Violenza domestica, la Corte di Strasburgo condanna l’Italia: «le autorità nazionali hanno fallito»

Il 7 aprile 2022 la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ha condannato l’Italia per non aver protetto Annalisa Landi e i suoi due bambini dalle violenze domestiche subite dal compagno, poi condannato a 20 anni di carcere, anche per l’omicidio di uno dei figli. Le autorità italiane, “con la loro inazione”, avrebbero infatti permesso all’uomo di agire indisturbato, nonostante il “grave rischio di maltrattamenti”.

Di indizi, per la Corte, ce ne erano fin troppi. Niccolò Patriarchi soffriva di un disturbo bipolare caratterizzato da comportamenti violenti. In passato, gli era già stato disposto il divieto di avvicinamento verso l’ex partner. E negli attacchi tra novembre 2015 e settembre 2018, tre prima dell’ultimo, quello dell’uccisione del figlio, era sempre intervenuta la polizia di Scarperia (Firenze). Landi aveva anche esposto una serie di denunce, poi ritirate, nei confronti dell’uomo, su cui le autorità stavano indagando per violenze domestiche.

Secondo la CEDU, l’Italia avrebbe violato l’articolo 2 della Convenzione Europea dei Diritti umani, che prevede il diritto alla vita. Come riporta la sentenza, “le autorità nazionali hanno fallito nel compito di condurre una valutazione immediata e proattiva del rischio di reiterazione degli atti violenti commessi” e “nell’adottare misure preventive”. Per la Corte inoltre non avrebbero reagito “né immediatamente, come richiesto per i casi di violenza domestica, né in qualsiasi altro momento”. Per questo, l’Italia dovrà risarcire Landi di 32mila euro.

Alessandra Tommasi

Diritti LGBTQ+, il parlamento francese vieta le terapie di conversione

La Francia ha vietato le terapie di conversione dell’orientamento sessuale. Mercoledì 26 gennaio il Parlamento francese ha approvato in via definitiva le pratiche che pretendono di curare l’orientamento sessuale delle persone omosessuali, bisessuali o transgender. Il testo ha scatenato però le proteste di psichiatri e giuristi, in particolare riguardo al nodo dell’identità di genere.

La legge – La nuova legge è stata presentata da Laurence Vanceunebrock, deputata di Lrem (La République en Marche), il partito del presidente Emmanuel Macron. Finora le terapie di conversione erano accomunate a reati come molestie morali o pratica illegale della medicina. Un approccio insufficiente secondo i sostenitori della nuova legge, che permetterà ora di aumentare la consapevolezza dell’illegalità di queste pratiche. Chiunque continuerà ad adottare le terapie di conversione rischierà due anni di carcere e una multa di 30mila euro, che potranno salire fino a tre anni di reclusione e 45mila euro nel caso in cui fosse coinvolto un minore.

«Nessuno potrà più pretendere di essere in grado di curare le persone LGBT», ha dichiarato Vanceunebrock. Macron ha esultato per l’entrata in vigore della nuova legge con un post su Twitter: «Essere se stessi non è un crimine, non c’è niente da curare». La Francia si aggiunge alla lista di Paesi in cui le terapie di conversione sono vietate, tra cui Germania, Malta, Brasile e Canada, che aveva adottato questa legge il 7 gennaio scorso.

Cosa sono – Le terapie di conversione sono pratiche pseudoscientifiche che hanno come obbiettivo quello di cambiare l’orientamento sessuale di una persona. L’individuo è “curato” per far sì che ritorni alla sua originaria eterosessualità, per eliminare o ridurre i suoi desideri e comportamenti omosessuali. Le tecniche tentate sono diverse: modificazione del comportamento, terapia dell’avversione (esporre un paziente a uno stimolo e simultaneamente a una forma di disagio, ndr), psicoanalisi, preghiere, fino alla lobotomia.e a terapie religiose come l’esorcismo. In alcuni casi si è ricorso persino all’elettroshock. Le ricerche condotte dalla comunità scientifica non hanno mai confermato i risultati dichiarati dalle associazioni che promuovono queste pratiche. Anzi, ne hanno evidenziato la pericolosità.

Il nodo – Nel primo articolo della nuova legge è stata inserita anche l’identità di genere, cioè il senso di appartenenza di una persona a un genere con cui essa si identifica e che può essere differente dal suo sesso biologico. In Francia, come in molti altri Stati, si segnala una grande crescita di giovanissimi che decidono di intraprendere un percorso di transizione di genere attraverso bloccanti della pubertà, ormoni e operazioni chirurgiche. Questo ha suscitato le proteste dell’ Observatoire la petite sirène, il collettivo che riunisce medici, psicologi, psichiatri e psicanalisti per l’infanzia: «Non potremo più prendere in cura i minori che soffrono di disforia di genere, nella legge non si fa distinzione tra minori e maggiorenni e i problemi delle due categorie non sono gli stessi».

Dopo l’approvazione del decreto, un medico non potrà più rifiutarsi di effettuare una transizione richiesta dal minore o dai genitori, né potrà effettuare un consulto psicologico per valutare se l’operazione sia o meno adeguata al caso concreto. «Il nostro approccio è neutro e vogliamo accogliere i bambini permettendo loro di raggiungere la maturità prima di intervenire dal punto di vista medico», queste le parole della psicologa e psicanalista Céline Masson riportate sul mensile Tempi. Un altro punto criticato alla legge è quello sui genitori. Si legge che, qualora venisse impedita la transizione di genere al figlio, il padre e la madre rischierebbero «la revoca totale o parziale dell’autorità genitoriale».

Il caso Keira Bell – L’anno scorso era diventato celebre, nel Regno Unito e poi a livello internazionale, il caso di Keira Bell. La ragazza originaria di Manchester aveva cominciato il suo percorso di transizione a 16 anni, salvo poi pentirsi della propria scelta e denunciare la clinica Tavistock and Portman, che l’aveva aiutata in questo processo e colpevole secondo lei di aver assecondato con troppa leggerezza il suo desiderio. «Non si possono prendere decisioni simili a 16 anni», aveva dichiarato Bell, «I ragazzi a quell’età devono essere ascoltati e non immediatamente assecondati. Io ne ho pagato le conseguenze, con danni gravi fisici». L’Alta Corte inglese aveva accolto il ricorso contro la clinica, dichiarando che è «altamente improbabile che un adolescente possa comprendere in maniera appropriata gli effetti a medio e lungo termine del cambio di genere e fornire a chi lo prende in cura per la transizione da un sesso all’altro un adeguato consenso informato».

Mattia Camera

Treccani.it elimina i riferimenti sessisti dalla voce “donna”

Due mesi fa un gruppo di donne guidate dall’attivista italiana Maria Beatrice Giovanardi aveva fatto un appello all’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani chiedendo di rimuovere i riferimenti sessisti presenti sull’enciclopedia online alla voce “donna”. Queste espressioni infatti, secondo le 100 firmatarie della lettera inviata all’Istituto, non erano da ritenere soltanto offensive ma anche, “quando offerte senza uno scrupoloso contesto”, causa di “stereotipi negativi e misogini che oggettificano e presentano la donna come essere inferiore”. A seguito di un lungo dibattito oggi, 14 maggio, è arrivato il responso positivo della Treccani che ha deciso di ascoltare la richiesta delle attiviste.

Valeria Della Valle, direttrice del vocabolario, ha spiegato a Repubblica che la scelta di modificare la voce è solo l’inizio di un più lungo processo “culturale”:

«L’operazione richiederà più tempo perché il lavoro di un dizionario è simile a quello del sarto, la voce “donna” che contempla già espressioni relative ai diritti, all’emancipazione e ai movimenti di liberazione delle donne, ha bisogno di ritocchi che aggiungeranno frasi relative al ruolo professionale della donna».

Nel 2019 Giovanardi aveva portato avanti la stessa battaglia con l’Oxford Dictionary che, dopo un anno di dibattito, aveva acconsentito a modificare la voce “woman”.

Eleonora Panseri

Perché è sbagliato dire “il femminismo contro il ddl Zan”

Il dibattito sul ddl Zan, la proposta di legge contro omolesbotransfobia, misoginia e abilismo presentata dal deputato del PD Alessandro Zan, approvata alla Camera a novembre e recentemente calendarizzata per la discussione in Senato, ha spaccato a metà il mondo della politica e la società civile. Una divisione abbastanza netta: contrari vs. favorevoli.

In questo contesto, ha destato stupore il fatto che anche 17 associazioni femministe italiane si siano schierate contro il disegno di legge (insieme a singol* privat* cittadin*). A seguito della nota stampa firmata da Udi Nazionale, Udi Napoli, Collettivo Luna Rossa, Associazione Freedomina, Associazione TerradiLei-napoli, Arcidonna, Associazione Salute Donna, RadFem Italia, In Radice- per l’Inviolabilità del corpo femminile, Se Non Ora Quando Genova, I-Dee, Associazione Donne Insieme, Arcilesbica, Arcilesbica Magdalen Berns, Associazione Trame, Catena Rosa, Ide&Azioni Associate, alcune testate hanno titolato: “Il femminismo contro il ddl Zan”.

Ma qui c’è un errore di cui bisogna parlare.

Il femminismo non è mai stato una religione o un pensiero politico che non ammette contestazioni. Dalla sua nascita il movimento ha conosciuto fasi diverse e racchiuso in sé più correnti.

Tra queste, quella delle TERF ( le “Trans-exclusionary radical feminists”). Le femministe radicali transescludenti non riconoscono le donne trans come tali e scelgono di lottare solamente per quelle che definiscono come “donne nate donne” (per citare un esempio noto, la scrittrice J.K. Rowling). In Italia, i gruppi TERF sono tanti ed è infatti il concetto di genere espresso nel ddl che questi gruppi contestano (non necessariamente l’intero disegno di legge e i motivi che l’hanno ispirato).

Sono libere di farlo.

Per il femminismo intersezionale il disegno di legge dell’onorevole Zan è un provvedimento giusto, che va sostenuto. Per le TERF no. E da qui potrebbe e dovrebbe nascere un dibattito costruttivo.

Anche le testate devono essere libere di riportare quanto accade e di scrivere “il femminismo/le femministe contro il ddl Zan”.
C’è la necessità, tuttavia, oggi più che mai, di parlare correttamente di femminismo.

Un movimento che non è solo uno (si parla infatti spesso di “femminismi“) e che ha una storia, alla base della quale c’è sempre stata l’idea che noi donne fossimo tante, tutte differenti, ognuna degna di essere ascoltata e rispettata.

Eleonora Panseri

#iolochiedo, una campagna per cambiare la legge sulla violenza sessuale

Nella Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, anche nota semplicemente come Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia nel 2013, lo stupro è un “rapporto sessuale senza consenso”. Nell’articolo 36 del testo, al paragrafo 2, si legge anche che tale consenso deve essere dato volontariamente, quale libera manifestazione della volontà della persona, e deve essere valutato tenendo conto della situazione e del contesto”.

Al contrario, l’articolo 609-bis del Codice penale italiano, che disciplina il reato di violenza sessuale, non considera in alcun modo l’elemento del consenso e punisce “chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali”.
Se dunque per sanzionare un comportamento come stupro la legge italiana prevede che concorrano gli elementi della violenza, della minaccia o dell’abuso di autorità, nel caso in cui questi siano assenti, diventa difficile stabilire la gravità del reato.

Proprio a questo proposito, Amnesty Italia ha lanciato una petizione per richiedere alla Ministra della Giustizia Marta Cartabia la revisione dell’articolo 609-bis. Revisione che tenga in considerazione la definizione data dalla Convenzione di Instabul e introduca in Italia l’idea che lo stupro non sia soltanto una violenza fisica ma qualsiasi comportamento sessuale privo del consenso di entrambe le parti.

Come si legge anche sul sito di Amnesty, la percezione del reato di stupro in Italia è viziata non soltanto a livello legislativo, ma anche e soprattutto a livello culturale:

“Secondo l’Istat (rilevazione del 2019), persiste in Italia il pregiudizio che addebita alla donna la responsabilità della violenza sessuale subita. Addirittura il 39,3% della popolazione ritiene che una donna è in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole. Anche la percentuale di chi pensa che le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire è elevata (23,9%). Il 15,1%, inoltre, è dell’opinione che una donna che subisce violenza sessuale quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte corresponsabile. Per il 10,3% della popolazione spesso le accuse di violenza sessuale sono false (più uomini, 12,7%, che donne, 7,9%); per il 7,2% “di fronte a una proposta sessuale le donne spesso dicono no ma in realtà intendono sì”, per il 6,2% “le donne serie non vengono violentate”. Solo l’1,9% ritiene che non si tratta di violenza se un uomo obbliga la propria moglie/compagna ad avere un rapporto sessuale contro la sua volontà”.

La campagna di Amnesty è stata lanciata in rete con l’hashtag #iolochiedo e l’obiettivo è quello delle 61000 firme.

Se volete sostenere la petizione, fate click QUI.

Eleonora Panseri