Oscar 2022: uno schiaffo che spiega come a Hollywood regni (ancora) una cultura patriarcale

È passata ormai qualche settimana dalla 94esima edizione degli Oscar e dopo il susseguirsi di commenti a caldo sui vincitori e le polemiche a seguito dell’accaduto durante la serata, cosa ci rimane di questi Academy Awards 2022?

Una serata all’insegna del lusso, dello sfarzo e del politicamente corretto, una patina che ha reso questa edizione estemporanea, dato il momento storico che stiamo vivendo – neanche un cenno agli avvenimenti in Ucraina, se non per qualche sporadica spilla azzurro-gialla appuntata su qualche bavero della giacca, per non parlare della totale assenza di mascherina (è proprio vero: il Covid, come dicono in molti, è finito, malgrado la risalita di contagi e la scoperta di nuove varianti).

Ma veniamo al dunque, ciò che ha fatto più discutere in queste settimane: Will Smith, in lizza per il premio Best Actor in a Leading Role, sale sul palco e di fronte a una platea a metà tra il divertito e lo sbigottito dà uno schiaffo all’attore comico Chris Rock, dopo che quest’ultimo ha fatto una battuta sull’aspetto fisico della moglie di Smith, Pinkett Smith, paragonandola alla protagonista di GI Jane (per chi non avesse visto il film, la protagonista interpretata da Demi Moore si rasa i capelli). Aspetto fisico che a dire di Chris Rock dovrebbe essere similare a quello di Pinkett Smith, affetta da alopecia.

In molti si sono schierati a favore del gesto di Smith, definendolo “obbligato” per difendere la moglie dal commento offensivo di Rock. Smith stesso durante il discorso di ringraziamento, dopo aver ritirato il premio per miglior attore, si scusa dicendo: “Love makes you do crazy things”. L’amore fa fare pazzie, appunto. Ma è forse proprio questo il punto? Si può considerare un atto di violenza come un dettato dall’amore, per l’amore?
Molte parole sono state spese in suo favore. Secondo molti stava semplicemente difendendo la moglie e, in fondo, Chris Rock se l’è meritato. Ma è proprio così? Lo schiaffo che è stato dato non è forse, invece, espressione di una cultura patriarcale e machista?

Innanzitutto, il gesto di Smith è simbolo di come ancora oggi la violenza sia strettamente correlata al concetto di uomo e di essere uomo: un uomo deve essere forte, fisicamente e non solo a parole, per sapersi e saper difendere.
Che cosa? Il proprio onore, l’onore della propria moglie e della propria famiglia – sì, suona proprio come un detto di altri tempi, eppure eccoci qui a parlarne. Come se Pinkett Smith non fosse perfettamente in grado di sapersi difendere dalle parole ignoranti e ottuse di un altro uomo, che pensa di poter fare della sua condizione – e di tante altre persone – oggetto di ridicolo.
Pinkett Smith è stata così privata della possibilità di difendersi e di esprimere sé stessa in una situazione che la riguardava direttamente. Non solo, nella propria dimostrazione di mascolinità tossica, Smith si è totalmente dimenticato di voltarsi verso sua moglie e chiederle come stesse in quel momento. Una totale mancanza di empatia verso una persona che viene derisa per la propria condizione fisica, e che si suppone sia da te amata e rispettata.

A questo, possiamo aggiungere la correlazione tra atto violento e amore: lo schiaffo come dimostrazione dell’amore che Smith prova per la moglie. Una giustificazione che troppo spesso ormai sentiamo e vediamo quasi ogni giorno sui titoli di giornali e telegiornali. Un uomo che pazzo d’amore agisce in modo violento. Giustificare lo schiaffo a Chris Rock come una pazzia dettata dall’amore non fa altro che avvallare una cultura patriarcale e machista, dove si giustifica la violenza – per fortuna questa volta non nei confronti di una donna, ma scusanti di questo tipo utilizzate nei titoli di giornali e nei commenti di molti che la pensano così se ne potrebbero elencare a bizzeffe.

Soffermiamoci, però, anche sulla battuta “comica” di Chris Rock: paragonare Pinkett Smith, affetta da alopecia, alla protagonista di GI Jane non è altro che la dimostrazione di come, ancora, la nostra società sia fortemente condizionata dal patriarcato. Una persona che per fare della comicità deride pubblicamente la condizione fisica – ma potrebbe anche essere la razza, la condizione sociale, l’orientamento sessuale, e via dicendo – di un’altra, sminuendola di fronte ad altri e sottolineando la condizione di “diversità” rispetto alla massa. Non è forse la cara e vecchia retorica del “prendersela con il più debole”?

Cosa ci rimane, quindi, di questi Academy Awards? Un senso di amaro in bocca e il pensiero che molto ci sia ancora da fare. Specialmente in un mondo, quello del cinema e dello spettacolo, dove sono ancora gli uomini a farla da padrone. Basta considerare che, escluse le categorie per cui sono nominati solo gli uomini (ad esempio miglior attore), le donne rappresentano in media il 14% delle nomination in tutte le altre categorie aperte a entrambi i sessi. Un altro esempio: il premio per miglior regista, il più prestigioso, quest’anno è andato a Jane Campion per Il potere del cane, una “mosca bianca” se consideriamo che la categoria è aperta ad entrambi i sessi e dal 1929 ad oggi, delle 449 nomination per miglior regista, solo due premi sono stati consegnati a delle donne – Kathryn Bigelow nel 2010 per il film The Hurt Locker e Chloé Zhao nel 2021 per il film Nomadland.
Nella storia degli Academy Awards solo altre quattro donne sono state nominate per questa categoria: Lina Wertmüller, la prima donna ad essere nominata a miglior regista nel 1977 per Seven Beauties; Sofia Coppola per Lost in Translation; Greta Gerwig per Lady Bird e Emerald Fennell con Promising Young Woman chiudono la (più che) breve lista. Ancora più evidente è la differenza di genere se consideriamo la categoria Miglior fotografia, dove l’unica donna ad essere mai stata nominata è stata Rachel Morrison nel 2018 per il suo lavoro su Mudbound.

Disparità di genere che non è limitata solo al cinema d’oltreoceano, ma anzi, è ben presente anche nel Vecchio Continente: un recente studio attesta che nel settore audiovisivo europeo la percentuale di donne registe si attesta solo al 23%. Tra il 2016 e il 2020 la percentuale di donne direttrici della fotografia è al 10%, mentre quella delle compositrici solo al 9%, afferma l’Osservatorio audiovisivo europeo. Nello stesso periodo, solo il 33% di donne è tra i produttori e un 17% tra gli sceneggiatori. Dati che uniti alle considerazioni fatte in precedenza, fanno pensare a come il mondo dell’audiovisivo sia pervaso da una cultura fortemente improntata al patriarcato – come dimenticare anche il caso Harvey Weinstein – e dove la disparità di genere è all’ordine del giorno.

Verrebbe da domandarsi: cosa sarebbe successo se a fare la battuta comica fosse stata una donna riferendosi a un uomo?. Ne sarebbe scaturito uno
schiaffo? Probabilmente no, forse non saremmo qui a parlarne. La strada da percorrere è sicuramente lunga, per ora possiamo perlomeno fare i complimenti a Jane Campion.

Sara Mandelli

2 giugno 1946: il primo voto nazionale delle donne italiane

Monarchia o Repubblica?

La fine della dittatura fascista rappresentò per l’Italia l’inizio di una nuova fase politica.

75 anni fa nasceva la Repubblica italiana ma questa non fu l’unica novità portata da quel 2 giugno.

Per la prima volta in una votazione nazionale venne chiesto anche alle donne di esprimere una preferenza. Le italiane esercitarono il diritto di voto per cui tante avevano lottato (tra loro, la partigiana Marisa Rodano).

Con l’introduzione del suffragio femminile in Italia (il 10 marzo in occasione delle elezioni amministrative) alle donne venne riconosciuto lo status di cittadine a tutti gli effetti, quello fu il primo passo verso una parità che purtroppo non è stata ancora raggiunta.

Tuttavia, le rivendicazioni che vennero dopo, per il diritto all’aborto, il divorzio, la parità salariale, e quelle che verranno partono anche da quel 10 marzo e da quel 2 giugno.

Quando, per la prima volta, le donne uscirono di casa e dissero: “Oggi vado a votare”.

Eleonora Panseri

“Libera di abortire”, la nuova campagna di Radicali Italiani

“Siamo davvero libere di abortire?”

Questa è la domanda con cui i Radicali Italiani e un gruppo di associazioni lanceranno oggi, lunedì 24 maggio, a Milano con una conferenza stampa alle 11.45 nella sede dell’Associazione Enzo Tortora Radicali Milano e in diretta Facebook la loro nuova campagna, “Libera di abortire“. Per “garantire il libero accesso all’aborto“, come si legge sul sito dedicato al progetto.

Presentata qualche giorno fa anche a Roma e Pescara, l’iniziativa nasce con l’obiettivo di informare sulla pratica dell’aborto e di denunciare una situazione che in Italia vede una diffusa disinformazione sull’argomento e un numero altissimo di obiettori. A questo si aggiungono le scelte politiche di amministrazioni anti-abortiste che rendono ancora più difficile per gli/le/* cittadin* l’accesso all’aborto.

In Italia tante donne sono ancora oggi sottoposte a violenze fisiche e psicologiche, anche se, grazie alla legge 194 approvata 43 anni fa, l’aborto nel nostro Paese non dovrebbe più essere né un crimine né uno stigma.

La critica dei Radicali è rivolta all’impegno dello Stato che risulta carente nel fornire a tutti gli strumenti per vivere la propria sessualità in maniera consapevole, per conoscere e accedere all’IVG (l’Interruzione Volontaria di Gravidanza) e alle sue alternative.

E’ possibile sostenere “Libera di abortire” in due modi: finanziando uno dei manifesti che racconteranno le storie e i pensieri di attivist* che hanno subito violenze per aver scelto responsabilmente di abortire o/e firmando l’appello rivolto al Ministro della Salute Roberto Speranza.

Sul sito della campagna potete trovare maggiori informazioni. Qui invece trovate la pagina dove firmare l’appello e qui quella per cofinanziare i manifesti.

Eleonora Panseri

Abortire in Italia

L’aborto o Ivg (interruzione volontaria di gravidanza) in Italia è stato depenalizzato solo nel 1978 con l’introduzione della legge n. 194. Fino a quel momento era possibile trovarlo nel codice penale tra i “reati contro l’integrità e la sanità della stirpe”. In poche parole, era più importante garantire un seguito al popolo italiano che tutelare la vita e la salute delle donne.

Questi concetti, letti con la sensibilità di oggi, possono sembrare anacronistici e superati. Bisogna però considerare che il reato di procurato aborto si inseriva nel codice penale entrato in vigore nel 1930, in pieno ventennio fascista, un periodo che dava moltissima importanza alla questione della razza. Oggi troviamo ancora l’aborto come reato se procurato senza il consenso della donna oppure causato da una condotta colposa.

Dopo anni di lotte e morti a causa del ricorso a pratiche clandestine, la legge 194 del 1978 registra il cambio di passo. Le donne non vogliono più essere madri a tutti i costi, ma si fa strada il concetto di maternità come scelta. Soprattutto tra le classi più povere, le donne non potevano permettersi di avere troppi figli perché questo avrebbe impedito loro di lavorare.

Ma cosa prevede di preciso la legge?

Innanzitutto, il principio cardine è la tutela della salute fisica e psichica della donna, di conseguenza la gravidanza può sempre essere interrotta in caso di grave pericolo per la vita della gestante o del feto. Significa che nel caso in cui venissero diagnosticate patologie incompatibili con la vita, oppure malformazioni che potrebbero rendere rischioso portare a termine la gestazione, è possibile ricorrere all’Ivg in qualsiasi momento.

In assenza di fattori di rischio, il diritto di interrompere la gravidanza è garantito entro e non oltre i primi 90 giorni dall’inizio della gravidanza che decorrono dall’ultima mestruazione.

Oltre alla possibilità di abortire chirurgicamente, nel 2009 è stato introdotto il cosiddetto aborto farmacologico attraverso l’assunzione della pillola Ru486. La pillola abortiva non deve essere confusa con la pillola del giorno dopo. La seconda è infatti un contraccettivo d’emergenza ed è possibile acquistarla in farmacia senza ricetta medica. Deve essere assunta possibilmente entro le 24 ore dopo il rapporto a rischio e impedisce la fecondazione.

Al contrario, la pillola abortiva Ru486 può essere somministrata solo in caso di accertato stato di gravidanza e costituisce una valida alternativa all’aborto chirurgico. I dati che emergono dall’ultima relazione del Ministero della salute sono però sconfortanti: solo il 21% delle donne italiane ricorre all’Ivg farmacologica contro una percentuale che sfiora il 100% in Finlandia.

Tenuto conto dei minori rischi per la salute della donna, anche solo in termini d’invasività della procedura, la bassissima percentuale si spiega tenendo conto di due fattori. In primo luogo, la maggior parte delle Regioni prevede un regime di ricovero ordinario fino all’espulsione del prodotto del concepimento. Inoltre, a differenza degli altri Paesi europei, fino a poco tempo fa in Italia era possibile ricorrere alla RU486 solo entro le 7 settimane invece di 9. Le linee guida del Ministero della salute sono state aggiornate in tal senso solo nel mese di agosto 2020.

Quanto ai luoghi, la legge prevede che ogni donna possa abortire rivolgendosi alle strutture sanitarie pubbliche: in pratica, non è così. Visto l’altissimo numero di ginecologi obiettori di coscienza, in alcune zone d’Italia la 194 è quasi lettera morta. Secondo quanto riportato dall’associazione Luca Coscioni, fino al 2017 in Lombardia gli obiettori di coscienza erano circa il 66 per cento. Questa situazione porta le donne a rivolgersi a medici che praticano l’aborto privatamente, costringendole a sostenere un costo che per alcune può essere un deterrente.

Le stime parlano di un dato che oscilla tra le 10 e le 13 mila donne l’anno che evitano le strutture ospedaliere per interrompere una gravidanza. Insomma, in Italia l’Ivg non è per tutte e in alcuni casi comporta una selezione su base censitaria.

Chiara Barison

La libertà di essere (o non essere) madre

Ieri sera il Senato ha confermato con 156 voti favorevoli la fiducia al governo Conte bis. Anche se la maggioranza relativa non renderà le cose facili all’esecutivo, l’Italia tira un sospiro di sollievo. Quello che però colpisce, in un’ottica femminile e femminista, sono le parole pronunciate dal leader della Lega Matteo Salvini. Durante il suo intervento, l’ex ministro ha tuonato: “il nostro modello sono i centri d’aiuto alla vita, non le pillole abortive regalate per strada a chiunque”.
Così poche parole, così tante cose sbagliate.

La maternità è da sempre “croce e delizia” delle donne di tutti i tempi e di ogni parte del mondo. Croce perché la storia le ha relegate (e spesso ancora le relega) al ruolo esclusivo di genitrici, privandole della possibilità di occuparne di diversi, etichettando quelle che non riuscivano o non volevano avere figli come delle disgraziate, come angeli ribelli in un paradiso dove la norma doveva essere “donna = madre e basta”. Delizia perché le donne che vogliono e scelgono di diventare madri accettano questo ruolo con una dedizione infinita, bellissima ma spesso al limite del martirio, viste le difficoltà che devono affrontare, cose che paradossalmente spesso non riguardano anche i padri (nonostante, bisogna dirlo, un figlio si faccia IN DUE).

Le parole del ex ministro dell’Interno non solo insultano la libertà delle donne di scegliere il destino dei loro corpi, una libertà sacrosanta, ma allo stesso tempo proseguono la lunga tradizione della “caccia alle streghe” sul tema dell’interruzione di gravidanza.
L’aborto in Italia non è reato, se eseguito nei modi e nei tempi stabiliti dalla legge. E la pillola abortiva non viene “regalata per strada”. Nel nostro paese e in tutto il mondo sono morte milioni di donne, prima che l’interruzione di gravidanza fosse legale. Questa veniva praticata (e in alcuni paesi è ancora così) con ferri da calza e altri oggetti che provocavano emorragie letali o problemi di salute per tante (troppe) donne. La legge 194 ha impedito ad altre di fare la stessa orribile fine. Perché, no, le donne non vogliono e NON DEVONO per forza essere madri. Le donne che decidono di abortire non sono mostri ma semplici esseri umani che come tutti hanno il diritto di autodeterminarsi in quanto individui nella società in cui vivono.  

Le donne che scelgono la maternità devono essere allo stesso modo rispettate e aiutate. Lo Stato dovrebbe dare loro tutto quello di cui hanno bisogno per sostentare i loro figli, dovrebbe non costringerle a scegliere tra una carriera e il loro ruolo di madri, dovrebbe educare tutti alla parità di genere e al rispetto di chi assume su di sé, uomini e donne, l’immenso compito di educare una generazione futura (a questo proposito, trovate QUI la petizione lanciata da “Il giusto mezzo”, il gruppo di donne che ha avanzato la proposta di destinare il 50% dei fondi del “Next Generation EU”, in Italia meglio conosciuto come “Recovery Fund“, a politiche a favore dell’occupazione femminile, della lotta alla disparità di genere e della creazione di servizi sulla cura della persona, dall’infanzia alla terza età, ).

È molto facile fare politica, urlare slogan “in favore delle donne e della vita”, quando si è uomini. E soprattutto quando si vive in un paese dove il corpo delle donne è continuamente strumentalizzato e sessualizzato ma la sessualità femminile è un tabù. Non si parla di educazione sessuale nelle scuole e quella all’affettività non si sa nemmeno cosa sia. Però abortire non si può e non si deve fare. Perché? Perché lo ha deciso Matteo Salvini? L’ex ministro è mai stato una donna? Sa cosa significa esserlo oggi?

Un’opinione è tale quando non lede la libertà di chi la pensa diversamente e le parole pronunciate ieri sono l’ennesimo attacco a chi difende rispettosamente la propria. Essere prochoice non significa disprezzare la vita ma affermare il diritto all’aborto legale e sicuro e riconoscere che la maternità non può essere imposta a chi, per mille motivi, non può o non se la sente di portare avanti una gravidanza. E, allo stesso tempo, lottare affinché chi vuole essere madre lo sia senza incontrare enormi difficoltà sul proprio cammino.

Non è ancora ben chiaro come in un paese che si definisce civile queste due cose siano incompatibili.  

Eleonora Panseri

Non uno stigma, non un lusso e nemmeno una scelta: parliamo di mestruazioni

Regolare o irregolare, lungo o breve, con flusso abbondante o scarso, preciso come un orologio svizzero o in preoccupante ritardo: il ciclo mestruale può avere più d’una di queste caratteristiche e nell’arco di 40 anni, una donna avrà circa 520 cicli. Fino all’arrivo della menopausa, una volta al mese, dovrà dare il benvenuto alle non sempre gradite (dipende dai casi) mestruazioni, che l’accompagneranno per diversi giorni. Si tratta, in primis, di un evento fisiologico, una cosa naturale, un “fenomeno ciclico, tipico delle femmine dei mammiferi placentali”, per usare una definizione più “tecnica”. Ma per molte donne queste sono una seccatura non indifferente, principalmente per due ragioni.

La prima è lo stigma che lo circonda. Fateci caso, difficilmente questo viene chiamato con il proprio nome: dal classico “sei diventata una signorina!” agli irritanti “ma hai le tue cose?!?” e “per caso, sei “indisposta”?”, il termine “mestruazioni” sembra essere una cosa che ad alta voce non si può dire. È capitato a tante donne, almeno una volta nella vita, di trovarsi sprovviste di assorbente al primo giorno di ciclo ed essere costrette a chiederlo ad amiche e conoscenti (anche a sconosciute, se la situazione lo richiede!). Quante hanno mantenuto e mantengono un tono di voce normale nel formulare questa richiesta? Quelle che possono rispondere affermativamente alla domanda sono davvero poche. Perché?
Nella maggior parte dei casi, per non incorrere nella derisione o nel disgusto di una buona parte della controparte maschile che costringe le donne a vivere questo naturale momento della vita come qualcosa di imbarazzante o sconveniente per mancanza di attenzione e sensibilità riguardo l’argomento. Dal menarca alla menopausa, il terrore di macchiare in pubblico vestiti o superfici su cui si è sedute è costante per tutta la durata delle mestruazioni. Perché non basta l’aver macchiato, a volte irrimediabilmente, un bel paio di pantaloni ma a questo bisogna aggiungere le occhiate o, peggio, le battute di amici e conoscenti.
Purtroppo, non si tratta di casi isolati ma di una mentalità che interessa tutta la società. Nel 2015 Rupi Kaur, giovane poetessa, scrittrice e illustratrice canadese di origine indiana, si è vista cancellare una delle foto pubblicate sul suo profilo Instagram perché questa violava le linee guida del social. La ragazza era semplicemente ritratta sdraiata e di spalle, con i pantaloni e le lenzuola del letto macchiate di sangue mestruale. Una foto censurata perché ancora oggi le mestruazioni vanno tenute nascoste, come se fossero una sorta di colpa, qualcosa di cui vergognarsi quando, in realtà, potrebbero essere considerate come un malanno stagionale o una gravidanza, a parità di “naturalità”. Ma perché, se quando una donna è incinta lo si grida ai quattro venti, è invece così strano e assurdo parlare liberamente di e avere le mestruazioni?

Il secondo punto che rende problematica la convivenza con queste “simpatiche” amiche è la questione “Tampon Tax, ovvero la tassazione sui prodotti per l’igiene intima femminile. Sono all’incirca 12.000 gli assorbenti che una donna consuma nell’arco della propria vita. E questa spenderà all’anno mediamente 126 euro, visto che il prezzo per una confezione si aggira intorno ai 4 euro. Di questi, 22,88 andranno allo Stato come imposta sul valore aggiunto perché nel nostro paese questo tipo di prodotti non sono considerati un bene di prima necessità e vengono tassati con un’aliquota al 22%, alla stessa stregua di beni di lusso, bevande, abbigliamento, prodotti di tecnologia o per la casa e automobili. A stabilire la classificazione dei prodotti in commercio in Italia suddivisa per fasce di imposta è un decreto del Presidente della Repubblica del 1972: tra i beni con un’Iva inferiore al 10%, e quindi considerati necessari, ci sono carne, birra, cioccolato, tartufo, merendine, francobolli da collezione, oggetti di antiquariato. Basilico e rosmarino sono tassati al 5%; latte e ortaggi, occhiali o protesi per l’udito al 4%, insieme con volantini e manifesti elettorali. Una domanda sorge spontanea: se le mestruazioni sono qualcosa di inevitabile, può una donna fare a meno degli assorbenti?
In Italia, secondo i dati Istat sulla povertà del 2019, “sono quasi 1,7 milioni le famiglie in condizione di povertà assoluta con una incidenza pari al 6,4% (7,0% nel 2018), per un numero complessivo di quasi 4,6 milioni di individui (7,7% del totale, 8,4% nel 2018)”. Ciò significa che mantenere le tasse sugli assorbenti così alte è qualcosa di profondamente ingiusto, una pratica che incentiva la cosiddetta “period poverty” ed è lesiva del diritto alla salute delle donne che faticano ad affrontare le spese per il loro sostentamento, per le quali gli assorbenti non possono e non devono essere un lusso.

In Europa sono diversi i paesi virtuosi in materia di “Tampon Tax“: nel primo mese del 2021 il Regno Unito ha rinunciato alla tassa sugli assorbenti, unendosi all’Irlanda e alla Scozia che durante l’anno appena conclusosi ha deciso di rendere universale e gratuito l’accesso ai prodotti per l’igiene intima femminile.
In Italia sono molte le associazioni che tentano di sensibilizzare sul tema, anche attraverso i social network. “No Tampon Tax Italia“, per esempio, si occupa interamente di questo argomento (su Instagram e su Facebook) e qualche anno fa l’associazione “Onde Rosa“, insieme a “Weworld”, ha lanciato una petizione, “Stop Tampon Tax, il ciclo non è un lusso!” che ad oggi conta quasi 500.000 firme (fai la cosa giusta, clicca qui e firmala anche tu ;)). Le associazioni studentesche dell’Università La Statale di Milano sono riuscite, per la prima volta in Italia, a far installare distributori di assorbenti a prezzi calmierati (20 centesimi l’uno) all’interno delle sedi di città Studi, via Festa del Perdono e via Conservatorio.
In più, dal novembre 2019, l’Iva è stata ridotta al 5% sugli assorbenti biodegradabili e compostabili. Tuttavia, questi rappresentano solo l’1% dei prodotti in commercio e sono poche le donne che vi fanno ricorso.

Nei primi giorni del mese di gennaio in Italia ha visto la luce la nuova legge di bilancio nella quale la tassazione sugli assorbenti è rimasta purtroppo invariata.
Si può continuare a fare finta che il problema non esista? O che per le donne le mestruazioni siano una scelta?
La risposta è soltanto una: assolutamente no.

Eleonora Panseri

*Per saperne di più sull’argomento:
Dataroom di Milena Gabanelli: “Il tartufo è un bene primario, gli assorbenti no“;
European Data Journalism Network: “Iva sugli assorbenti femminili: la metà dei Paesi Ue li tratta al pari di sigarette e alcolici”;
Qualcosa di Buono:Assorbenti a basso costo alla Statale di Milano: quand’è che aboliamo la Tampon Tax?