Cosa ci ha lasciato questo 8 marzo

Un’altra Giornata internazionale dei diritti delle donne è passata e come ogni anno necessita forse di qualche momento di riflessione. Purtroppo, anche l’8 marzo 2022 è stato viziato dalla solita zuccherosa retorica “rosa”, ormai trita e ritrita. In occasione di questa ricorrenza, così importante per alcun* e così redditizia per altr*, viene profuso un impegno incredibile nel produrre un florilegio di spot, manifesti, iniziative e simili che posizionano le donne su un piedistallo dal quale vengono automaticamente spinte giù nei restanti 364 giorni dell’anno.

Come avviene anche per il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne (ricordiamo che dall’inizio del 2022 ne sono state uccise 13, l’anno scorso sono state 119), i toni usati prevalentemente sono quelli, da un lato, della “specie protetta da difendere” (le donne, per esempio, si trasformano in fiori da curare), dall’altro, delle “wonder womaninvincibili. A queste, e qui cito, “magnifiche creature” viene ricordato il loro ruolo di madri, sorelle, compagne e amiche e ci si chiede: “Che mondo sarebbe senza le donne?“.

Non abbiamo la risposta a questa domanda. Invece sappiamo bene qual è la situazione di un mondo dove le donne esistono. Secondo Eurostat, nel 2021 la retribuzione oraria delle donne europee è stata del 13% inferiore rispetto a quella dei colleghi uomini. E nello stesso anno, come si legge in un articolo de La Stampa, in Italia è stata uccisa una donna ogni 72 ore. Nel 2020 invece, secondo un’indagine condotta da Save the Children su adolescenti tra i 14 e i 18 anni, il 70% delle ragazze intervistate dichiarava di aver subito molestie nei luoghi pubblici e apprezzamenti sessuali e il 64% raccontava di essersi sentita a disagio per commenti o avance da parte di un adulto di riferimento. Nel Rapporto Donne Manageritalia 2020, poi, si legge che le donne in posizione dirigenziale erano, solo due anni fa, il 18,3% del totale, poco meno di 1 su 5. Un dato che, tuttavia, non stupisce se, nello stesso anno, le donne italiane svolgevano 5 ore e 5 minuti di lavoro non retribuito di assistenza e cura al giorno (gli uomini un’ora e 8 minuti), il 74% del totale. Ed è forse anche per questo che il 21% delle donne in età lavorativa dichiarava di non essere disponibile o di non ricercare lavoro attivamente proprio a causa dell’impegno totalizzante che la cura della casa, di bambini e anziani richiede loro.

Di fronte a questo quadro decisamente desolante (meno male che siamo nel XXI secolo, dicono alcuni), celebrare i successi delle donne non è forse così sbagliato, anzi. Farlo regalando la mimosa, poi, è senza dubbio un gesto da apprezzare. Sarebbe però ancora più bello se chi ne fa dono conoscesse anche la storia di questo simbolo. Il fiore venne scelto nel secondo dopoguerra su proposta di Teresa Mattei, ex partigiana e dirigente del Partito Comunista Italiano (PCI), in prima linea per tanti anni nella lotta per i diritti delle donne. Insieme a Rita Montagnana e Teresa Noce, scelse un fiore economico, facile da trovare anche in natura, per permettere a tutte le donne di riceverlo. «La mimosa era il fiore che i partigiani regalavano alle staffette. Mi ricordava la lotta sulle montagne e poteva essere raccolto a mazzi e gratuitamente», raccontò Mattei, morta nel 2013 a 92 anni, in un’intervista. «Quando nel giorno della festa della donna vedo le ragazze con un mazzolino di mimosa penso che tutto il nostro impegno non è stato vano».

È proprio dall’impegno di Mattei e delle donne di tutto il mondo che il Women’s Day nacque molti anni prima rispetto ai fatti raccontati poco sopra. Celebrata per la prima volta negli Stati Uniti del 1909, la Giornata della donna fu all’epoca un’occasione per rivendicare il diritto di voto femminile, che in quegli anni veniva negato, e maggiori tutele sindacali. La società dei consumi l’ha poi trasformata nella festa commerciale che conosciamo oggi ma in molt* è ancora forte la consapevolezza che si tratta invece di una giornata di riflessione su quanto è stato fatto o che ancora c’è da fare, una giornata che ha un profondo significato politico.

Equo salario e riforme per una più giusta divisione tra i due sessi del lavoro di cura, tutela della maternità e, allo stesso tempo, del diritto all’aborto, sono solo alcuni dei temi sui quali anche le società occidentali più “avanzate” devono ancora fare passi avanti. E se pensiamo che nel mondo le donne sono ancora vittime di violenze fisiche, psicologiche, economiche, è davvero così strano o poco lecito chiedersi a cosa servono i grandi proclami che vengono fatti in queste occasioni?

Le mimose le accettiamo volentieri, ma anche alcuni diritti in più non sarebbero male.

Eleonora Panseri

2 giugno 1946: il primo voto nazionale delle donne italiane

Monarchia o Repubblica?

La fine della dittatura fascista rappresentò per l’Italia l’inizio di una nuova fase politica.

75 anni fa nasceva la Repubblica italiana ma questa non fu l’unica novità portata da quel 2 giugno.

Per la prima volta in una votazione nazionale venne chiesto anche alle donne di esprimere una preferenza. Le italiane esercitarono il diritto di voto per cui tante avevano lottato (tra loro, la partigiana Marisa Rodano).

Con l’introduzione del suffragio femminile in Italia (il 10 marzo in occasione delle elezioni amministrative) alle donne venne riconosciuto lo status di cittadine a tutti gli effetti, quello fu il primo passo verso una parità che purtroppo non è stata ancora raggiunta.

Tuttavia, le rivendicazioni che vennero dopo, per il diritto all’aborto, il divorzio, la parità salariale, e quelle che verranno partono anche da quel 10 marzo e da quel 2 giugno.

Quando, per la prima volta, le donne uscirono di casa e dissero: “Oggi vado a votare”.

Eleonora Panseri

40 anni fa l’Italia difendeva l’aborto

In Italia, l’interruzione di gravidanza è legale dal 1978. Tre anni dopo la sua entrata in vigore la legge 194 è stata messa in discussione. Da una parte c’erano i Radicali che chiedevano di eliminare il limite dei 90 giorni per ricorrere all’Ivg. Dall’altra, il Movimento per la Vita – di matrice cattolica – che chiedeva l’abrogazione dell’aborto o, in alternativa, che fosse limitato a necessità terapeutiche.

L’acceso dibattito nell’opinione pubblica aveva portato alle urne il popolo italiano per rispondere al quesito di due referendum. Entrambi respinti: la 194 doveva rimanere così come era stata originariamente formulata.

Negli ultimi anni è centrale il tema della pillola abortiva Ru 486 che, nonostante i vantaggi, viene osteggiata su più fronti. Anche in piena pandemia molte strutture ritengono necessario il ricovero, rendendo così il diritto di accesso all’Ivg quasi impossibile.

La nuova frontiera è la telemedicina. Con questo termine si intende l’assistenza medica in forma telematica, in cui il medico assiste la paziente online. Dopo l’assunzione della Ru 486 la donna può essere seguita con videochiamate e messaggi, evitando il rischio di essere contagiata durante la permanenza in ospedale. Cosa stiamo aspettando?

Chiara Barison

“Non tutti gli uomini…”: alcune considerazioni

Quante volte abbiamo sentito dire la frase “non tutti gli uomini”? Trasformata anche in un hashtag, #notallmen, è diventata molto famosa fuori e dentro la rete (un hashtag che è anche recentemente tornato nei trend di Twitter).
È assolutamente vero, bisogna riconoscere che buona parte degli uomini non ha comportamenti criminali nei confronti delle donne, MA CHE FORTUNA! (percepite l’ironia?). Sarebbe allo stesso tempo giusto e più che legittimo però chiedersi se per contribuire al benessere e alla sicurezza di tutte le donne (non solo di quelle che rientrano nella propria sfera di affetti) basti solo non molestare, stuprare, uccidere.

Il “non tutti gli uomini” è, per certi versi, un imbarazzante tentativo di togliersi il noto “sassolino dalla scarpa”. Può capitare che, quando si intavola un discorso su un tema caro al femminismo, alcuni uomini usino questo tipo di retorica per non dover discutere oltre: “Non siamo tutti così, non infastiditeci oltre”. Ma la questione è decisamente più complessa di così.

Quello che questi uomini potrebbero fare non è dire “Non faccio le cose sbagliate che fanno gli altri”, rifiutare quindi in blocco la responsabilità di atti sicuramente individuali che, tuttavia, se inseriti in un contesto ben più ampio, in un’ottica di violenza di genere, possono essere ricondotti a una più comune “responsabilità maschile”. Riflettere su quello che fanno o potrebbero fare di più è invece il nodo essenziale del discorso.

Per molte femministe il contributo degli uomini non è necessario ma, quando si combatte una guerra, possono essere utili anche truppe mercenarie per riuscire a vincere il nemico. Insomma, possiamo farcela da sole ma un aiuto in più non guasterebbe. Il problema è che non tutti ma tanti (ancora troppi) uomini non riescono (o non vogliono) stare zitti e ascoltare. Provare a comprendere chi certe dinamiche le ha vissute per secoli e le vive ancora sulla propria pelle ogni giorno non è una perdita di tempo. Per non parlare della vecchia scusa del “eh, ma voi femministe siete troppo aggressive”, con la quale il più delle volte chiudono qualsiasi canale di comunicazione.

Se lo saranno mai chiesti perché siamo così incazzate?

Rifiutare un confronto o cercare in tutti i modi di mettere in ridicolo il proprio interlocutore quando si tratta la parità di genere o il femminismo; minimizzare una violenza, di qualsiasi genere essa sia (e, no, le molestie per strada e il catcalling non sono “complimenti”), o insinuare che una ragazza “se la sia cercata”; parlare di donne in maniera irrispettosa o mostrare “solo tra amici”, senza necessariamente condividerle su chat/social, foto intime di ragazze che non hanno dato esplicitamente il loro consenso . La lista potrebbe continuare all’infinito. Questi non sono reati ma sono atteggiamenti molto diffusi ed estremamente dannosi perché permettono a un certo tipo di retorica e di pensiero tossico di sopravvivere e di generare i già citati fatti ben più gravi che “non tutti gli uomini” fanno.


La convinzione che la situazione possa cambiare resta, così come la speranza che sempre più uomini dicano: “Cambiamola insieme“.

Eleonora Panseri

Abortire in Italia

L’aborto o Ivg (interruzione volontaria di gravidanza) in Italia è stato depenalizzato solo nel 1978 con l’introduzione della legge n. 194. Fino a quel momento era possibile trovarlo nel codice penale tra i “reati contro l’integrità e la sanità della stirpe”. In poche parole, era più importante garantire un seguito al popolo italiano che tutelare la vita e la salute delle donne.

Questi concetti, letti con la sensibilità di oggi, possono sembrare anacronistici e superati. Bisogna però considerare che il reato di procurato aborto si inseriva nel codice penale entrato in vigore nel 1930, in pieno ventennio fascista, un periodo che dava moltissima importanza alla questione della razza. Oggi troviamo ancora l’aborto come reato se procurato senza il consenso della donna oppure causato da una condotta colposa.

Dopo anni di lotte e morti a causa del ricorso a pratiche clandestine, la legge 194 del 1978 registra il cambio di passo. Le donne non vogliono più essere madri a tutti i costi, ma si fa strada il concetto di maternità come scelta. Soprattutto tra le classi più povere, le donne non potevano permettersi di avere troppi figli perché questo avrebbe impedito loro di lavorare.

Ma cosa prevede di preciso la legge?

Innanzitutto, il principio cardine è la tutela della salute fisica e psichica della donna, di conseguenza la gravidanza può sempre essere interrotta in caso di grave pericolo per la vita della gestante o del feto. Significa che nel caso in cui venissero diagnosticate patologie incompatibili con la vita, oppure malformazioni che potrebbero rendere rischioso portare a termine la gestazione, è possibile ricorrere all’Ivg in qualsiasi momento.

In assenza di fattori di rischio, il diritto di interrompere la gravidanza è garantito entro e non oltre i primi 90 giorni dall’inizio della gravidanza che decorrono dall’ultima mestruazione.

Oltre alla possibilità di abortire chirurgicamente, nel 2009 è stato introdotto il cosiddetto aborto farmacologico attraverso l’assunzione della pillola Ru486. La pillola abortiva non deve essere confusa con la pillola del giorno dopo. La seconda è infatti un contraccettivo d’emergenza ed è possibile acquistarla in farmacia senza ricetta medica. Deve essere assunta possibilmente entro le 24 ore dopo il rapporto a rischio e impedisce la fecondazione.

Al contrario, la pillola abortiva Ru486 può essere somministrata solo in caso di accertato stato di gravidanza e costituisce una valida alternativa all’aborto chirurgico. I dati che emergono dall’ultima relazione del Ministero della salute sono però sconfortanti: solo il 21% delle donne italiane ricorre all’Ivg farmacologica contro una percentuale che sfiora il 100% in Finlandia.

Tenuto conto dei minori rischi per la salute della donna, anche solo in termini d’invasività della procedura, la bassissima percentuale si spiega tenendo conto di due fattori. In primo luogo, la maggior parte delle Regioni prevede un regime di ricovero ordinario fino all’espulsione del prodotto del concepimento. Inoltre, a differenza degli altri Paesi europei, fino a poco tempo fa in Italia era possibile ricorrere alla RU486 solo entro le 7 settimane invece di 9. Le linee guida del Ministero della salute sono state aggiornate in tal senso solo nel mese di agosto 2020.

Quanto ai luoghi, la legge prevede che ogni donna possa abortire rivolgendosi alle strutture sanitarie pubbliche: in pratica, non è così. Visto l’altissimo numero di ginecologi obiettori di coscienza, in alcune zone d’Italia la 194 è quasi lettera morta. Secondo quanto riportato dall’associazione Luca Coscioni, fino al 2017 in Lombardia gli obiettori di coscienza erano circa il 66 per cento. Questa situazione porta le donne a rivolgersi a medici che praticano l’aborto privatamente, costringendole a sostenere un costo che per alcune può essere un deterrente.

Le stime parlano di un dato che oscilla tra le 10 e le 13 mila donne l’anno che evitano le strutture ospedaliere per interrompere una gravidanza. Insomma, in Italia l’Ivg non è per tutte e in alcuni casi comporta una selezione su base censitaria.

Chiara Barison

La libertà di essere (o non essere) madre

Ieri sera il Senato ha confermato con 156 voti favorevoli la fiducia al governo Conte bis. Anche se la maggioranza relativa non renderà le cose facili all’esecutivo, l’Italia tira un sospiro di sollievo. Quello che però colpisce, in un’ottica femminile e femminista, sono le parole pronunciate dal leader della Lega Matteo Salvini. Durante il suo intervento, l’ex ministro ha tuonato: “il nostro modello sono i centri d’aiuto alla vita, non le pillole abortive regalate per strada a chiunque”.
Così poche parole, così tante cose sbagliate.

La maternità è da sempre “croce e delizia” delle donne di tutti i tempi e di ogni parte del mondo. Croce perché la storia le ha relegate (e spesso ancora le relega) al ruolo esclusivo di genitrici, privandole della possibilità di occuparne di diversi, etichettando quelle che non riuscivano o non volevano avere figli come delle disgraziate, come angeli ribelli in un paradiso dove la norma doveva essere “donna = madre e basta”. Delizia perché le donne che vogliono e scelgono di diventare madri accettano questo ruolo con una dedizione infinita, bellissima ma spesso al limite del martirio, viste le difficoltà che devono affrontare, cose che paradossalmente spesso non riguardano anche i padri (nonostante, bisogna dirlo, un figlio si faccia IN DUE).

Le parole del ex ministro dell’Interno non solo insultano la libertà delle donne di scegliere il destino dei loro corpi, una libertà sacrosanta, ma allo stesso tempo proseguono la lunga tradizione della “caccia alle streghe” sul tema dell’interruzione di gravidanza.
L’aborto in Italia non è reato, se eseguito nei modi e nei tempi stabiliti dalla legge. E la pillola abortiva non viene “regalata per strada”. Nel nostro paese e in tutto il mondo sono morte milioni di donne, prima che l’interruzione di gravidanza fosse legale. Questa veniva praticata (e in alcuni paesi è ancora così) con ferri da calza e altri oggetti che provocavano emorragie letali o problemi di salute per tante (troppe) donne. La legge 194 ha impedito ad altre di fare la stessa orribile fine. Perché, no, le donne non vogliono e NON DEVONO per forza essere madri. Le donne che decidono di abortire non sono mostri ma semplici esseri umani che come tutti hanno il diritto di autodeterminarsi in quanto individui nella società in cui vivono.  

Le donne che scelgono la maternità devono essere allo stesso modo rispettate e aiutate. Lo Stato dovrebbe dare loro tutto quello di cui hanno bisogno per sostentare i loro figli, dovrebbe non costringerle a scegliere tra una carriera e il loro ruolo di madri, dovrebbe educare tutti alla parità di genere e al rispetto di chi assume su di sé, uomini e donne, l’immenso compito di educare una generazione futura (a questo proposito, trovate QUI la petizione lanciata da “Il giusto mezzo”, il gruppo di donne che ha avanzato la proposta di destinare il 50% dei fondi del “Next Generation EU”, in Italia meglio conosciuto come “Recovery Fund“, a politiche a favore dell’occupazione femminile, della lotta alla disparità di genere e della creazione di servizi sulla cura della persona, dall’infanzia alla terza età, ).

È molto facile fare politica, urlare slogan “in favore delle donne e della vita”, quando si è uomini. E soprattutto quando si vive in un paese dove il corpo delle donne è continuamente strumentalizzato e sessualizzato ma la sessualità femminile è un tabù. Non si parla di educazione sessuale nelle scuole e quella all’affettività non si sa nemmeno cosa sia. Però abortire non si può e non si deve fare. Perché? Perché lo ha deciso Matteo Salvini? L’ex ministro è mai stato una donna? Sa cosa significa esserlo oggi?

Un’opinione è tale quando non lede la libertà di chi la pensa diversamente e le parole pronunciate ieri sono l’ennesimo attacco a chi difende rispettosamente la propria. Essere prochoice non significa disprezzare la vita ma affermare il diritto all’aborto legale e sicuro e riconoscere che la maternità non può essere imposta a chi, per mille motivi, non può o non se la sente di portare avanti una gravidanza. E, allo stesso tempo, lottare affinché chi vuole essere madre lo sia senza incontrare enormi difficoltà sul proprio cammino.

Non è ancora ben chiaro come in un paese che si definisce civile queste due cose siano incompatibili.  

Eleonora Panseri

Non uno stigma, non un lusso e nemmeno una scelta: parliamo di mestruazioni

Regolare o irregolare, lungo o breve, con flusso abbondante o scarso, preciso come un orologio svizzero o in preoccupante ritardo: il ciclo mestruale può avere più d’una di queste caratteristiche e nell’arco di 40 anni, una donna avrà circa 520 cicli. Fino all’arrivo della menopausa, una volta al mese, dovrà dare il benvenuto alle non sempre gradite (dipende dai casi) mestruazioni, che l’accompagneranno per diversi giorni. Si tratta, in primis, di un evento fisiologico, una cosa naturale, un “fenomeno ciclico, tipico delle femmine dei mammiferi placentali”, per usare una definizione più “tecnica”. Ma per molte donne queste sono una seccatura non indifferente, principalmente per due ragioni.

La prima è lo stigma che lo circonda. Fateci caso, difficilmente questo viene chiamato con il proprio nome: dal classico “sei diventata una signorina!” agli irritanti “ma hai le tue cose?!?” e “per caso, sei “indisposta”?”, il termine “mestruazioni” sembra essere una cosa che ad alta voce non si può dire. È capitato a tante donne, almeno una volta nella vita, di trovarsi sprovviste di assorbente al primo giorno di ciclo ed essere costrette a chiederlo ad amiche e conoscenti (anche a sconosciute, se la situazione lo richiede!). Quante hanno mantenuto e mantengono un tono di voce normale nel formulare questa richiesta? Quelle che possono rispondere affermativamente alla domanda sono davvero poche. Perché?
Nella maggior parte dei casi, per non incorrere nella derisione o nel disgusto di una buona parte della controparte maschile che costringe le donne a vivere questo naturale momento della vita come qualcosa di imbarazzante o sconveniente per mancanza di attenzione e sensibilità riguardo l’argomento. Dal menarca alla menopausa, il terrore di macchiare in pubblico vestiti o superfici su cui si è sedute è costante per tutta la durata delle mestruazioni. Perché non basta l’aver macchiato, a volte irrimediabilmente, un bel paio di pantaloni ma a questo bisogna aggiungere le occhiate o, peggio, le battute di amici e conoscenti.
Purtroppo, non si tratta di casi isolati ma di una mentalità che interessa tutta la società. Nel 2015 Rupi Kaur, giovane poetessa, scrittrice e illustratrice canadese di origine indiana, si è vista cancellare una delle foto pubblicate sul suo profilo Instagram perché questa violava le linee guida del social. La ragazza era semplicemente ritratta sdraiata e di spalle, con i pantaloni e le lenzuola del letto macchiate di sangue mestruale. Una foto censurata perché ancora oggi le mestruazioni vanno tenute nascoste, come se fossero una sorta di colpa, qualcosa di cui vergognarsi quando, in realtà, potrebbero essere considerate come un malanno stagionale o una gravidanza, a parità di “naturalità”. Ma perché, se quando una donna è incinta lo si grida ai quattro venti, è invece così strano e assurdo parlare liberamente di e avere le mestruazioni?

Il secondo punto che rende problematica la convivenza con queste “simpatiche” amiche è la questione “Tampon Tax, ovvero la tassazione sui prodotti per l’igiene intima femminile. Sono all’incirca 12.000 gli assorbenti che una donna consuma nell’arco della propria vita. E questa spenderà all’anno mediamente 126 euro, visto che il prezzo per una confezione si aggira intorno ai 4 euro. Di questi, 22,88 andranno allo Stato come imposta sul valore aggiunto perché nel nostro paese questo tipo di prodotti non sono considerati un bene di prima necessità e vengono tassati con un’aliquota al 22%, alla stessa stregua di beni di lusso, bevande, abbigliamento, prodotti di tecnologia o per la casa e automobili. A stabilire la classificazione dei prodotti in commercio in Italia suddivisa per fasce di imposta è un decreto del Presidente della Repubblica del 1972: tra i beni con un’Iva inferiore al 10%, e quindi considerati necessari, ci sono carne, birra, cioccolato, tartufo, merendine, francobolli da collezione, oggetti di antiquariato. Basilico e rosmarino sono tassati al 5%; latte e ortaggi, occhiali o protesi per l’udito al 4%, insieme con volantini e manifesti elettorali. Una domanda sorge spontanea: se le mestruazioni sono qualcosa di inevitabile, può una donna fare a meno degli assorbenti?
In Italia, secondo i dati Istat sulla povertà del 2019, “sono quasi 1,7 milioni le famiglie in condizione di povertà assoluta con una incidenza pari al 6,4% (7,0% nel 2018), per un numero complessivo di quasi 4,6 milioni di individui (7,7% del totale, 8,4% nel 2018)”. Ciò significa che mantenere le tasse sugli assorbenti così alte è qualcosa di profondamente ingiusto, una pratica che incentiva la cosiddetta “period poverty” ed è lesiva del diritto alla salute delle donne che faticano ad affrontare le spese per il loro sostentamento, per le quali gli assorbenti non possono e non devono essere un lusso.

In Europa sono diversi i paesi virtuosi in materia di “Tampon Tax“: nel primo mese del 2021 il Regno Unito ha rinunciato alla tassa sugli assorbenti, unendosi all’Irlanda e alla Scozia che durante l’anno appena conclusosi ha deciso di rendere universale e gratuito l’accesso ai prodotti per l’igiene intima femminile.
In Italia sono molte le associazioni che tentano di sensibilizzare sul tema, anche attraverso i social network. “No Tampon Tax Italia“, per esempio, si occupa interamente di questo argomento (su Instagram e su Facebook) e qualche anno fa l’associazione “Onde Rosa“, insieme a “Weworld”, ha lanciato una petizione, “Stop Tampon Tax, il ciclo non è un lusso!” che ad oggi conta quasi 500.000 firme (fai la cosa giusta, clicca qui e firmala anche tu ;)). Le associazioni studentesche dell’Università La Statale di Milano sono riuscite, per la prima volta in Italia, a far installare distributori di assorbenti a prezzi calmierati (20 centesimi l’uno) all’interno delle sedi di città Studi, via Festa del Perdono e via Conservatorio.
In più, dal novembre 2019, l’Iva è stata ridotta al 5% sugli assorbenti biodegradabili e compostabili. Tuttavia, questi rappresentano solo l’1% dei prodotti in commercio e sono poche le donne che vi fanno ricorso.

Nei primi giorni del mese di gennaio in Italia ha visto la luce la nuova legge di bilancio nella quale la tassazione sugli assorbenti è rimasta purtroppo invariata.
Si può continuare a fare finta che il problema non esista? O che per le donne le mestruazioni siano una scelta?
La risposta è soltanto una: assolutamente no.

Eleonora Panseri

*Per saperne di più sull’argomento:
Dataroom di Milena Gabanelli: “Il tartufo è un bene primario, gli assorbenti no“;
European Data Journalism Network: “Iva sugli assorbenti femminili: la metà dei Paesi Ue li tratta al pari di sigarette e alcolici”;
Qualcosa di Buono:Assorbenti a basso costo alla Statale di Milano: quand’è che aboliamo la Tampon Tax?

Ode alle streghe

Qualche giorno fa io e Chiara ci siamo ritrovate insieme a riflettere su uno dei personaggi più famosi del folclore italiano, la Befana, e nel giorno a lei dedicato, il 6 gennaio, ci è anche sembrato giusto restituire spazio ad un’altra figura ad essa vicina che nei secoli è stata a lungo temuta e vessata, quella della strega.
Se ci pensiamo bene, Babbo Natale e la Befana fanno, con alcune piccole variazioni, la stessa cosa: durante le feste portano doni ai bambini buoni, puniscono invece quelli che si sono comportati male. Entrambi sono molto vecchi, esistono praticamente da sempre, ma l’anzianità del primo non viene percepita come sgradevole; quella della seconda le dà, al contrario, un aspetto trasandato (tant’è che il termine è entrato nell’uso comune per definire una donna non avvenente). Dunque, tirando un po’ le somme, la Befana è una vecchia e, quindi, brutta, fondamentalmente una strega, che porta carbone a chi non si merita i dolci. Non stupisce il fatto che Babbo Natale le venga di gran lunga preferito…

Ma chi l’ha detto che le streghe sono orrendamente vecchie e sempre malvagie?
Come ci racconta Mona Chollet nel suo libro Streghe. Storie di donne indomabili: dai roghi medievali al #metoo, l’immagine della strega come la conosciamo oggi arriva da un passato non troppo recente. La lotta alla stregoneria portata avanti dall’Inquisizione ha fortemente contribuito a crearla ed è stata più volte riproposta senza essere, se non di recente, oggetto di rilettura.
Gli stessi classici Disney con i quali molte di noi sono cresciute hanno al centro della storia lo scontro fra bene e male, incarnati rispettivamente dalla principessa e dalla strega. La seconda, guarda caso, è sempre cattiva, destinata ad essere sconfitta, mai dalla principessa sua vittima ma sempre dal valoroso principe (sulla storia del “principe che ci salva sempre” non voglio dilungarmi ora, forse lo farò prossimamente…). Solo negli ultimi anni sono stati realizzati prodotti culturali e d’intrattenimento nei quali ci sono principesse che possono talvolta essere “cattive” (pensiamo ad Elsa di “Frozen”, per esempio) e che “si salvano da sole”. In alcuni casi vengono aiutate da personaggi maschili che possono dare una mano alle protagoniste. Queste, tuttavia, (e grazie al cielo, aggiungerei) riescono ugualmente, con o senza aiuto, a realizzare grandi imprese: un bel messaggio per le bambine di oggi che possono riconoscersi in queste eroine e iniziare a considerare il loro ruolo non accessorio, il loro contributo fondamentale.

Ma torniamo alle nostre streghe…

Crescendo e studiando la storia, quella con la S maiuscola, abbiamo avuto modo di rivedere la narrazione che ci è stata proposta. La figura della maga esiste praticamente dalla notte dei tempi: sacerdotesse, guaritrici et similia sono state e sono ancora presenti in molte società con un valore tutt’altro che negativo. I secoli durante i quali ha operato l’Inquisizione sono stati riconosciuti come uno dei periodi più bui della storia dell’Occidente, nel quale quest’istituzione si è “divertita” a perseguitare e processare migliaia di persone, principalmente donne. Lo ha raccontato anche la giornalista Ilaria Simeone nel suo libro “Streghe. Le eroine dello scandalo”, nel quale ricostruisce tre processi per stregoneria della fine del ‘500, del ‘600 e ‘700.
Per quasi cinque secoli, dal 1326* al 1782** (è del 1487 il “Malleus Maleficarum”, il “Martello delle streghe”, testo cardine della caccia alle streghe), le accuse rimasero praticamente invariate: essere in combutta con il demonio, operare sortilegi mortiferi, avere costumi sessuali non conformi con altre streghe e stregoni o con animali e creature demoniache. Nonostante molte di queste fossero pure illazioni, a seguito di torture atroci molte donne furono costrette a confessare azioni mai compiute (le condanne arrivavano anche in assenza di confessione e, come già detto, di prove). Quelle che venivano considerate colpevoli erano punite con l’allontanamento dai luoghi in cui erano nate e cresciute, marchiate con orribili mutilazioni e, nel peggiore dei casi, uccise sul rogo.

La verità tuttavia è che tante “streghe” erano tutt’altro che persone malvagie o emarginate: non tutte vivevano ai limiti della società, alcune facevano addirittura parte della nobiltà. L’unica loro “colpa” era quella di non essere quello che ci si aspettava dal loro genere in quell’epoca. Le vittime della “caccia alle streghe” erano levatrici, balie e guaritrici, a cui tanti si rivolgevano per i motivi più disparati, donne che non si facevano mantenere ma che guadagnavano il proprio denaro e che venivano accusate di praticare la stregoneria quando qualcosa andava storto, se un bambino nasceva morto o se il sortilegio d’amore che avevano fornito a chi lo aveva richiesto non sortiva gli effetti desiderati. Erano vedove che avevano deciso di non risposarsi, cosa che non si addiceva alle donne per bene in una società dove queste erano ancora considerata un “bene” posseduto da un uomo. Streghe erano anche quante per mestiere o libera scelta avevano tanti partner sessuali.
Insomma, donne considerate scomode perché volevano autodeterminarsi e non essere definite da altri, perché volevano rispondere delle proprie azioni e non essere dipendenti da qualcuno. In un’epoca in cui, purtroppo, tutto questo non era accettato; un’epoca dove bastavano pettegolezzi e maldicenze per farle processare e condannare a morte.

Fortunatamente, tante cose sono cambiate da allora ma le violenze, fisiche e psicologiche, che tante donne in cerca della loro libertà subiscono ogni giorno e in ogni parte del mondo dimostrano che forse non lo sono poi così tanto e che la strada da percorrere è ancora lunga.
Di donne libere ed emancipate, e temporalmente più vicine ai giorni nostri, hanno parlato Michela Murgia e Chiara Tagliaferri nel podcast “Morganache raccoglie storie di donne “fuori dagli schemi, controcorrente, strane, pericolose, esagerate, “stronze”, difficili da collocare, donne che vogliono piacersi e non compiacere”. Murgia stessa definisce le protagoniste di queste storie “molto streghe”, utilizzando il termine non per demonizzarle ma per omaggiarle.

Abbiamo già detto che sono tanti i passi avanti fatti (QUI quelli del 2020 e QUI trovate un omaggio per alcune donne che durante l’anno appena trascorso sono state “molto streghe”, per riprendere le parole di Murgia). Le cose stanno ancora cambiando, seppur molto lentamente, e meno male!, vorrei aggiungere.
Piccoli grandi cambiamenti per cui dobbiamo essere grat* e che sono il risultato dell’azione di quant* si sono accorti che l’essere donna non poteva e non doveva continuare ad essere vista come una condizione di inferiorità, che hanno dedicato e spesso sacrificato le loro vite in favore di tante battaglie giuste.
Le femministe (e i femministi!) di tutte le ondate e le persone che, pur non definendosi tali, ogni giorno combattono per costruire un mondo migliore, più inclusivo e paritario, sono modern* “streghe” e “stregoni”. Sono persone di tutte le età, di tutte le nazionalità, di tutte le estrazioni, spesso percepite come strane e pericolose: spaventano per le loro idee innovative perché in molti sensi stravolgono un mondo che per secoli ha continuato a funzionare in questo modo. Persone che vengono condannate sui moderni roghi della morale e del buon senso ma che non si vergognano di dire quello che pensano, che chiedono di cambiare quelle regole che hanno costretto una parte della società a nascondersi e limitarsi.

E quando mi chiedono che tipo di donna voglio essere, non dico più, come facevo da bambina, che vorrei essere “una principessa (da salvare)” (anche se mio padre si ostina a chiamarmi in questo modo: ti voglio bene lo stesso, papà!).
Oggi dico che voglio essere forte e indomabile come una strega.

Eleonora Panseri

P.s. Suggerisco la visione della puntata del programma “Il tempo e la storia” condotta da Massimo Bernardini e con la presenza in studio dello storico Alessandro Barbero dedicata alla caccia alle streghe.

Note:
*l’anno in cui la stregoneria venne considerata dalla Chiesa come forma di eresia.
**data dell’ultimo processo per stregoneria.

“No è no”: cultura dello stupro e consenso

Avete mai pensato a come cambierebbe il mondo per il genere femminile (e per quello maschile) se vivessimo in una società meno permeata dalla rape culture, la “cultura dello stupro”?

Penso spesso a tutto questo e al fatto che sostituire la prevaricazione sistemica con una “cultura del consenso”, parola di cui si parla davvero spesso negli ultimi anni, sia una delle possibili soluzioni al problema. Anche se è comprensibile il fatto che non è possibile distruggere il patriarcato dal giorno alla notte – in fondo, stiamo parlando di un sistema che esiste praticamente da sempre, come ha egregiamente raccontato Simone De Beauvoir nel suo “Il secondo sesso” -, questo non deve esimerci dal credere che un cambiamento sia necessario.

Nel testo del 1993Transforming a Rape Culture”, Emilie Buchwald, Pamela Fletcher e Martha Roth definiscono la “cultura dello stupro” come

“(…) un complesso di credenze che incoraggiano l’aggressività sessuale maschile e supportano la violenza contro le donne. Questo accade in una società dove la violenza è vista come sexy e la sessualità come violenta. In una cultura dello stupro, le donne percepiscono un continuum di violenza minacciata che spazia dai commenti sessuali alle molestie fisiche fino allo stupro stesso. Una cultura dello stupro condona come “normale” il terrorismo fisico ed emotivo contro le donne. Nella cultura dello stupro sia gli uomini che le donne assumono che la violenza sessuale sia “un fatto della vita, inevitabile come la morte o le tasse”.


Credo che il concetto così esposto sia assolutamente chiaro ma alcuni esempi di situazioni dove questo tipo di prevaricazione si palesa in maniera lampante o più sottile possono aiutare a comprendere meglio quello che Buchwalk, Fletcher e Roth sono riuscite a definire.

Il femminicidio e lo stupro (o il tentato stupro) sono le manifestazioni più evidenti della violenza di tipo fisico che l’uomo esercita sulla donna. A queste si aggiungono le molestie (sì, anche il catcalling), i ricatti sessuali, lo stalking, il revenge porn (quando materiale privato viene condiviso con terzi senza che gli attori ripresi siano d’accordo per vendetta o altri motivi ad essa legati), il victim blaming (sostenere che una survivor, una vittima di uno stupro, “se la sia cercata”) ed altre forme di violenza psicologica o economica che inficiano pesantemente la libertà e la serenità delle nostre vite.

Se osserviamo attentamente i vari fenomeni elencati qui sopra notiamo come manchi in ognuno di essi un elemento essenziale: il consenso. Lo ammetto, può sembrare un parolone ma se spiegato con l’aiuto della fidata Treccani si rivela in realtà un concetto molto semplice: “il consentire che un atto si compia” e ancora “permesso, approvazione”.

Nonostante mi sembra che fin qui la questione sia abbastanza chiara, tenterò di semplificarla ulteriormente. Non so voi, ma ho avuto spesso la sensazione che l’uomo venga cresciuto, non soltanto in famiglia – sarebbe bello, bastasse questo – ma anche dalle istituzioni e dai prodotti culturali di ogni epoca, con la convinzione che la sua virilità dipenda e sia direttamente proporzionale alla quantità di “sì” che riceve. In televisione è stato passato per anni lo spot (QUI trovate la versione dell’85) di un dopobarba che recita: “per l’uomo che non deve chiedere mai”…dovrebbe bastarci questo. La donna di conseguenza, in quanto controparte maschile, si trova a dover reprimere dei “no” perché l’essere accondiscendente e, in un certo senso “sottomessa”, le farà ottenere validità agli occhi degli uomini. Quante volte vi siete sentite dare dell’“acidona” o della “suora” nel momento in cui avete negato la vostra disponibilità all’altro sesso? Le donne che dissentono, guarda un po’, sono sempre “puntigliose“, “pesanti“, “rompiscatole“. Invece loro, gli uomini, “sono fatti così”, “boys will be boys”: impossibile che cambino, “essere uomini” è la loro natura e la giustificazione a qualsiasi scorrettezza. Prima lo impariamo, meglio è.
C’è anche un altro grande classico che alimenta questo tipo di narrazione: quante volte vi è capitato di sentire che “se ti tratta male è perché le piaci” o che una ragazza che ti dice “no” magari sta solo “facendo la difficile”? Questo in molti casi porta tanti a persistere nel tentativo di “conquistare” donne che, nel pieno delle loro facoltà mentali, li hanno rifiutati chiaramente dal giorno uno.
Ora, fatte tutte queste premesse, i concetti di “cultura dello stupro” e consenso si spiegano quasi da soli.

Io non riesco più a stupirmi davanti a chi sostiene che un determinato modo di vestire può in qualche modo mandare dei segnali ambigui e che quindi, più o meno direttamente, una minigonna giustifica uno stupro. La verità è che non bisogna arrivare a tanto, il “mondo là fuori” ci fa sperimentare diversi tipi di violenza che prescindono da femminicidi e stupri ma che possono esserne al tempo stesso causa e preludio. Finché ci sarà qualcuno che definirà “complimenti” quando parliamo del disagio che proviamo nel dover sopportare occhiate, versi e commenti di ogni tipo mentre camminiamo per strada; finché ci saranno persone che chiameranno “semplici avances” le attenzioni insistenti non richieste o non ricambiate che ci vengono rivolte sul luogo di lavoro, di studio o sui social; finché un partner, occasionale o meno, ci farà pressioni per avere rapporti sessuali che non vogliamo, lo stupro o il femminicidio saranno solo la punta dell’iceberg. E se alla voce delle donne venisse dato lo stesso peso di quella degli uomini, se un “no” pronunciato da una donna venisse considerato semplicemente come un “no” (cosa che avviene quotidianamente alla controparte maschile), se le donne non venissero considerate prede da conquistare, trofei da esibire, incapaci di esprimere la propria volontà – il proprio consenso, appunto-, una cosa come il victim blaming non esisterebbe.

C’è da rivedere dunque un intero sistema e per fare questo ci vorrà molto tempo, senza dubbio. Il primo passo però è sicuramente quello che va verso una maggiore consapevolezza, nostra e degli uomini. Noi dovremmo iniziare a dire quei “no” che potrebbero farci apparire meno desiderabili: un “sì” ottenuto con la violenza, di qualsiasi tipo esso sia, non ci farà stare meglio (fidatevi, parlo per esperienza). Il coraggio e la forza necessari, quelli che servono anche a tantissime survivors, dovremmo poterli trovare, in primis, nella solidarietà femminile di cui spesso si sente parlare ma che altrettanto spesso manca. E sarebbe bello se gli uomini aprissero gli occhi sul problema, lavorassero su se stessi per iniziare ad accettare il fatto che il rifiuto non li rende “meno uomini” e capissero che “no è no” pure se a dirlo è una donna.

Eleonora Panseri

P.s. Il 25 novembre l’Istat ha pubblicato un quadro informativo integrato sulla violenza contro le donne molto interessante. Vi lascio QUI il link, se avete voglia di capire attraverso i dati quali sono le proporzioni del fenomeno in Italia.

A cosa servono (davvero) le quote rosa

Con il termine “quote rosa” si intende un provvedimento, solitamente temporaneo, che ha lo scopo di riequilibrare la presenza di uomini e donne nelle sedi decisionali (Cda, sedi istituzionali elettive, ecc…) rendendo obbligatoria la presenza femminile. Si mira così a ridurre la discriminazione di genere consentendo alle donne di sfondare il glass ceiling (soffitto di cristallo), ossia la barriera invisibile che impedisce alle donne di accedere a incarichi prestigiosi.

In Italia, il termine stesso è impregnato di stereotipi. Le quote sono state colorate di rosa, il colore femminile per definizione. Sono rosa i vestiti delle bambole, rosa i romanzi a portata di intelletto femminile e definiti rosa pure i farmaci in grado di liberare dalle sofferenze mestruali. Un modo per farci vivere una vie en rose quando la situazione reale è invece piuttosto noire.

Se le donne non sono al potere, non saranno rappresentate politicamente, e se non sono rappresentate politicamente significa che non riescono a raggiungere i vertici. Un cane che si morde la coda.

Innanzitutto, chiamarle gender quotas all’anglosassone rende molto più chiaro il loro reale compito: non favorire le donne in quanto tali, ma garantire un’eguale partecipazione dei generi ai tavoli decisionali. Di fatto, sono norme antidiscriminatorie nei confronti della categoria sottorappresentata (ahimè, le donne). Questo non significa che prescindano dal merito: il motto è “Equality = Quality”. La parità è sinonimo di qualità. E no, non c’è discriminazione al contrario: ogni posto occupato da una donna grazie all’imposizione delle quote rosa, se queste non ci fossero, sarebbe ricoperto da un uomo. Sia chiaro, non perché più capace, ma perché maggiormente rispondente alle logiche del potere maschilista alla base della nostra società. Proprio per questo le quote non solo non sono la soluzione definitiva, ma devono essere accompagnate da altre misure.

Il principale nemico della donna al potere è proprio il ruolo di angelo del focolare che le viene affibbiato da sempre. La distribuzione diseguale del lavoro domestico e i numerosi stereotipi di genere dissuadono le donne dall’intraprendere una carriera all’interno di una società o in politica.

Perché no, le donne non sono una minoranza, ma sì, devono essere tutelate. Il paradosso del secolo, che vede il genere femminile come una specie in via d’estinzione che potrà salvarsi solo grazie alla protezione dei virili ma premurosi maschi, può trovare la sua fine ribaltando la prospettiva. La politologa inglese Rainbow Murray propone di non presentare il problema come una carenza di rappresentazione femminile ma piuttosto come un eccesso di rappresentanza maschile. Così facendo, le quote non sarebbero più il numero minimo di posti riservati ai rappresentanti di un sesso ma, al contrario, un limite massimo da non superare per garantire una situazione di parità. Un cambiamento in tal senso permetterebbe di percepire le donne come una componente della dialettica politica al pari degli uomini, e non come “ulteriori” da proteggere alla stregua di una minoranza.

Nonostante le donne costituiscano la metà della popolazione italiana, solo un terzo ricopre cariche politiche nazionali. A livello locale si arriva a malapena a un quinto. Un primo significativo passo è stato compiuto dalla Consulta che, con sentenza n. 49/2003, ha superato il principio di parità astratta affermato nel 1995. Sempre nel 2003 la riforma costituzionale ha cambiato il testo dell’art. 51 della costituzione (che stabilisce il principio della parità dei sessi nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive) integrando la previsione dell’adozione di appositi provvedimenti per la promozione delle pari opportunità tra donne e uomini. Con l’obbligo legislativo delle “quote rosa nei Cda” introdotto nel 2011, oggi il 40 per cento dei membri di consigli di amministrazione e di collegi sindacali in società quotate in borsa deve essere femminile. Sul versante politico il cambiamento è stato attuato solo nel 2012. Questo ha permesso il salto da un misero 13 per cento del 1994, all’odierno 36 per cento di presenza femminile nel nostro Parlamento.

Il problema però persiste a livello di potere decisionale. Troppo poche le donne alla presidenza delle commissioni parlamentari, fondamentali per l’iter legislativo (e quindi decisionale). Se il legislatore non è anche donna le leggi non saranno mai abbastanza inclusive.

Chiara Barison

Le donne e le arti: tutto è permesso ma nulla conta

“Chi le capisce è bravo”: il più grande luogo comune di sempre. Noi donne siamo misteriose, chiuse, “dolcemente complicate”. E siamo state tenute nascoste per bene, prima che iniziassero a capirci e si accorgessero che siamo anche valide. Infatti, nei secoli una gran parte dei personaggi memorabili è uomo. E spesso lo siamo tutt’ora…


Quante donne ci sono nei libri di storia? Nelle antologie di letteratura e di filosofia?
Quanti teoremi portano un nome di donna?
Quante prime ministre?
E potrei andare avanti così per ore.

Da donna c’è questa cosa che mi domando sempre: perché in secoli di cultura, arte, scrittura, etc… ci sono così poche donne note?
Sicuramente una coincidenza. Oppure esiste davvero qualcuno che crede che per ogni Dante, per ogni Shakespeare, per ogni Picasso non possa esistere un corrispettivo femminile?

Ammettiamolo, sì, fa male ma è vero: l’accesso alla formazione superiore è stato negato alle donne di qualsiasi estrazione sociale per secoli. Potremmo essere capaci di scrivere “La Divina Commedia” senza studiare letteratura? No. E quando abbiamo avuto la possibilità di studiare si trattava comunque di un privilegio delle élite. Mentre sappiamo che alcuni grandi autori passati alla storia arrivavano anche da ceti sociali inferiori, non elitari.
E se teniamo conto del fatto che le donne hanno avuto accesso all’istruzione più elevata, da quanto? Un centinaio di anni? Mi piacerebbe esser viva tra altri 100 anni per riprendere questi temi e fare un confronto.
Ora, facciamo quella cosa divertente che si fa a volte ma che spesso si preferisce ignorare perché i numeri rendono le cose molto più evidenti: contiamo.

Facciamo un giro alla Pinacoteca di Brera (VIRTUALE, QUI). Ho contato 3 donne: Fede Galizia, Marianna Calevarijs, Antonietta Raphael de Simon Mafai. Quasi quasi spero di aver visto male e di non averne contate altre per errore mio, accecata dal nervoso. Infatti, per gli uomini ho smesso quando sono arrivata a 58. La disparità mi sembrava già abbastanza evidente e ormai mi borbottava anche il colon (e, comunque, basta uno scroll sulla pagina per vedere che si va ben oltre i 58 artisti…).

Prendiamo la musica, oggi apparentemente più egualitaria di altre arti e, come dice Marina Abramovic, in una gerarchia artistica, la più elevata di tutte. Facciamola facile e consideriamo solo la musica moderna (perché se torniamo indietro nel tempo la situazione è tragica: in anni di studio di pianoforte, in mezzo agli spartiti di Chopin, Bach, Beethoven, Mozart, ricordo solo una compositrice, Clara Wieck Schumann, che è pure passata alla storia con il nome del marito!).
A prescindere dalle disparità di trattamento nell’industria musicale, dalla credibilità, dai sacrifici che si chiedono alle donne ma non agli uomini, guardiamo solo il risultato finale. Aprite Spotify e selezionate la vostra ultima playlist: quante canzoni cantate/scritte da donna e quante da uomini ci sono?
Io amo il cantautorato italiano ma indovinate un po’ nelle playlist tematiche di Spotify quante cantautrici troviamo? Ve lo dico io, c’è spazio per una sola: Carmen Consoli. L’unica in un mondo di uomini, brava da lacrime agli occhi e più sottovalutata di Samuele Bersani (e tra l’altro confesso che “En e Xanax” è stata la canzone che più ho ascoltato nel 2020, maledette statistiche di Spotify che mi fanno notare che anche se non vuoi rischi di essere maschilista perché il patriarcato è talmente radicato nel mondo di oggi che abbatterlo è difficile pure se ti definisci “femminista”!). Vi prego, ditemi che la vostra ultima playlist è composta al 100% da canzoni di Beyoncè e fatemi felice.

E parliamo di letteratura, il mio argomento preferito.
Si pubblicano tante donne, vero. Si pubblicano da tanti anni, vero. Ma vengono prese in considerazione come gli autori? No.
Non guardiamo il mercato per un attimo, ma concentriamoci sulla qualità delle opere. Analizziamo il premio per eccellenza della letteratura italiana, lo Strega: 11 vincitrici e 72 vincitori dalla prima edizione del 1947 (e se la disparità non vi sembra abbastanza, pensate che ci sono anni in cui non c’è neanche una scrittrice candidata). E facciamo pure i loro nomi, perché sono immense e se lo meritano: Elsa Morante, Natalia Ginzburg, Anna Maria Ortese, Lalla Romano, Fausta Cialente, Maria Bellonci, Maria Teresa di Lascia, Dacia Maraini, Margaret Mazzantini, Melania Mazzucco, Helena Janeczek.
Sottovalutate e mai considerate degne abbastanza, c’è sempre quel “pff, l’ha fatto una donna” come sottofondo maschilista ad ogni opera. Ed è tutto causa e conseguenza. Si leggono poche donne, perché se ne pubblicano poche. In libreria si vendono poco e nelle classifiche dei libri più venduti non ne appaiono troppe, diciamocelo. Quindi, se il mercato non le recepisce, non si pubblicano ma, se non si pubblicano, non c’è possibilità di vendere. Si apre allora un circolo vizioso che dovrebbe essere interrotto. Ma come e quando non è ancora chiaro.

A conti fatti, una sola domanda: MA PERCHE’?
Credo sia estremamente difficile dare un’unica risposta che tenga conto della moltitudine di fattori che in millenni di storia ci portano a questi risultati.
E probabilmente è proprio questo il punto: la storia ci insegna che ci hanno tenuto nascoste e ci hanno considerate inferiori. La situazione sta forse cambiando negli ultimi anni ma con una lentezza pachidermica che da donna più o meno giovane faccio fatica ad accettare.
E siamo oneste: nonostante millenni di storia, i primi movimenti femministi nascono negli anni ‘60. Come possiamo pensare di ribaltare completamente la situazione in meno di un secolo? I cambiamenti epocali sono tali perché effettivamente ci mettono epoche ad avvenire.

Siamo forse pronti ad accettare che una donna sia valida quanto un uomo? Siamo pronti ad accettare che una donna possa scrivere un romanzo migliore di uomo? Possiamo accettare che una donna sia preparata tanto quanto, se non più di un uomo? Forse no. Ma dobbiamo incominciare a farlo ora.

Ci hanno tenuto nascoste, è vero, ma ci siamo, abbiamo valore, siamo brave tanto quanto gli uomini. Abbiamo fatto la storia anche noi, pure se non emergiamo nei libri di scuola. Abbiamo aspettato secoli che ci rivalutassero e ci considerassero degne a prescindere dagli uomini (non è Simone de Beauvoir ad essere l’ombra di J.P. Sartre, ma allo stesso tempo è lei che si è presa l’onere di mettere a punto “La Nausea” fino a renderlo uno dei capisaldi della letteratura francese del ‘900, lo sapevate?).

Confesso che sogno da sempre che dietro Elena Ferrante ci sia un uomo perché, dopo secoli in cui noi donne ci nascondiamo dietro pseudonimi maschili, vorrei tanto che un uomo sentisse la necessità di nascondersi dietro un nome di donna per essere riconosciuto come uno dei massimi scrittori italiani contemporanei.
E vi assicuro che siamo stufe di esser considerate meno di un uomo, di esser viste come quelle inferiori e di leggere articoli di giornale che fanno notare che ogni tanto siamo “brave come un uomo“, che siamo mamme prima che professioniste, che il Nobel per la letteratura l’ha “vinto una donna” e non “Louise Gluck, Poetessa”.

di Eleonora Scialo,
milanese di fatto, ma non di nascita, una laurea in economia per lavorare nell’azienda di famiglia ma a 31 anni non è ancora sicura sia quello che vuole fare da grande. O forse lo sa e sta lentamente aprendo il cassetto per liberare il suo sogno. Arriva sempre in ritardo per colpa del suo cane ed è femminista non estremista.

Molestia e corteggiamento: differenze

Correva l’anno 2018 quando Catherine Deneuve, con un centinaio di donne francesi, firmava una lettera per contestare la caccia alle streghe innescata dal #MeToo. L’attrice incorreva nel solito errore: l’inversione del carnefice con la vittima. Anche se sono passati due anni, credo che questo argomento non sia mai troppo dibattuto, anzi, forse troppo poco. Già allora avevo provato a pensare a una risposta, questo è il risultato:

Gentili Madame Deneuve e simpatizzanti,

penso che la libertà di corteggiare nulla abbia a che fare con il diritto delle donne di essere rispettate. Nessuno si sognerebbe mai di indentificare come poco di buono un uomo che tenti di sedurre una collega senza essere corrisposto. Intelligenza vuole che il malcapitato sappia comprendere, nonostante l’insistenza, quando non è il caso di andare oltre. Tantomeno sembra opportuno accostare un tentativo di rimorchio ad una violenza sessuale. A dimostrazione del fatto che le femministe non sono nemiche degli uomini, anche loro corteggiano, seducono. Anche loro non vengono corrisposte. La maggior parte di loro non diventa violenta se rifiutata. Credo nessuna abbia mai palpeggiato un ragazzino sulla metropolitana. Perché se è questo il messaggio che vogliamo trasmettere alle giovani donne della nostra epoca, significa che dobbiamo rassegnarci a salire su un mezzo pubblico consapevoli che, se non riusciremo a raggiungere quel dannato posto a sedere, un uomo molto più vecchio si posizionerà dietro di noi per tastare la consistenza del nostro fondoschiena. Questo nella migliore delle ipotesi ovviamente. Altrimenti, se siamo fortunate, potremo sentire il suo membro variare di consistenza mentre si struscia contro il nostro corpo. Esperienza veramente esaltante, di cui sentirsi lusingate. Perché d’altronde rientra nel corteggiamento che gli uomini possono riservarci giusto? È un loro diritto rendere spiacevole il nostro viaggio verso casa, dopo una giornata di fatiche. Perché sostanzialmente la donna è stata creata per essere apprezzata dall’uomo, un gioco a suo esclusivo beneficio e consumo. Poco importa che ci faccia sentire un oggetto sporco e abusato, spesso sbagliato. Piacere prima di tutto. Essere accondiscendente di fronte alle pulsioni dell’uomo come diretta conseguenza. Insegniamo alle nostre figlie che se un giorno un collega farà loro una battuta pesante sulla loro scollatura non è perché stia loro mancando di rispetto, certo che no! Sta semplicemente facendo un apprezzamento, le sta corteggiando. Hai raggiunto il tuo obiettivo tesoro! Gli piaci, riesci a far venire fuori la bestia vittima delle proprie pulsioni sessuali che c’è in lui, ben fatto. E non ti preoccupare cara se, per ottenere quel posto di lavoro e mantenerlo nel tempo, dovrai sottometterti a favori sessuali a beneficio del tuo superiore. Un bel respiro e passa tutto in fretta. Alla fine ha scelto te no? Sei meglio delle altre, hai vinto. Cosa sarà mai un po’ di sesso con una persona che ti fa ribrezzo. In fondo ammettilo, ti piace pure.

Chiara Barison

Dismorfofobia e disturbi alimentari: la mia storia

Ho impiegato alcuni anni per capire cosa stava succedendo e ci ho messo altrettanto per chiedere aiuto quando ho capito che mi stavo autodistruggendo.
È iniziato tutto durante il primo anno di liceo.
Quel che ricordo della mia infanzia mi fa parlare di quel periodo come di un momento sereno della mia vita. Ero una bambina solare, allegra, spensierata. L’adolescenza invece ha portato con sé cambiamenti che ho faticato a gestire: l’umore era altalenante, ho preso e perso peso con estrema facilità, il mio corpo stava modificandosi in maniera disarmonica. A 13/14 anni ho iniziato a sentirmi sempre triste, insicura, vulnerabile.

C’è una frase che circola su Internet, dice: “you never know what someone is going through, so be kind” (“Non potrai mai sapere che cosa sta affrontando una persona, quindi sii gentile”). Io ne ho fatto un po’ il mio motto di vita perché credo che il più delle volte non ci rendiamo conto di quanto le parole influiscano sulle persone che incontriamo. Quello che diciamo o ci viene detto può modificare profondamente la percezione di chi ci circonda e di noi stessi.
Per tant* la dismorfofobia e i disturbi alimentari iniziano così, dopo qualche “parola di troppo”. È quello che è successo anche a me, anche se non ricordo con esattezza quali sono state le frasi scatenanti.

La dismorfofobia viene definita come sensazione patologica e irrealistica che una parte del corpo sia deforme, che il corpo abbia un difetto, ma chi l’ha vissuta o la vive potrebbe dirne molto di più. Questa si scatena spesso durante l’adolescenza perché questo è il momento in cui un individuo riconosce e afferma la propria identità. Sfortunatamente, per molt*, quasi per tutt*, il riconoscimento e l’affermazione di sé passano dall’approvazione dei coetanei. I riferimenti dell’infanzia, i “genitori” e gli “adulti” in generale, iniziano a diventare figure di sfondo, il parere degli amici e dei compagni di scuola inizia a contare molto di più.

Ora vi vorrei chiedere di far caso a quanto, soprattutto nei discorsi delle ragazze e delle donne, il tema del corpo e dell’alimentazione sia presente.
Oggi ho mangiato troppo!”, “Sai che sono a dieta?”, “Dovrei dimagrire…”, “Hai visto com’è dimagrita/ingrassata?”.
Quante volte avete sentito pronunciare queste frasi?
A 14 anni, quando sono arrivate le prime cotte e ho cominciato ad interrogarmi sul fatto che i ragazzi che mi piacevano potessero ricambiare i miei sentimenti, a pensare al mio corpo come ad un qualcosa che avrebbe dovuto attrarre l’altro sesso, sono stata sommersa da questo tipo di commenti, fossero essi rivolti a me o ad altr*.

Da qualche anno l’ideale estetico – che in quanto tale cambia nel corso dei secoli, dovremmo mettercelo bene in testa – è quello della magrezza. Questa viene considerata come una sorta di valore aggiunto alla validità di una persona.
E tu, ragazzina di 14 anni, vista la valanga di modelli che ti vengono proposti, inizi a pensare che se non sei abbastanza magra, se non sei come quel modello che ti viene proposto, non verrai considerata interessante o bella e non piacerai a nessuno.

Due patologie indicate come conseguenze della dismorfofobia sono la depressione e l’ansia. Posso dire di aver vinto il jackpot. Non mi stupisco del fatto che io riesca a ridere su temi così seri e gravi perché oggi, anche se lo spettro di quegli anni mi accompagna ancora, nella maggior parte dei casi riesco a mantenere la lucidità che mi serve e ha guardare tutto questo dall’esterno.
Ma ai tempi però facevo diete massacranti per poi mangiare di nascosto tutto quello che trovavo quando nessuno poteva vedermi per riempire un vuoto, un’insoddisfazione, una tristezza che non riuscivo a spiegarmi e a spiegare.
Dopo mi aggrediva l’ansia: avevo “peccato”, dovevo rimediare all’errore. Le prime volte mi sentivo male e vomitavo spontaneamente. Poi il mio corpo ha cominciato ad abituarsi e il vomito sono arrivata a provocarmelo da sola.
Ho scoperto solo tempo dopo che questa cosa si chiama “bulimia”.

Quello che fatico a fare oggi è ripensare alla sofferenza che ho causato a me stessa ma, in primis, alla mia famiglia. Mio padre ancora ricorda quella volta che a cena scoppiai a piangere perché avevo fame. Ero riuscita a perdere tanti chili facendomi seguire da una persona che non era nemmeno titolata per farlo. Ai miei occhi tuttavia era più che valida perché capace di far dimagrire tanto e in poco tempo una ragazza che conoscevo e io volevo più di ogni altra cosa che le nostre amicizie in comune e tutti gli altri mi ammirassero come avevano iniziato a fare con lei. Papà mi portava in quello studio non senza timore e molte perplessità ma lui, nel suo immenso amore per me, voleva solo vedermi felice. Quella dieta mi affamò, nel vero senso della parola, arrivai a piangere davanti ai miei genitori perché non ce la facevo più.

Sono andata avanti così per tre anni. Non avevo parlato a nessuno, nemmeno ai miei amici più cari, di quello che mi stava succedendo. Mi vergognavo. Un giorno però il vaso di Pandora si è aperto e tutto lo schifo che sentivo dentro è riuscito ad uscire. I miei genitori mi hanno aiutato: l’amore, la fiducia, il rispetto che abbiamo sempre provato l’uno per l’altra mi hanno aiutato a capire il problema e a parlarne.

Ho finito il liceo e durante gli anni dell’università ho iniziato a fare tanto sport che in parte mi ha aiutato ma sono cascata in un’altra trappola, quella dell’ortoressia.
Mi allenavo anche se non avevo voglia, contavo i macronutrienti e controllavo le calorie delle cose che mangiavo. Nel mio corpo potevo solo introdurre ciò che era “sano”, mangiavo “schifezze” a fatica e agli “sgarri” seguivano momenti di puro terrore, nei quali il senso di colpa mi massacrava. Non vomitavo più però continuavo ad essere insoddisfatta, ad odiare il cibo e a colpevolizzarmi.
Per fortuna, questo periodo è durato solo un anno. Poco dopo ho avuto una relazione che mi ha permesso di mollare un po’ la presa, di smetterla di cercare di avere continuamente il controllo sul mio corpo. E, proprio grazie a questa, ho anche capito che non potevo continuare a far risolvere i miei problemi dagli altri.

Ho capito che non ci sarà sempre qualcuno a tirarmi fuori da queste situazioni e mi sono detta che dovevo capire come salvarmi da sola perché il critico più feroce di me stessa ero io, ero diventata mia nemica. Dovevo imparare a smetterla di darmi addosso, ad essere meno implacabile nel dare giudizi su di me.

Andare in terapia mi ha aiutato e avere qualcuno con cui posso capire tante cose di me mi ha fatto solo bene. Penso che, se così non fosse, non parlerei di queste cose con così tanta libertà. Oggi ho un rapporto molto più sereno con il cibo e con me stessa, non mi odio più.
Se riguardo le foto di quegli anni mi vedo molto “più magra” di quanto posso essere adesso ma so che dentro di me ero tutt’altro che felice. E mi disprezzavo perché non riuscivo a smettere di mangiare per essere quella versione di me che pensavo gli altri avrebbero apprezzato, amato, non pensavo a quello che volevo io.
Oggi sto meglio, anche se so che con tutto questo continuerò a conviverci forse per sempre. Non nego che mi fanno ancora effetto certi commenti ma oggi riesco a non fissarmi su certi pensieri, lascio andare tante cose.


Vorrei che questa storia riuscisse ad aiutare qualcun altro a farlo e che, sì, le cose andranno meglio.

Vorrei dirvi che voi siete molto di più: più di un corpo, più delle vostre imperfezioni, più di quello che potrebbero dire gli altri sul loro o sul vostro peso. Anche io sbaglio e spesso sono ancora vittima di questo tipo di logiche. Ma tutti insieme dovremmo iniziare a smettere di fare continui commenti sul peso nostro e delle altre persone. Smettere di dire: “sei dimagrita!” come se fosse una vittoria personale – anche perché si dimagrisce o si ingrassa per così tanti fattori che potremmo stare qui a scrivere un altro milione di parole-, o “ma no, dai, stai bene!” con quel tono un po’ pietoso che implicitamente presuppone un “però potresti fare di più”.
Le parole contano e dovremmo pensare più alla nostra salute mentale e fisica che alla nostra immagine, dovremmo pensare più a “stare bene” nel complesso che all’ essere bell* o magr*, dovremmo pensare ad essere contenuto piuttosto che contenitore.

Concludo aggiungendo che, se avete bisogno di aiuto, se sentite che la situazione vi sta sfuggendo di mano, fatevi aiutare. Non c’è niente di sbagliato nel chiedere aiuto: non siete imperfetti o deboli, siete umani.

Sarebbe bello riuscire a fermare questa tendenza all’omologazione dei corpi che fa male a tantissime ragazze e donne (ma anche a tanti uomini) perché penso non ci sia cosa più bella di un mondo dove ognuno possa essere libero e orgoglioso di se stesso, senza bisogno di fare dannosi sacrifici.
Dove sia possibile farsi conoscere e amare semplicemente per quello che si è.

Eleonora Panseri

Sessismo linguistico, l’importante è parlarne

La nozione di sessismo linguistico (linguistic sexism) è stata elaborata negli anni ’60-’70 negli Stati Uniti. In quel periodo era infatti emersa la marcata discriminazione nel modo di rappresentare la donna rispetto all’uomo attraverso l’uso della lingua, e di ciò si discuteva anche in Italia soprattutto in ambito semiotico e filosofico. Nel 1987 esce un volume rivoluzionario, Il sessismo nella lingua italiana di Alma Sabatini, pubblicato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, che allargò il dibattito all’ambito sociolinguistico e arrivò a interessare attraverso la stampa anche il grande pubblico.
Lo scopo del lavoro era politico e si riallacciava a quello di ristabilire la “parità fra i sessi”, attraverso il riconoscimento delle differenze di genere (inteso come l’insieme delle caratteristiche socioculturali che si legano all’appartenenza a uno dei due sessi).

Al linguaggio viene riconosciuto un ruolo fondamentale nella costruzione sociale della realtà e, quindi, anche dell’identità di genere maschile e femminile: è perciò necessario che sia usato in modo non “sessista” e non privilegi più, come fa da secoli, il genere maschile né tantomeno continui a tramandare tutta una serie di pregiudizi negativi nei confronti delle donne, ma diventi rispettoso di entrambi i generi. Che cessi di avere, come afferma Sabatini, «un’impostazione “androcentrica”».

La lingua infatti manifesta e allo stesso tempo condiziona il nostro modo di pensare, incorpora una visione del mondo e ce la impone. Il pensiero è profondamente influenzato dal linguaggio che, a sua volta, influenza il pensiero stesso. Non solo l’esistenza di una parola riferita a una situazione o esperienza trasmette l’importanza dell’esperienza stessa, ma anche l’assenza di una parola suggerisce che non c’è niente che riguarda l’esperienza descritta che meriti di essere menzionato.

La lingua è viva e si modifica con il cambiamento della società:
se cambia la realtà cambia anche il linguaggio.

Un’azione diretta a modificare il linguaggio potrebbe sembrare artificiosa e privare la parola del senso di deposito della storia di un contesto sociale che tendiamo ad attribuirle. Ma è l’impellenza di un intervento sui costumi della disparità, tanto diffusi nel nostro Paese, che rende questa presunta artificiosità necessaria e tollerabile.
In un tempo in cui ancora ci troviamo a riflettere sui troppo numerosi femminicidi travestiti da delitti passionali, ci accorgiamo quanto siano importanti le parole che si riferiscono alle battaglie sostanziali perché si affermino modelli educativi e di comportamento in grado di mettere in comunicazione tra loro tutte le differenze, in primis quella tra uomini e donne.

La lingua è una struttura dinamica che cambia in continuazione, tuttavia la maggior parte della gente è conservatrice e mostra diffidenza, addirittura paura, nei confronti dei cambiamenti linguistici perché disturbano le proprie abitudini o sembrano una forzatura. Ciononostante, in modo del tutto contraddittorio, si accettano neologismi come “cassintegrato”, o inglesismi come “selfie”, “taggare” (da “tag”). Perché mai questi passano senza problemi? Forse perché non coinvolgono a livello profondo? O solo perché entrano nel linguaggio in modo subliminale senza che ce ne accorgiamo? Certo è che, posti davanti al problema se accettare o meno un cambiamento, spesso si assume un atteggiamento “moralistico” in difesa della lingua, vista come qualcosa di sacro e intoccabile. In realtà noi siamo tanto attivi quanto passivi nei confronti della lingua. Il processo di classificazione linguistica è dinamico perché la lingua ci offre sia le forme già codificate, sia una serie di operazioni che ci permettono di classificare nuovi contenuti o di riclassificare la nostra realtà.

Negli anni ci sono stati cambiamenti di tipo ideologico per parole riferite a classi e razze discriminate. Dopo l’olocausto, il termine “giudeo” fu sostituito dapprima da “israelita” e ora anche da “ebreo”; l’uso di “nero” anziché “negro” è entrato in Italia. Sono scomparsi dalla lingua ufficiale e da quella quotidiana termini quali “facchino”, “mondezzaro”, “spazzino”, sostituiti da “portabagagli”, “netturbino”, “operatore ecologico”. Molti di questi cambiamenti non si possono definire spontanei, ma sono frutto di una precisa azione socio-politica, che dimostra l’importanza che la parola ha rispetto alla realtà sociale e il fatto che siano già stati assimilati significa che il problema è diventato di senso comune o che, quantomeno, la gente si vergogna di poter essere tacciata come classista o razzista.

Quando ci si vergognerà altrettanto di essere considerati sessisti molti cambiamenti diverranno realtà normale. Qual è dunque la ragione di questo atteggiamento linguistico? Le risposte più frequenti fanno riferimento all’incertezza di fronte all’uso di forme femminili nuove rispetto a quelle tradizionali maschili (è il caso di “ingegnera”), la presunta bruttezza delle nuove forme, o la convinzione che la forma maschile possa essere usata tranquillamente anche in riferimento alle donne. Ma ciò non è vero, perché maestra, infermiera, modella, cuoca, nuotatrice, ecc. non suscitano alcuna obiezione: nessuno definirebbe mai Federica Pellegrini nuotatore. Termini come “architetta”, “assessora”, “avvocata”, “chirurga” vengono spesso bollati come cacofonici. Si tratta di nomi che indicano lavori o cariche in passato riservati agli uomini, ma perfettamente regolari dal punto di vista grammaticale. La parola “avvocata”, poi, indica la Madonna nella preghiera “Salve Regina”. Allora il problema qual è? È davvero la parola a suonare male o il fatto che le donne scelgono carriere diverse dal passato? Le resistenze all’uso del genere grammaticale femminile per molti titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne sembrano poggiare su ragioni di tipo linguistico, ma in realtà sono, celatamente, di tipo culturale.

In una concezione della lingua come depositaria di cultura, come prodotto della società che la parla, appare vano tentare di modificare la lingua e pretendere che sia un tale cambiamento a influenzare la società, se questa è stata ed è ancora una società sessista. Ma se è invece vero che la realtà sociale italiana è in via di modificazione, la discussione di quegli aspetti della lingua e del discorso che non riflettono ancora tale realtà e che anzi perpetuano stereotipi è quanto mai necessaria.

di Anna Miti

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Perché parlare ancora di “femminismo”?

Questa domanda si sente ripetere spesso da un po’ di tempo a questa parte. Esiste ancora la necessità di parlare di “femminismo” in un mondo in cui “le donne hanno ormai raggiunto la parità”? Il termine stesso è arrivato ad assumere in certe occasioni una connotazione negativa e l’aggettivo “femminista” ad essere usato anche come “insulto”: “NON SARAI MICA UNA DI QUELLE FEMMINISTE?”.

La verità è abbastanza evidente, anche se, forse, non agli occhi di tutti: la parità, reclamata proprio dalle femministe nel corso dei decenni, è stata raggiunta solo in alcuni ambiti. In tanti altri la si è raggiunta in parte, in molti casi non esiste.

Va anche detto che “la parità”, intesa in senso stretto, può essere un’arma a doppio taglio: ciò che viene ritenuto valido per un uomo potrebbe non esserlo per una donna. Non è soltanto la parità quello che il femminismo ha chiesto da sempre e che continua oggi a chiedere, quanto piuttosto che il mondo smetta di essere un posto non adatto o ostile per il genere femminile.

Il motivo per cui crediamo sia necessario oggi parlare di femminismo e dare voce alle donne di ogni età, cultura ed estrazione (da questo desiderio nasce “Quote rosa”) è perché la vita per molte di esse può ancora essere un inferno. E, chi più, chi meno, spesso inconsciamente, tutte sperimentiamo diversi tipi di oppressione, tutte siamo spesso chiamate a giustificare le nostre scelte di fronte a quella cosa che tanti faticano a riconoscere e nominare chiamata “patriarcato”. Il modo in cui ci prendiamo cura di noi stesse, in cui ci vestiamo, quello con cui approcciamo l’altro sesso e la nostra sessualità, le nostre decisioni lavorative e personali: tutto viene analizzato e giudicato secondo un filtro che ci impedisce di fare scelte libere. Veniamo fin da bambine educate, condizionate, portate a credere che il mondo sia un posto dove i “maschi” possono fare e noi rimanere sullo sfondo a battere le mani. Quelle che rifiutano questo ruolo subalterno, quelle che “ce la fanno”, vedono i loro meriti a volte ridimensionati, se non proprio sviliti, e si tace sul fatto che loro, le donne che hanno sfondato il “soffitto di cristallo”, sono il più delle volte costrette a fare rinunce che all’uomo non verranno chieste mai. E il successo non risparmierà loro la critica costante, anzi, al minimo passo falso verranno immediatamente messe al rogo.

Tutto questo potrà sembrare un vuoto sproloquio ma saranno proprio i contenuti del nostro blog a raccontarvi cosa significa vivere una vita da “quote rosa” in un mondo dove il prototipo ideale è un uomo.
Lo diremo noi e lo diranno altre voci di donne che potranno raccontare la loro esperienza su questa piattaforma.

Fiere di essere donne, fiere di essere “femministe”.

Chiara ed Eleonora, “Quote Rosa”

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