguaglianza non si può eliminare del tutto, può essere ridotta soltanto al “minimo accettabile”. Se partiamo da questo presupposto, anche se fossimo tutti femministi, probabilmente le disuguaglianze non verrebbero completamente sradicate. La cosa importante però è organizzarsi collettivamente per cercare una risposta forse non efficace al 100%, ma utile per limitare la disuguaglianza. Oggi questo tentativo quasi non esiste perché quando si prova a farlo c’è sempre una gran discutere, in ogni ambito. Prendiamo di nuovo come esempio il ddl Zan, intorno al quale si sarebbe potuto costruire un bel confronto e invece si è finiti a fare un discorso fazioso.
A me piacerebbe tanto vedere quest’utopia realizzata, anche se ci sarebbero appunto nuove forme di disuguaglianza. Non è facile riuscire a essere empatici a sufficienza per riconoscere le difficoltà dell’altro e ascoltare le sue istanze di riconoscimento. Dipende pure di che tipo di femminismo si parla perché, come abbiamo già detto, sono tanti e c’è una pluralità di opinioni che divergono, che propongono soluzioni diverse. Le istanze delle sex workers, per esempio, riceverebbero, a seconda dei vari femminismi, delle risposte diverse.  Ma, se lo fossimo veramente tutti quanti, forse troveremmo dei meccanismi che renderebbero la risposta alla disuguaglianza immediata. E questa rimane sicuramente una speranza.

Potete trovare il podcast sul sito dei Radicali Italiani, su Spotify, Google Podcast, Apple Podcast e sulle principali piattaforme di streaming audio!

Eleonora Panseri

Libri femministi che tutt* dovremmo leggere (Parte II)

Stufe di romanzi di formazione che, per quanto siano gratificanti da leggere, hanno sempre come protagonista un uomo? È ora di leggere La Vita delle ragazze e delle donne (Lives of girls and women) di Alice Munro. L’autrice canadese è stata premiata con il Nobel per la letteratura nel 2013 ed è considerata una delle più brillanti scrittrici di racconti di tutto il panorama letterario contemporaneo. Il suo primo e unico romanzo parla di Del Jordan, una bambina di 9 anni estremamente acuta e brillante che si scontra con il ritardo culturale dell’Ontario degli anni ’40. Attraverso la sua protagonista, Munro racconta le contraddizioni dell’adolescenza, la scoperta dell’amore e dell’indipendenza. Più che un romanzo, una vera e propria guida alle insidie del percorso per diventare donna attraverso un’analisi profonda e priva di pregiudizi.

Se le persone che vi circondano reagiscono alle vostre crisi di nervi con uno stupito Bastava chiedere!, la raccolta di vignette della fumettista francese Emma dall’omonimo titolo fa al caso vostro (Un autre regard. Truc en vrai pour voir les choses autrement). Aldilà della copertina rosa confetto, è un libro che gli stereotipi li abbatte in modo leggero ed efficace. Le 186 pagine scorrono in poche ore e, alla fine, potrete dire di aver capito cosa si intende per carico mentale. Questo concetto identifica tutti i pensieri che frullano costantemente nella testa delle donne: lavatrice da fare, cena da preparare, figli da andare a prendere, spesa, e si potrebbe andare avanti per ore. Emma spiega che si tratta di un lavoro invisibile che ricade interamente sulle donne: «Secondo l’Insee (l’istituto di statistica francese) le donne ancora oggi dedicano alle faccende domestiche più del doppio del tempo rispetto agli uomini». Da leggere, rileggere e regalare (anche agli uomini).

Un punto sul movimento #MeToo non fa mai male, partire da dove tutto è iniziato può aiutare a chiarire le idee: Predatori (Catch and kill) di Ronan Farrow racchiude tutto ciò che serve. Il giornalista americano ripercorre l’indagine che ha portato all’arresto, e poi alla condanna, del produttore hollywoodiano Harvey Weinstein. Stupri, minacce e violenze psicologiche raccontate dalla voce delle attrici vittime dell’attività predatoria del cineasta. Un testo illuminate per comprendere le complesse dinamiche che si celano dietro alle violenze maschili sul luogo di lavoro. Mille sfumature sulle quali riflettere e un’unica certezza: la vittima non è mai colpevole.

Chiara Barison

(Parte I – 8 marzo: libri femministi che tutt* dovremmo leggere)

8 marzo: libri femministi che tutt* dovremmo leggere (pt. I)

Conosciuta dai più come “Festa della donna”, la Giornata internazionale dei diritti delle donne è stata istituita dall’ONU il 16 dicembre 1977. Sbagliato considerarla come un’occasione per regalare mimose e cioccolatini: l’8 marzo per molti è e per tanti altri dovrebbe essere una giornata per celebrare i successi nella lotta per la conquista della parità di genere e per riflettere su quanto ci sia ancora da fare. Proprio per questo nel post di oggi e in quello che verrà prossimamente proponiamo una serie di testi, dei “suggerimenti di lettura” più o meno impegnativi, utili a conoscere e capire la storia di quell’insieme di dinamiche e pratiche (meglio note come “patriarcato”…) che hanno impedito alle donne di realizzarsi pienamente come individui. Degli spunti di riflessione per capire cosa ancora non va e soprattutto dove si può e si deve fare sempre di più e sempre meglio.

(Parte II – Libri femministi che tutt* dovremmo leggere)


Il secondo sesso di Simone De Beauvoir (1949) e Una stanza tutta per sè di Virginia Woolf (1929): partiamo con due capisaldi della letteratura femminista, testi che non potevano assolutamente mancare in questa lista. Il primo è un lungo trattato filosofico (quasi 800 pagine) che analizza la condizione della donna da un punto di vista storico, sociale, culturale e letterario per mostrare come la tanto decantata “femminilità” non sia una condizione naturale ma un costrutto, una gabbia in cui le donne sono state per secoli rinchiuse e, di conseguenza, controllate (“Donna non si nasce, si diventa“). Secondo De Beauvoir, nel 1949 la liberazione della donna sarebbe dovuta passare dalla conquista dell’indipendenza, soprattutto economica. La stessa indipendenza reclamata vent’anni prima da Virginia Woolf che nel suo famoso saggio tratta il tema dell’esclusione delle donne dal mondo della cultura, della letteratura e, quindi, dalla storia. Per lo più relegate al mondo domestico, impossibilitate ad avere tempo, soldi e una stanza tutta per loro.


Dovremmo essere tutti femministi di Chimamanda Ngozi Adichie (2014): un saggio di poche pagine che in breve tempo è diventato un testo di riferimento per le femministe di tutto il mondo. Adattamento di un TEDx tenuto dall’autrice, questo libro invita tutti, uomini e donne, ad abbracciare la causa femminista. “C’è chi chiede: “Perché la parola ‘femminista’?” Perché non dici semplicemente che credi nei diritti umani, o giù di lì?” Perché non sarebbe onesto. Il femminismo ovviamente è legato ai diritti umani, ma scegliere di usare un’espressione vaga come “diritti umani” vuol dire negare […] che il problema del genere riguarda le donne“.


Manuale per ragazze rivoluzionarie. Perché il femminismo ci rende felici di Giulia Blasi (2018): questo libro è stato una vera e propria rivelazione. Ironico, molto arrabbiato ma anche scritto con la convinzione che tante cose possano e debbano cambiare, questo Manuale offre una serie di esempi pratici per riconoscere e combattere il sessismo (anche quello benevolo) nel quotidiano. E invita tutt* a non accettare mai quei compromessi che sembrano rendere la vita più semplice ma che, al contrario, rischiano di portare la situazione delle donne indietro di decenni: “Siamo arrivate a un punto di svolta: un punto in cui se accettiamo di giocare secondo le regole siamo finalmente ammesse alla mensa dei patriarchi per nutrirci del poco cibo che ci viene allungato. Ma il femminismo non si siede al tavolo con il patriarcato: il femminismo lo rovescia, il tavolo“.


Odio gli uomini di Pauline Harmange (2021): uscito recentemente in libreria, questo breve saggio ha scatenato il caos. Pubblicato da una piccola casa editrice, accusato di misandria e minacciato di censura dal consigliere del Ministero per le Pari Opportunità francese Ralph Zurmély, Odio gli uomini è stato distribuito in 17 paesi e ha venduto in pochissimo tempo decine di migliaia di copie. “Le donne passano un sacco di tempo a rassicurare gli uomini che no, non li odiamo. E in cambio ogni cosa resta al suo posto”: Pauline Harmange, 26 anni, volontaria in un centro per il supporto alle vittime di stupro, sfoga tutta la sua rabbia contro quel genere maschile che giustifica, tacciando le femministe di estremismo e misandria, la totale assenza di azioni concrete in favore delle donne e volte allo smantellamento del privilegio maschile. Un saggio di poche pagine ma duro, durissimo, decisamente da leggere.


Gli uomini mi spiegano le cose. Riflessioni sulla sopraffazione maschile di Rebecca Solnit (2014): vivere una vita da donne può essere faticoso e complicato. E, come descrive Solnit in questo interessante saggio, può esserlo ancora di più quando a queste capita di incontrare uomini che spiegano loro ogni cosa, invece di ascoltare, riflettere e rispettare un punto di vista diverso. Uomini che adorano “fare la paternale” in presenza di una donna per ingigantire ancora di più, se possibile, il loro già enorme ego: “Alcuni uomini spiegano le cose, a me come ad altre donne, indipendentemente dal fatto che sappiano o no di cosa stanno parlando. Mi riferisco a quell’arroganza che, a volte, mette i bastoni tra le ruote a tutte le donne, in qualsiasi settore, che le trattiene dal far sentire la propria voce e che schiaccia le più giovani nel silenzio insegnando, così come fanno le molestie per strada, che questo mondo non appartiene a loro”.


Liberati della brava bambina. Otto storie per fiorire di Maura Gancitano e Andrea Colamedici (2019): in molte delle narrazioni del passato e del presente le “donne cattive“, quelle che non si sottomettono e che si autodeterminano, sono spesso mostrate come esempi negativi. Le stesse donne che nel suo famoso podcast Michela Murgia ha meravigliosamente definito “morgane“. In questo libro, Gancitano e Colamedici scelgono otto donne e le loro storie, Era, Medea, Daenerys, Morgana, Malefica, Difred, Elena, Dina, e decidono di rileggerle in chiave femminista. Un libro per capirsi e riscoprirsi libere e potenti.


Ragazza, donna, altro di Bernardine Evaristo (2019): uscito l’anno scorso, questo romanzo raccoglie le storie di 12 donne: nere e di sangue misto, alcune appartenenti alla comunità lgbtq+, di età ed estrazione sociale molto diverse. Ognuna di loro è legata all’altra grazie ad uno splendido intreccio narrativo, anche se i vari racconti possono essere letti singolarmente. Storie dolorose, di violenza e frustrazione, e allo stesso tempo storie di riscatto e di successo. “Io non sono una vittima, non trattarmi mai come una vittima, mia madre non mi ha cresciuta per farmi diventare una vittima”, dice una delle protagoniste e in queste poche righe sta il fil rouge del testo che tratta temi importanti e attuali, come quelli della misoginia, del razzismo, dell’omofobia, in una prospettiva intersezionalista fortemente politica ma mai pesante o retoricamente vuota. Evaristo ci offre spunti di riflessione per analizzare il passato ma, soprattutto, ripensare il futuro.

Eleonora Panseri

P.s. Tra i più bei testi femministi del 2019 c’è anche il libro di Caroline Criado Perez, Invisibili. Da leggere assolutamente, ne abbiamo parlato QUI.

Vivere da “Invisbili”

A chi crede che oggi il femminismo non abbia senso o che sia lesivo per la società e per le donne stesse bisognerebbe far leggere questo libro. Non è un testo semplice ma deve essere annoverato tra gli “essenziali” per capire come molte rivendicazioni del movimento femminista non siano semplicemente frutto del delirio collettivo di una massa informe di pazze.
Caroline Criado Perez, scrittrice, giornalista e attivista, ha pubblicato “Invisibili” l’anno scorso, una riflessione che di astratto non ha nulla. Nelle oltre 400 pagine di questo saggio, forse uno dei migliori del 2020, l’autrice parla di dati. O, meglio, di dati raccolti che non vengono presi in considerazione. In una realtà come quella in cui viviamo oggi i data sono strumenti essenziali e lo sono sempre stati perché è proprio sulla base di queste informazioni che costruiamo il mondo che ci circonda.

Cosa c’entra tutto questo con il femminismo?
La risposta ce la dà direttamente Criado Perez nella sua Prefazione:

“La storia dell’umanità, così come ci è tramandata, è un enorme vuoto di dati”.

L’autrice parla di quel fenomeno, il gender data gap, la mancanza di dati di genere, che impedisce alle donne di vedersi realmente rappresentate nelle società in cui vivono e operano. E se, come si legge nel libro, doversi vestire pesante anche in estate perché l’aria condizionata è regolata in base alla media della temperatura dei corpi maschili o dover compire uno sforzo per raggiungere i prodotti posti su scaffali che per un uomo sono di un’altezza adatta ma troppo alti per le donne possono sembrare cose “stupide”, paranoie femminili, decisamente più grave è “avere un incidente su un’auto con dispositivi di sicurezza che non tengono conto delle misure femminili” o “avere un attacco di cuore che non viene diagnosticato perché i sintomi sono considerati “atipici”.

Questa assenza di dati il più delle volte non è intenzionale, ci mancherebbe. Ma negare cocciutamente che questa disparità non esista è pura follia.

“La mia tesi è che il vuoto dei dati di genere sia al tempo stesso causa ed effetto di quella sorta di non-pensiero che concepisce l’umanità come quasi soltanto maschile”,

dice Criado Perez. E chi sostiene il contrario si troverà in difficoltà di fronte alla mole di dati raccolti dall’autrice e divisi per temi. Dalla vita quotidiana a quella pubblica e nei luoghi di lavoro, dalla salute alla rappresentazione femminile, la realtà viene filtrata attraverso quei numeri che spesso continuano a non essere considerati e che potrebbero invece aiutare ad avvicinarci di più ad un mondo paritario.

Leggete questo libro, parlatene, continuate a lottare se credete che ci siano ingiustizie che non possono e non devono continuare ad esistere. Questo libro Caroline Criado Perez lo dedica a tutte noi:

Per le donne che non mollano: siate sempre maledettamente difficili”.

Eleonora Panseri

Regola numero uno del lockdown: non guardare vecchie serie tv

È di questi giorni la conferma dell’uscita di un sequel di Sex and the City, telefilm cult degli anni 2000: si chiamerà “And just like that…” e seguirà la vita di 3 delle quattro protagoniste della serie originaria.

Ora, qui scatta una grande domanda, e non si tratta di valutare se bannare Trump dai social media sia giusto o sia una lesione della libertà di espressione. La questione è: ci serve davvero l’ennesima serie fintamente femminista nel 2021? Non ho la soluzione universale al problema, ma di sicuro mi sono fatta un’idea, e da donna voglio condividere il mio rapporto di amore e (più recentemente) odio con questa serie per rispondere.

Ho 15 anni e sono iscritta al liceo Classico di una cittadina di provincia del Piemonte orientale che mi sta terribilmente stretta. Ho mille sogni nel cassetto e altrettante ambizioni rinchiuse nell’armadio. I fighetti vanno in giro con degli improbabili jeans Richmond con l’inequivocabile scritta RICH stampata sul sedere (non negatelo, è come la mutanda con l’elastico logato di Calvin Klein… l’abbiamo fatto tutt*.)

Il mio telefilm preferito è Sex and the City (non era ancora uscito Lost, non giudicatemi). Carrie Bradshaw, la protagonista, 30enne bionda magrissima, scrive un editoriale su “The New York Star” dove parla di sesso, cuori spezzati et similia, vive a Manhattan, ha più scarpe che fidanzati e va in giro con le stesse borse firmate che ogni tanto vedo anche nell’armadio di mia madre (e che puntualmente le rubo, scusa mamma).

Insomma il dream factor di questa serie colpisce e rapisce quell’adolescente un po’ superficiale e illusa che è in me.

Ho 31 anni, è un pomeriggio di metà novembre, affronto l’ennesimo momento di lockdown dell’anno e, tra lo scocciata e l’annoiata, accendo la tv. La rivelazione: su Sky Atlantic trovo Sex and the city, la serie completa. Emozionata, decido di iniziare una maratona della serie che ha segnato la mia adolescenza. Seleziono la prima puntata della prima serie e incomincio.

In un secondo torno nel 1998, il pilot esce il 6 giugno* ed è una serie rivoluzionaria perché per la prima volta sul piccolo schermo compare, signori e signori…la donna single! Anzi, ancora meglio.

La donna single indipendente, con un buon lavoro, che le permette addirittura di mantenersi da sola accumulando baguette di Fendi e vestiti disegnati da John Galliano. La donna single che in macchina da sola, allo sportello del drive-in, chiede “un cheeseburger, patatine grandi e un Cosmopolitan”. La donna single che osa addirittura parlare di sesso in modo disinibito, di uscire con un uomo una mezza sera, che se lo porta a letto e il mattino dopo lo restituisce al mondo, o dove l’ha trovato, dimenticandoselo per sempre. La donna che nella secolare diatriba “donna riproduttrice / produttrice” sceglie di ignorare gli istinti materni per dedicarsi alla carriera.

Tra l’altro Carrie Bradshaw è talmente moderna che lavora da casa (nel suo piccolo ma meraviglioso bilocale nel West Village, ça va sans dire) con quella bomba del suo Macbook, quando noi eravamo ancora i fedelissimi di quei pc squadrati, pesanti, brutti, di quell’orripilante grigio antracite ed è quindi antesignana dello “smartworky contiano”, passatemi il neologismo.

Ora, dimentichiamoci per un attimo di alcune incoerenze devastanti che riporterò con la stessa brutalità con cui gli autori ce le hanno sbattute in faccia all’epoca: Carrie scrive quattro righe al mese su un giornale, ma vive a Manhattan, compra scarpe da 400$ a paio (quattrocento dollari, nei primi anni 2000), frequenta locali e feste esclusive e concediamoglielo, ogni tanto ammette di avere il conto in rosso (guarda un po’!) ma continua imperterrita la sua vita scintillante, e beata lei!, mi permetto di aggiungere.

Torniamo a noi. Dicevamo: vent’anni fa è una serie innovativa. Oggi…no. Quindi il punto è: cosa non funziona oggi della serie e perché io, che mi sento fortissimamente donna, sento l’esigenza di condividere alcune questioni che mi hanno scosso.

Il problema fondamentalmente è a monte, ed è molto semplice: è scritta da un uomo, Darren Starr, e di conseguenza il punto di vista è maschile.

Le protagoniste sono tratteggiate secondo i soliti cliché: Carrie e le sue amiche sono quattro gnocche (scusate il francesismo) super perfette in tutto. Io sono una normalissima single che non cambia pettinatura ad ogni stagione (i miei capelli sono lunghi e spettinati dal 1989), che deve rinunciare all’ennesimo paio di scarpe firmate perché una persona che si mantiene da sola non si può permettere di vedere il conto in rosso, che apprezza anche le relazioni complicate per non annoiarsi troppo ma si stufa comunque di un uomo in 30 ore massimo, e che nonostante vada a correre per km da anni, inizia a intravedere i primi segni di cellulite.

Alle certezze granitiche che Carrie poeticamente scrive sul suo spazio media contrappongo insicurezze quotidiane e indovinate un po’? Neanche un terzo delle mie problematiche è dovuto agli uomini (come diceva Jay Z, “I got 99 problems but the man ain’t one”. No, forse non faceva così ma comunque…).

E ho tantissime amiche che stanno costruendo carriere grandiose senza l’aiuto di nessuno, che si risolvono i loro problemi da sole, rimboccandosi le maniche, e che vivono benissimo con o senza un uomo (pazzesco, no?). E farò nomi perché è arrivato il momento di supportarci e valorizzarci, sempre: Giulia, Sofia… forse non ve lo dico mai, mea culpa!, ma a voi va il mio più grande moto di stima.

Ma torniamo a Carrie e al suo mondo dorato. Non esiste ancora il movimento Me too, ma siamo nel 1998 (il 1968 è passato da trent’anni ma la situazione rimane questa), e la posizione sociale della donna ce la vuole raccontare…un uomo. Per citare Rebecca Solnit, che scrive meglio di me, sintetizzerei il tutto con…”gli uomini che spiegano le cose”. Con la prospettiva di oggi parleremmo di mansplaining, o il “minchiarimento” di murgiana memoria. Il Post lo definisce come “l’atteggiamento paternalistico di alcuni uomini (ma non solo) quando spiegano a una donna qualcosa di ovvio, oppure qualcosa di cui lei è esperta, perché pensano di saperne sempre e comunque più di lei oppure che lei non capisca davvero.” Qui l’articolo in cui se ne parla, e qui potete trovare un “bell’esempio” recente: il caso “Parrella-Augias” che ha coinvolto la scrittrice Valeria Parrella, Giorgio Zanchini e Corrado Augias. Gli ultimi due sono giornalisti, a mio parere, validi e indubbiamente competenti ma sulla questione femminista hanno fatto obiettivamente un fin troppo evidente scivolone. E, non senza una certa arroganza, in questi momenti dovremmo rispondere: “Scendi dal piedistallo, tu sei un uomo e, quindi, questa questione vorrei spiegartela io”. Visto che abbiamo subito il patriarcato per secoli, se una volta ogni tanto vi spieghiamo noi qualcosa, miei cari uomini, va bene così.

Il punto è: gli uomini possono parlare di femminismo? Si, certo. Devono. Vogliamo sapere il loro punto di vista. E abbiamo bisogno di uomini femministi. Ma devono abbandonare quell’atteggiamento saccente che si portano dietro dalla notte dei tempi, perchè sulla questione non ne sanno più di noi. Esempio pratico: io, donna bianca e privilegiata, dall’altro della mia fortuna, posso parlare di “Black Life Matters”? Probabilmente si e sinceramente mi sento in dovere di supportare questo movimento. Ma posso mai permettermi di spiegarlo ad una donna di colore che subisce il suo destino da millenni? Assolutamente no.

Un’altra tematica che ho sempre sottovalutato, ma questa volta non mi sono fatta sfuggire: il rapporto tra donne. La narrazione è fortemente stereotipata, per usare un eufemismo. Le 4 amiche si supportano tra loro, hanno un rapporto così perfetto che può esistere solo ed esclusivamente nella finzione cinematografica: il tipo di rapporto che forse alcune di noi vorrebbero avere con le loro amiche. Ma la cosa che mi colpisce di più (in negativo, sia chiaro) è la cattiveria con cui scagliano giudizi nei confronti delle altre donne, avvalorando quel tremendo cliché che vede le altre donne come le più temili nemiche delle donne. Se non fai parte del mio ristretto gruppo sociale, sei la nemica. Terribile.

E infine, quello che ha definitivamente distrutto il mito: la realtà è che, tra alti e bassi, cuori più o meno spezzati, relazioni più o meno lunghe e più o meno significative, tutte e quattro le protagoniste cercano, per ben sei stagioni e due film, il grande amore della loro vita e si sposano. Se questa cosa non vi ricorda niente, vi dico io con una parola sola che cosa ricorda a me. Patriarcato.

L’obiettivo della donna, anche se indipendente, è quello: accasarsi. Vogliamo veramente tutte solo questo? Il grande amore da sposare un giorno?

Tra l’altro Carrie, la super esperta di sentimenti, alla fine sceglie proprio lui, “Mr Big”, il gran figo che mette sempre davanti il suo lavoro a tutto il resto, quello che la prende e la lascia mille volte, quello che ogni tanto è così inebetito e indifferente che viene lasciato perché non ha neanche voglia di lasciare, quello che alla fine le chiede di sposarla e la abbandona all’altare senza nessuna ragione (se non quella narrativa di riempire due ore di film, voglio sperare).

E no, questa non è una relazione romantica, non è un amore struggente, M.r Big non è Heathcliff, e Carrie non è “una di noi“. Questo è proprio un messaggio sbagliato (del resto mi piace ricordarlo di nuovo, la serie l’ha ideata un uomo). E ragazze: se un uomo vi tratta così, per favore, non accettate questo tipo di comportamento. Il mio consiglio è di riportarlo dove molto probabilmente l’avete trovato: nel cassonetto del non riciclabile.

Ho passato l’adolescenza a sognare Carrie, le sue amiche, le sue gambe perfette, il suo guardaroba, la sua Saddle di Dior, il suo Mac, il suo lavoro, New York, i Cosmo, i taxi che si fermano con uno schiocco delle dita, i discorsi osé di Samantha, Mr. Big, Hayden, la fuga d’amore a Parigi…

Oggi a pensarci impallidisco. Sono sicura che, se la donna che sono diventata oggi avesse visto Sex and the city quindici anni fa, probabilmente avrebbe abbandonato tutto alla seconda puntata. Sicuramente chi sostiene la tesi secondo la quale questa serie sia femminista risponderebbe a qualsiasi mio commento con una frase del genere: “Ricordiamoci che è una serie del 1998.”

Vero. Ma vorrei comunque ribattere, e lo farò nel seguente modo.

1929, Virginia Woolf pubblica “Una stanza tutta per sé”.

Era femminista quando è stato pubblicato? Si.

Lo si può considerare tale anche oggi? SI.

1949, Simone de Beauvoir pubblica “Il secondo sesso”.

Era femminista allora? Si.

Lo è ancora oggi? SI.

Leggere per credere. Non capisco se la serie sia anacronistica, se siamo cambiate, se il mondo è diverso da 15 anni fa e la dinamica femminista negli ultimi anni si è fortunatamente evoluta. Forse, come canta Mia Martini “quando la moda cambia, la gente cambia”. E io, che sono indubbiamente cambiata, non sono più tanto sicura che una serie così faccia bene a noi donne. Quindi reiterare questi messaggi attraverso una serie sequel forse non è una scelta femminista. Anzi. E tu, mia cara Carrie Bradshaw, perdonami, ma sei esattamente il tipo di donna che io oggi non voglio essere.

*(una nota: in Italia, la nazione in cui si arriva sempre in ritardo su ogni cosa, va in onda il 10 marzo 2000, non ridiamo).

“Lucky” o l’apologia della brava ragazza

«Molti di noi hanno uno scopo che non scelgono, ma che al contrario va a stanarli con l’ostinazione tipica di questo genere di fenomeni. Sottrarsi a questo non era possibile, per il mio bene e per quello di tutte le vittime ridotte al silenzio dalla vergogna o da imperativi familiari o culturali».

Alice Sebold aveva solo 18 anni quando, diretta verso la residenza universitaria di Syracuse in cui alloggiava, è stata aggredita e violentata da uno sconosciuto. Nel suo libro c’è tutto il dolore dell’evento in sé, compresa la tragicità del riviverlo per farne una testimonianza che sia di aiuto per gli altri.

“Lucky”, fortunata, così è stata definita dal poliziotto che raccolse la sua deposizione quella notte del 1981. Nello stesso luogo un’altra ragazza prima di lei fu uccisa. «Uno stupratore può violentare non solo il corpo ma anche la mente – spiega Sebold – se potessi avere una gomma magica e cancellare quella notte lo farei in un batter d’occhio».

Nonostante tutto, Sebold riesce a scorgere l’abbozzo di una benedizione: l’autrice si sofferma ad analizzare il ruolo che l’estrazione sociale delle parti in causa ha avuto nel processo. Lei infatti è bianca, benestante, istruita e all’epoca dello stupro fu accertato che fosse ancora vergine.

Al contrario, il suo aggressore era povero, nero e con precedenti penali. Anche se sembra assurdo, la verginità e il suo abbigliamento pudico giocarono un fondamentale ruolo a suo favore.

Detto questo, il processo fu tutt’altro che una passeggiata. Emotivamente devastante, le conseguenze hanno prodotto strascichi in tutte le pieghe dell’esistenza di Sebold: alcol, eroina, relazioni tossiche, sindrome da stress post traumatico. Nonostante la condanna del suo violentatore, parla della vittoria come «una condizione fuggevole, balena per un attimo e poi si spegne».

E provoca i lettori: «Prendete lo stesso identico caso e provate a invertire i ruoli. Esempio: lo stupratore è un professionista bianco appartenente alla classe media o alta e proviene da una famiglia rispettabile. Violenta una prostituta filippina transessuale in una camera d’albergo. Il delitto è esattamente lo stesso, ma le possibilità che l’imputato venga condannato? Nemmeno lontanamente paragonabili».

P.s.: vale la pena di leggere anche “Amabili resti”, altro capolavoro di Sebold. Nel 2009 ne è stato tratto un film con Saoirse Ronan nei panni della protagonista.

Chiara Barison

Le profonde radici della misoginia

Da Eva che mangia il frutto proibito, Pandora che apre il vaso con tutti i mali del mondo, fino allo stoicismo nemico dei piaceri (quindi delle donne): la lista delle persecuzioni a danno del genere femminile è parecchio nutrita. «Nessun gruppo al mondo è mai stato attaccato così a lungo e in maniera così feroce», parola di Guy Betchel, storico francese che prima espone dettagliatamente la demonizzazione della donna che precede l’epoca dei roghi, salvo poi affermare che d’altronde si bruciavano vivi anche gli uomini. Giungendo alla conclusione che no, la caccia alle streghe non è una manifestazione di misoginia.

La giornalista svizzera Mona Chollet, nel suo “Streghe. Storie di donne indomabili dai roghi medioevali al #MeToo”, rivela invece tutto il contrario: «La strega incarna la donna libera da ogni dominio, da ogni limitazione; è un ideale cui tendere, e ci indica il cammino». In questa frase c’è tutto ciò contro cui combattono le donne da sempre. Il dominio maschile, che pretende di controllare tutti gli aspetti della realtà. E le limitazioni, conseguenza della minaccia all’ordine precostituito dal maschio. Tra le oppressioni più cruente troviamo proprio la caccia alle streghe.

Iniziata in Europa tra il XVI e il XVII secolo ad opera dei tribunali civili, ha dato vita a strampalati quanto agghiaccianti processi. I patti con il diavolo costituivano l’accusa più comune e della quale era praticamente impossibile dimostrare il contrario. Così facendo, l’85 per cento delle sentenze erano di condanna, a morte ovviamente. Dopo giorni di torture, il rogo arrivava quasi come una liberazione.

Ma se parlare di streghe nel 2021 può sembrare anacronistico, Chollet spiega come il loro martirio abbia influito sulla visione del mondo che abbiamo ancora oggi.

Tra le accusate di stregoneria troviamo principalmente nubili e vedove, quindi donne considerate pericolose in quanto non più subordinate ad un uomo. Nessuna differenza con lo stigma associato alla donna single.

Per non parlare della criminalizzazione dell’aborto e della contraccezione. Proprio le streghe venivano etichettate come “antimadri” e accusate di cibarsi di bambini durante i loro riti malefici.

«La vecchiaia delle donne resta, in un modo o nell’altro, brutta, vergognosa, minacciosa, diabolica», prosegue Chollet. Per le donne anche invecchiare è una colpa: il prototipo della strega infatti è anziana, ricurva su se stessa, dalle mani nodose e deformi. Per evitare questo impietoso destino, i trattamenti anti-età offerti dal mercato sono infiniti, per non parlare del business che ruota intorno alla chirurgia estetica. Invece gli uomini invecchiando migliorano, e se stanno con una ragazza molto più giovane tanto meglio…

Si arriva fino alle illustri streghe che hanno avuto l’ardire di entrare in politica: prima Margaret Thatcher, alla cui morte non si è persa occasione per intonare “Ding dong, the witch is dead!” del Mago di Oz, poi Hillary Clinton, che durante la campagna elettorale del 2016 è stata spesso paragonata a un’arpia.

«La forza degli stereotipi e dei pregiudizi può avere in sé qualcosa di profondamente demoralizzante; ma è anche una possibilità per tracciare nuovi percorsi. È un’occasione per assaporare le gioie dell’insolenza, dell’avventura e della scoperta», in queste parole di Chollet un’esortazione da cogliere al volo, ancora meglio se a cavallo di una scopa.

Chiara Barison

Partenogenesi: quando il maschio non è indispensabile

Emma Dante, da abile artista poliedrica, ha portato sul palco la partenogenesi con la forza che solo una provocazione può avere. Letteralmente dal greco παρϑένος “vergine” e γένεσις “generazione”, indica un modo di sviluppo dell’uovo che prescinde dalla fecondazione. Invertendo il sesso tra i Medea e Giasone di Euripide la Dante crea un paradosso: lei è l’uomo che rinfaccia di non averle chiesto il permesso di sposare un’altra donna. Lui invece esprime il desiderio di procreare da solo, attribuendosi una capacità esclusivamente femminile. Che un uomo parli di partenogenesi è quasi un affronto.

Gli esempi di partenogenesi in natura sono diversi: le più famose a ricorrervi sono le api. L’ape regina esercita un controllo capillare sulle nascite decidendo se ha bisogno di più femmine operaie o di maschi: nel primo caso fa fecondare le uova, nel secondo invece attua la partenogenesi. Infatti, limitandosi i maschi all’attività riproduttiva o poco più, ne è sufficiente un numero minore rispetto alle laboriose femmine. In questo modo, si riesce a mantenere un equilibrio perfetto misurato sulle necessità dell’alveare.

Ma veniamo al genere umano. Molte donne si imbattono in un dilemma insormontabile: il desiderio di maternità frustrato dal non aver trovato un partner adatto. Anche se è biologicamente impossibile, proviamo ad immaginare un mondo in cui le donne possano decidere di tramandare il proprio patrimonio genetico in totale autonomia. Intendo una totale autonomia: nessuna donazione di gameti, ma una vera e propria autoclonazione. Partenogenesi, come le api. Fantastico no? Basta sentirsi fare la ramanzina dalla zia di turno che, siccome ha sopportato a malincuore il marito per cinquant’anni, non si capacita del fatto che tu non sia riuscita a trovare un uomo con il quale procreare. D’altronde, i cinque figli che le ha donato sono la luce dei suoi occhi. Annichilirsi per stare accanto ad un uomo è un concetto che va sempre meno giù alle nuove generazioni di donne. Costituire una famiglia composta da madre e figlio/i farebbe quindi gola a tante.

Ma il sesso? Beh, nulla toglie che si continui a praticare a scopo ludico. Puro divertimento, fatto alla maniera che agli uomini è concessa da secoli. “Tanta ginnastica e poche responsabilità”, sicuramente è questo il motto di chi tramanda il proprio patrimonio genetico senza assumersene la paternità. La maternità invece molte donne vorrebbero prendersela a piene mani senza interferenze maschili, come il Giasone di Emma Dante.

In tutto questo, però, bisogna dare a Cesare ciò che è di Cesare. I maschietti che decidono di farsi carico del ménage familiare sono sempre di più. Ultimamente abbiamo assistito a licenziamenti illustri: Mr. Zalando ha lasciato la co-presidenza del colosso dello shopping online per occuparsi dei figli permettendo alla moglie, giudice, di coltivare la propria carriera. Poi c’è Douglas Emhoff, marito della Vicepresidente eletta degli Stati Uniti Kamala Harris, che ha deciso di lasciare il prestigioso studio legale del quale era partner. Si parla di privilegiati, questo è vero, ma i comuni mortali si accontentano di molto meno. Basterebbe un congedo di paternità ben pensato, così da permettere alle madri, se non di arrivare a ricoprire prestigiose cariche, almeno di garantirsi l’indipendenza economica per la quale le nostre nonne hanno lottato tanto. Ma, soprattutto, non rimpiangere di non essere nate api.

Chiara Barison