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Potrebbe essere una donna il nuovo presidente del Consiglio?

Autorevole e competente.
Emma Bonino, parlamentare di “Più Europa” ed ex Ministra degli Affari Esteri, pensa siano queste le caratteristiche di un premier.
E se queste le avesse una donna, sarebbe davvero così utopico?

In questi giorni di consultazioni si continuano a sentire nomi su nomi, nel bene e nel male. Ma non emerge mai una proposta femminile per la posizione centrale di Governo. Solo Emma Bonino ha sollevato la questione. È così impensabile che in Italia venga scelto un capo di Governo che non sia un uomo?

Un primo ministro dovrebbe essere autorevole e competente perché sta guidando una nazione, non sta giocando una partita a poker in una serata tra amici (mi permetto di aggiungere che chiunque entri in politica dovrebbe esserlo, ma in effetti così entriamo in un’utopia che rasenta la distopia). Ma in Italia preferiamo metter davanti il genere alla capacità
politica e governativa della persona. Non riconosciamo le donne come leader e in parte è anche responsabilità di noi donne.

Come al solito è tutto causa e conseguenza di una politica fatta da e per gli uomini. Basti pensare alla scena ridicola di Matteo Renzi in conferenza stampa che parla al posto delle Ministre dimissionarie del suo partito politico (le “ministre della discordia,” Bonetti e Bellanova). Hanno avuto entrambe degli spazi per esprimersi e credo siano emerse come personaggi competenti, ma sono state letteralmente fagocitate dall’egocentrismo di Renzi.

Oggi il personaggio politico femminile più di spicco nel Parlamento italiano è Giorgia Meloni, nota più per le sue affermazioni social alla “Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, etc.” e alle sue visioni conservatrici che effettivamente fanno poco paura al patriarcato (basti pensare che i suoi commenti sulla questione dell’aborto in Polonia sono quasi identici a quelli di Matteo Salvini).

In ogni caso, siamo sempre delle “Cenerentole”, cerchiamo, sì, di prenderci delle piccole quote di potere, ma quando si tratta di occupare la poltrona più importante non abbiamo neanche una candidata da proporre.
Nel 2018 un avvocato pugliese semisconosciuto con studio a Roma è stato scelto come “Presidente di garanzia”, tale Giuseppe Conte. Si è poi trovato a gestire una prima crisi nel 2019 (con Salvini direttamente da Riccione, e temo faccia già ridere così) e una seconda nel 2021 (Renzi, in piena emergenza pandemica, pur sollevando delle questioni rilevanti ha avuto indubbiamente un pessimo tempismo).
Non ho fatto nomi a caso, ho intenzionalmente scelto di sottolineare come, ancora una volta, a reggere le fila della politica italiana che conta siano gli uomini. E vi cito un paio di eventi recenti per parlare di
questi personaggi.
Matteo Salvini è il politico che preferisce evitare i prestiti del Recovery per usare solo finanziamenti di mercato a fondo perduto, geniale strategia che consentirebbe di pagare ben 25 miliardi in più nei prossimi 10 anni, visto che notoriamente navighiamo in buone acque (il professor Cottarelli gli ha anche gentilmente offerto una lezione di economia in televisione per insegnargli a fare i calcoli).
Matteo Renzi è invece quello che dopo aver aperto una crisi politica, ha preso un jet privato per andare ad intascare il denaro del “grande principe Mohammad bin Salman”, augurandosi un “nuovo rinascimento”
in Arabia Saudita (peccato che quando era al governo a noi italiani offriva in busta paga solo 80 euro di bonus, illuminato…).
Sono questi personaggi autorevoli e competenti? A voi l’ardua sentenza. Ma come italiani possiamo fare sicuramente di meglio.

E come italiane dovremmo fare di più per abbattere il famoso “glass ceiling“, il famoso “soffitto di cristallo”, e contribuire attivamente, di più e ancora meglio, al nostro paese. In fondo, non è un momento storico decisamente propizio per provarci?
Alla Casa Bianca, Kamala Harris ha dimostrato che si può fare.
In Estonia, Kersti Kaljulaid e Kaja Kallas ricoprono le cariche più alte dello Stato, rispettivamente Capo di Stato e Capo di Governo.
In Nuova Zelanda, Jacinda Ardern è stata internazionalmente riconosciuta come una delle migliori leader nella gestione della pandemia da coronavirus.

Quando toccherà a noi?

Eleonora Scialo

Aggiornamento: nella giornata di ieri, durante le Consultazioni, sembra sia stato fatto il nome della costituzionalista Marta Cartabia per il ruolo chiave di Palazzo Chigi.

Vivere da “Invisbili”

A chi crede che oggi il femminismo non abbia senso o che sia lesivo per la società e per le donne stesse bisognerebbe far leggere questo libro. Non è un testo semplice ma deve essere annoverato tra gli “essenziali” per capire come molte rivendicazioni del movimento femminista non siano semplicemente frutto del delirio collettivo di una massa informe di pazze.
Caroline Criado Perez, scrittrice, giornalista e attivista, ha pubblicato “Invisibili” l’anno scorso, una riflessione che di astratto non ha nulla. Nelle oltre 400 pagine di questo saggio, forse uno dei migliori del 2020, l’autrice parla di dati. O, meglio, di dati raccolti che non vengono presi in considerazione. In una realtà come quella in cui viviamo oggi i data sono strumenti essenziali e lo sono sempre stati perché è proprio sulla base di queste informazioni che costruiamo il mondo che ci circonda.

Cosa c’entra tutto questo con il femminismo?
La risposta ce la dà direttamente Criado Perez nella sua Prefazione:

“La storia dell’umanità, così come ci è tramandata, è un enorme vuoto di dati”.

L’autrice parla di quel fenomeno, il gender data gap, la mancanza di dati di genere, che impedisce alle donne di vedersi realmente rappresentate nelle società in cui vivono e operano. E se, come si legge nel libro, doversi vestire pesante anche in estate perché l’aria condizionata è regolata in base alla media della temperatura dei corpi maschili o dover compire uno sforzo per raggiungere i prodotti posti su scaffali che per un uomo sono di un’altezza adatta ma troppo alti per le donne possono sembrare cose “stupide”, paranoie femminili, decisamente più grave è “avere un incidente su un’auto con dispositivi di sicurezza che non tengono conto delle misure femminili” o “avere un attacco di cuore che non viene diagnosticato perché i sintomi sono considerati “atipici”.

Questa assenza di dati il più delle volte non è intenzionale, ci mancherebbe. Ma negare cocciutamente che questa disparità non esista è pura follia.

“La mia tesi è che il vuoto dei dati di genere sia al tempo stesso causa ed effetto di quella sorta di non-pensiero che concepisce l’umanità come quasi soltanto maschile”,

dice Criado Perez. E chi sostiene il contrario si troverà in difficoltà di fronte alla mole di dati raccolti dall’autrice e divisi per temi. Dalla vita quotidiana a quella pubblica e nei luoghi di lavoro, dalla salute alla rappresentazione femminile, la realtà viene filtrata attraverso quei numeri che spesso continuano a non essere considerati e che potrebbero invece aiutare ad avvicinarci di più ad un mondo paritario.

Leggete questo libro, parlatene, continuate a lottare se credete che ci siano ingiustizie che non possono e non devono continuare ad esistere. Questo libro Caroline Criado Perez lo dedica a tutte noi:

Per le donne che non mollano: siate sempre maledettamente difficili”.

Eleonora Panseri

Marisa Rodano, un secolo di lotte

Le donne italiane espressero il loro primo voto nel 1946 e Marisa, che in quell’anno aveva solo 25 anni, per il suffragio femminile ha combattuto in prima linea. Lo ha fatto insieme all’UDI, l’Unione donne italiane: il movimento, nato ufficialmente nel settembre del 1944 a Roma sotto l’ala del Partito Comunista Italiano, l’8 marzo 1946 sceglierà su sua iniziativa la mimosa come fiore-simbolo della Giornata Internazionale della Donna. Marisa presiederà l’UDI dal 1956 al 1960.

Quella per il voto però non è stata l’unica lotta per questa donna che oggi compie 100 anni e che è un esempio di infaticabile impegno nella lunga strada per il riconoscimento dei diritti delle donne.

Maria Lisa Cinciari Rodano, nata a Roma il 21 gennaio 1921, nel maggio del 1943 viene arrestata per attività contro il fascismo e detenuta per qualche tempo nel carcere delle Mantellate. Subito dopo la caduta del fascismo entra a far parte dei Gruppi di difesa della donna, diventando una partigiana. Partecipa a una “resistenza senza armi”, come la definisce nelle sue “Memorie di una che c’era“:

“Non ho mai preso un’arma in mano se non per trasportarla e ho fatto soltanto quello che centinaia di donne hanno fatto in quei mesi”.

Alla fine della guerra è nel consiglio comunale di Roma, nel 1948 entra alla Camera (di cui sarà vicepresidente dal 1963, la prima donna nella storia repubblicana a ricoprirne la carica). Cinque anni dopo arriva anche al Senato. Dal 1979 è all’Europarlamento e vi resta per dieci anni: dal 1981 al 1984 in qualità di presidente e relatrice generale della Commissione d’inchiesta del Parlamento Europeo sulla “Situazione della donna in Europa”, dall”84 come vicepresidente della Commissione dei diritti delle donne del Parlamento Europeo.

Marisa ha speso e continua a spendere la sua esistenza per il riconoscimento della parità di genere, un traguardo che è ancora lontano dall’essere raggiunto. Ma i passi avanti fatti sono tanti e tante sono le donne che si rendono conto che le cose vanno cambiate.

“Un consiglio da dare? Il primo è: fare squadra, non isolarsi, non avere sempre l’atteggiamento di vendersi al meglio sul mercato individualmente. Il secondo è di studiare e di leggere. E nel rapporto con gli uomini cercare un rapporto che sia possibilmente paritario e non di subordinazione”.


E se lo dice una persona come Marisa Rodano, che ha contribuito concretamente a fare l’Italia, possiamo davvero fidarci.
Buon compleanno!

Eleonora Panseri

Note: QUI potete trovare una recente splendida intervista di Marisa Rodano.

La libertà di essere (o non essere) madre

Ieri sera il Senato ha confermato con 156 voti favorevoli la fiducia al governo Conte bis. Anche se la maggioranza relativa non renderà le cose facili all’esecutivo, l’Italia tira un sospiro di sollievo. Quello che però colpisce, in un’ottica femminile e femminista, sono le parole pronunciate dal leader della Lega Matteo Salvini. Durante il suo intervento, l’ex ministro ha tuonato: “il nostro modello sono i centri d’aiuto alla vita, non le pillole abortive regalate per strada a chiunque”.
Così poche parole, così tante cose sbagliate.

La maternità è da sempre “croce e delizia” delle donne di tutti i tempi e di ogni parte del mondo. Croce perché la storia le ha relegate (e spesso ancora le relega) al ruolo esclusivo di genitrici, privandole della possibilità di occuparne di diversi, etichettando quelle che non riuscivano o non volevano avere figli come delle disgraziate, come angeli ribelli in un paradiso dove la norma doveva essere “donna = madre e basta”. Delizia perché le donne che vogliono e scelgono di diventare madri accettano questo ruolo con una dedizione infinita, bellissima ma spesso al limite del martirio, viste le difficoltà che devono affrontare, cose che paradossalmente spesso non riguardano anche i padri (nonostante, bisogna dirlo, un figlio si faccia IN DUE).

Le parole del ex ministro dell’Interno non solo insultano la libertà delle donne di scegliere il destino dei loro corpi, una libertà sacrosanta, ma allo stesso tempo proseguono la lunga tradizione della “caccia alle streghe” sul tema dell’interruzione di gravidanza.
L’aborto in Italia non è reato, se eseguito nei modi e nei tempi stabiliti dalla legge. E la pillola abortiva non viene “regalata per strada”. Nel nostro paese e in tutto il mondo sono morte milioni di donne, prima che l’interruzione di gravidanza fosse legale. Questa veniva praticata (e in alcuni paesi è ancora così) con ferri da calza e altri oggetti che provocavano emorragie letali o problemi di salute per tante (troppe) donne. La legge 194 ha impedito ad altre di fare la stessa orribile fine. Perché, no, le donne non vogliono e NON DEVONO per forza essere madri. Le donne che decidono di abortire non sono mostri ma semplici esseri umani che come tutti hanno il diritto di autodeterminarsi in quanto individui nella società in cui vivono.  

Le donne che scelgono la maternità devono essere allo stesso modo rispettate e aiutate. Lo Stato dovrebbe dare loro tutto quello di cui hanno bisogno per sostentare i loro figli, dovrebbe non costringerle a scegliere tra una carriera e il loro ruolo di madri, dovrebbe educare tutti alla parità di genere e al rispetto di chi assume su di sé, uomini e donne, l’immenso compito di educare una generazione futura (a questo proposito, trovate QUI la petizione lanciata da “Il giusto mezzo”, il gruppo di donne che ha avanzato la proposta di destinare il 50% dei fondi del “Next Generation EU”, in Italia meglio conosciuto come “Recovery Fund“, a politiche a favore dell’occupazione femminile, della lotta alla disparità di genere e della creazione di servizi sulla cura della persona, dall’infanzia alla terza età, ).

È molto facile fare politica, urlare slogan “in favore delle donne e della vita”, quando si è uomini. E soprattutto quando si vive in un paese dove il corpo delle donne è continuamente strumentalizzato e sessualizzato ma la sessualità femminile è un tabù. Non si parla di educazione sessuale nelle scuole e quella all’affettività non si sa nemmeno cosa sia. Però abortire non si può e non si deve fare. Perché? Perché lo ha deciso Matteo Salvini? L’ex ministro è mai stato una donna? Sa cosa significa esserlo oggi?

Un’opinione è tale quando non lede la libertà di chi la pensa diversamente e le parole pronunciate ieri sono l’ennesimo attacco a chi difende rispettosamente la propria. Essere prochoice non significa disprezzare la vita ma affermare il diritto all’aborto legale e sicuro e riconoscere che la maternità non può essere imposta a chi, per mille motivi, non può o non se la sente di portare avanti una gravidanza. E, allo stesso tempo, lottare affinché chi vuole essere madre lo sia senza incontrare enormi difficoltà sul proprio cammino.

Non è ancora ben chiaro come in un paese che si definisce civile queste due cose siano incompatibili.  

Eleonora Panseri

Regola numero uno del lockdown: non guardare vecchie serie tv

È di questi giorni la conferma dell’uscita di un sequel di Sex and the City, telefilm cult degli anni 2000: si chiamerà “And just like that…” e seguirà la vita di 3 delle quattro protagoniste della serie originaria.

Ora, qui scatta una grande domanda, e non si tratta di valutare se bannare Trump dai social media sia giusto o sia una lesione della libertà di espressione. La questione è: ci serve davvero l’ennesima serie fintamente femminista nel 2021? Non ho la soluzione universale al problema, ma di sicuro mi sono fatta un’idea, e da donna voglio condividere il mio rapporto di amore e (più recentemente) odio con questa serie per rispondere.

Ho 15 anni e sono iscritta al liceo Classico di una cittadina di provincia del Piemonte orientale che mi sta terribilmente stretta. Ho mille sogni nel cassetto e altrettante ambizioni rinchiuse nell’armadio. I fighetti vanno in giro con degli improbabili jeans Richmond con l’inequivocabile scritta RICH stampata sul sedere (non negatelo, è come la mutanda con l’elastico logato di Calvin Klein… l’abbiamo fatto tutt*.)

Il mio telefilm preferito è Sex and the City (non era ancora uscito Lost, non giudicatemi). Carrie Bradshaw, la protagonista, 30enne bionda magrissima, scrive un editoriale su “The New York Star” dove parla di sesso, cuori spezzati et similia, vive a Manhattan, ha più scarpe che fidanzati e va in giro con le stesse borse firmate che ogni tanto vedo anche nell’armadio di mia madre (e che puntualmente le rubo, scusa mamma).

Insomma il dream factor di questa serie colpisce e rapisce quell’adolescente un po’ superficiale e illusa che è in me.

Ho 31 anni, è un pomeriggio di metà novembre, affronto l’ennesimo momento di lockdown dell’anno e, tra lo scocciata e l’annoiata, accendo la tv. La rivelazione: su Sky Atlantic trovo Sex and the city, la serie completa. Emozionata, decido di iniziare una maratona della serie che ha segnato la mia adolescenza. Seleziono la prima puntata della prima serie e incomincio.

In un secondo torno nel 1998, il pilot esce il 6 giugno* ed è una serie rivoluzionaria perché per la prima volta sul piccolo schermo compare, signori e signori…la donna single! Anzi, ancora meglio.

La donna single indipendente, con un buon lavoro, che le permette addirittura di mantenersi da sola accumulando baguette di Fendi e vestiti disegnati da John Galliano. La donna single che in macchina da sola, allo sportello del drive-in, chiede “un cheeseburger, patatine grandi e un Cosmopolitan”. La donna single che osa addirittura parlare di sesso in modo disinibito, di uscire con un uomo una mezza sera, che se lo porta a letto e il mattino dopo lo restituisce al mondo, o dove l’ha trovato, dimenticandoselo per sempre. La donna che nella secolare diatriba “donna riproduttrice / produttrice” sceglie di ignorare gli istinti materni per dedicarsi alla carriera.

Tra l’altro Carrie Bradshaw è talmente moderna che lavora da casa (nel suo piccolo ma meraviglioso bilocale nel West Village, ça va sans dire) con quella bomba del suo Macbook, quando noi eravamo ancora i fedelissimi di quei pc squadrati, pesanti, brutti, di quell’orripilante grigio antracite ed è quindi antesignana dello “smartworky contiano”, passatemi il neologismo.

Ora, dimentichiamoci per un attimo di alcune incoerenze devastanti che riporterò con la stessa brutalità con cui gli autori ce le hanno sbattute in faccia all’epoca: Carrie scrive quattro righe al mese su un giornale, ma vive a Manhattan, compra scarpe da 400$ a paio (quattrocento dollari, nei primi anni 2000), frequenta locali e feste esclusive e concediamoglielo, ogni tanto ammette di avere il conto in rosso (guarda un po’!) ma continua imperterrita la sua vita scintillante, e beata lei!, mi permetto di aggiungere.

Torniamo a noi. Dicevamo: vent’anni fa è una serie innovativa. Oggi…no. Quindi il punto è: cosa non funziona oggi della serie e perché io, che mi sento fortissimamente donna, sento l’esigenza di condividere alcune questioni che mi hanno scosso.

Il problema fondamentalmente è a monte, ed è molto semplice: è scritta da un uomo, Darren Starr, e di conseguenza il punto di vista è maschile.

Le protagoniste sono tratteggiate secondo i soliti cliché: Carrie e le sue amiche sono quattro gnocche (scusate il francesismo) super perfette in tutto. Io sono una normalissima single che non cambia pettinatura ad ogni stagione (i miei capelli sono lunghi e spettinati dal 1989), che deve rinunciare all’ennesimo paio di scarpe firmate perché una persona che si mantiene da sola non si può permettere di vedere il conto in rosso, che apprezza anche le relazioni complicate per non annoiarsi troppo ma si stufa comunque di un uomo in 30 ore massimo, e che nonostante vada a correre per km da anni, inizia a intravedere i primi segni di cellulite.

Alle certezze granitiche che Carrie poeticamente scrive sul suo spazio media contrappongo insicurezze quotidiane e indovinate un po’? Neanche un terzo delle mie problematiche è dovuto agli uomini (come diceva Jay Z, “I got 99 problems but the man ain’t one”. No, forse non faceva così ma comunque…).

E ho tantissime amiche che stanno costruendo carriere grandiose senza l’aiuto di nessuno, che si risolvono i loro problemi da sole, rimboccandosi le maniche, e che vivono benissimo con o senza un uomo (pazzesco, no?). E farò nomi perché è arrivato il momento di supportarci e valorizzarci, sempre: Giulia, Sofia… forse non ve lo dico mai, mea culpa!, ma a voi va il mio più grande moto di stima.

Ma torniamo a Carrie e al suo mondo dorato. Non esiste ancora il movimento Me too, ma siamo nel 1998 (il 1968 è passato da trent’anni ma la situazione rimane questa), e la posizione sociale della donna ce la vuole raccontare…un uomo. Per citare Rebecca Solnit, che scrive meglio di me, sintetizzerei il tutto con…”gli uomini che spiegano le cose”. Con la prospettiva di oggi parleremmo di mansplaining, o il “minchiarimento” di murgiana memoria. Il Post lo definisce come “l’atteggiamento paternalistico di alcuni uomini (ma non solo) quando spiegano a una donna qualcosa di ovvio, oppure qualcosa di cui lei è esperta, perché pensano di saperne sempre e comunque più di lei oppure che lei non capisca davvero.” Qui l’articolo in cui se ne parla, e qui potete trovare un “bell’esempio” recente: il caso “Parrella-Augias” che ha coinvolto la scrittrice Valeria Parrella, Giorgio Zanchini e Corrado Augias. Gli ultimi due sono giornalisti, a mio parere, validi e indubbiamente competenti ma sulla questione femminista hanno fatto obiettivamente un fin troppo evidente scivolone. E, non senza una certa arroganza, in questi momenti dovremmo rispondere: “Scendi dal piedistallo, tu sei un uomo e, quindi, questa questione vorrei spiegartela io”. Visto che abbiamo subito il patriarcato per secoli, se una volta ogni tanto vi spieghiamo noi qualcosa, miei cari uomini, va bene così.

Il punto è: gli uomini possono parlare di femminismo? Si, certo. Devono. Vogliamo sapere il loro punto di vista. E abbiamo bisogno di uomini femministi. Ma devono abbandonare quell’atteggiamento saccente che si portano dietro dalla notte dei tempi, perchè sulla questione non ne sanno più di noi. Esempio pratico: io, donna bianca e privilegiata, dall’altro della mia fortuna, posso parlare di “Black Life Matters”? Probabilmente si e sinceramente mi sento in dovere di supportare questo movimento. Ma posso mai permettermi di spiegarlo ad una donna di colore che subisce il suo destino da millenni? Assolutamente no.

Un’altra tematica che ho sempre sottovalutato, ma questa volta non mi sono fatta sfuggire: il rapporto tra donne. La narrazione è fortemente stereotipata, per usare un eufemismo. Le 4 amiche si supportano tra loro, hanno un rapporto così perfetto che può esistere solo ed esclusivamente nella finzione cinematografica: il tipo di rapporto che forse alcune di noi vorrebbero avere con le loro amiche. Ma la cosa che mi colpisce di più (in negativo, sia chiaro) è la cattiveria con cui scagliano giudizi nei confronti delle altre donne, avvalorando quel tremendo cliché che vede le altre donne come le più temili nemiche delle donne. Se non fai parte del mio ristretto gruppo sociale, sei la nemica. Terribile.

E infine, quello che ha definitivamente distrutto il mito: la realtà è che, tra alti e bassi, cuori più o meno spezzati, relazioni più o meno lunghe e più o meno significative, tutte e quattro le protagoniste cercano, per ben sei stagioni e due film, il grande amore della loro vita e si sposano. Se questa cosa non vi ricorda niente, vi dico io con una parola sola che cosa ricorda a me. Patriarcato.

L’obiettivo della donna, anche se indipendente, è quello: accasarsi. Vogliamo veramente tutte solo questo? Il grande amore da sposare un giorno?

Tra l’altro Carrie, la super esperta di sentimenti, alla fine sceglie proprio lui, “Mr Big”, il gran figo che mette sempre davanti il suo lavoro a tutto il resto, quello che la prende e la lascia mille volte, quello che ogni tanto è così inebetito e indifferente che viene lasciato perché non ha neanche voglia di lasciare, quello che alla fine le chiede di sposarla e la abbandona all’altare senza nessuna ragione (se non quella narrativa di riempire due ore di film, voglio sperare).

E no, questa non è una relazione romantica, non è un amore struggente, M.r Big non è Heathcliff, e Carrie non è “una di noi“. Questo è proprio un messaggio sbagliato (del resto mi piace ricordarlo di nuovo, la serie l’ha ideata un uomo). E ragazze: se un uomo vi tratta così, per favore, non accettate questo tipo di comportamento. Il mio consiglio è di riportarlo dove molto probabilmente l’avete trovato: nel cassonetto del non riciclabile.

Ho passato l’adolescenza a sognare Carrie, le sue amiche, le sue gambe perfette, il suo guardaroba, la sua Saddle di Dior, il suo Mac, il suo lavoro, New York, i Cosmo, i taxi che si fermano con uno schiocco delle dita, i discorsi osé di Samantha, Mr. Big, Hayden, la fuga d’amore a Parigi…

Oggi a pensarci impallidisco. Sono sicura che, se la donna che sono diventata oggi avesse visto Sex and the city quindici anni fa, probabilmente avrebbe abbandonato tutto alla seconda puntata. Sicuramente chi sostiene la tesi secondo la quale questa serie sia femminista risponderebbe a qualsiasi mio commento con una frase del genere: “Ricordiamoci che è una serie del 1998.”

Vero. Ma vorrei comunque ribattere, e lo farò nel seguente modo.

1929, Virginia Woolf pubblica “Una stanza tutta per sé”.

Era femminista quando è stato pubblicato? Si.

Lo si può considerare tale anche oggi? SI.

1949, Simone de Beauvoir pubblica “Il secondo sesso”.

Era femminista allora? Si.

Lo è ancora oggi? SI.

Leggere per credere. Non capisco se la serie sia anacronistica, se siamo cambiate, se il mondo è diverso da 15 anni fa e la dinamica femminista negli ultimi anni si è fortunatamente evoluta. Forse, come canta Mia Martini “quando la moda cambia, la gente cambia”. E io, che sono indubbiamente cambiata, non sono più tanto sicura che una serie così faccia bene a noi donne. Quindi reiterare questi messaggi attraverso una serie sequel forse non è una scelta femminista. Anzi. E tu, mia cara Carrie Bradshaw, perdonami, ma sei esattamente il tipo di donna che io oggi non voglio essere.

*(una nota: in Italia, la nazione in cui si arriva sempre in ritardo su ogni cosa, va in onda il 10 marzo 2000, non ridiamo).

Capitol Hill, le donne che si oppongono a Donald Trump

Durante l’assalto a Capitol Hill la partecipazione femminile è stata nutrita. Nonostante la tutt’altro che segreta misoginia di Donald Trump, ci sono donne che hanno sostenuto e continuano a sostenere il 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America. Ma dopo i fatti del 6 gennaio non sono mancate le voci di quante si sono mostrate apertamente contrarie alla politica del tycoon sin dai tempi della campagna elettorale e, a sorpresa, anche di coloro che hanno fatto parte del suo entourage e partecipato attivamente al suo esecutivo.

Tra le prime ad aver espresso con decisione il proprio dissenso, c’è la presidentessa della camera dei rappresentanti degli Stati Uniti d’America, Nancy Pelosi. Durante l’attacco ha richiesto l’intervento della Guardia Nazionale e subito dopo l’attacco ha invocato il 25esimo emendamento della Costituzione americana che consentirebbe al vicepresidente, Mike Pence, e alla maggioranza dei membri del governo di rimuovere il presidente se per qualche ragione non fosse più in grado di ricoprire il proprio ruolo. Pence assumerebbe così a tutti gli effetti il ruolo di presidente nei pochi giorni che restano prima dell’effettiva entrata in carica di Joe Biden. Non è la prima volta che Pelosi contesta l’operato di Trump. Già qualche tempo, a settembre del 2019, la procedura di impeachment era stata avviata dalla presidentessa a seguito

A favore della rimozione si sono espresse anche le due deputate Ilhan Omar e Alexandria Ocasio-Cortez. Omar la sera stessa della violenta incursione all’interno del Campidoglio ha scritto un lungo tweet, sostenendo l’idea che la rimozione del presidente sia necessaria per “preservare la repubblica” e per “rispettare il nostro giuramento”. Ocasio-Cortez è stata decisamente più sintetica: “Impeach”.

Un fatto così grave non ha scosso solamente le avversarie di “The Donald”.
“I disordini mi hanno profondamente turbato” ha dichiarato Elaine Chao, l’ormai ex ministra dei Trasporti. Seguita da Betsy DeVos, tra i più strenui difensori dell’operato del presidente e ministra dell’Istruzione dimissionaria. Nella lettera con cui ha lasciato il suo incarico, ha duramente criticato quanto accaduto, definendo “inconcepibili” le azioni dei sostenitori di Trump e ha indicato come indubbia causa scatenante dei fatti la retorica aggressiva del presidente uscente. E la senatrice repubblicana Lisa Murkowski, intervistata dall’Anchorage Daily News e dall’Alaska Public Media, non ha usato mezzi termini: “”Non posso più tacere, voglio che Trump si dimetta. Lo voglio fuori. Ha causato abbastanza danni”.

A queste si aggiungono Stephanie Grisham, capo dello staff di Melania Trump, Rickie Niceta, segretaria della First Lady Melania Trump per gli affari sociali, e Sarah Matthews, vice addetta stampa di “The Donald”, definitasi “profondamente turbata da ciò che ho visto oggi”, che hanno deciso di abbandonare i propri ruoli per prendere le distanze da quanto successo.

Nel 1920 le donne americane hanno ottenuto il diritto di votare i propri rappresentanti e nel 2020 una donna, Kamala Harris, è stata eletta vicepresidente per la prima volta nella storia degli Stati Uniti. In 100 anni sono stati raggiunti tanti traguardi e, anche se la strada per raggiungere la parità è ancora lunga, di sicuro le donne non hanno più paura di dire forte e chiaro “I dissent”. E non sono disposte ad accettare un “No, you can’t” come risposta.

Eleonora Panseri

Questo articolo si inserisce in un progetto condiviso con i colleghi della scuola Walter Tobagi di Milanoqui trovate tutte le riflessioni ispirate dall’assalto di Capitol Hill.

Capitol Hill, le donne radicali e violente di Trump

Che Donald Trump amasse le donne lo sapevamo già: appassionato di concorsi di bellezza, è stato sposato tre volte, per un totale di cinque figli. Che sia un buon marito invece è tutto da vedere.

Anche prima di arrivare alla Casa Bianca, il tycoon non ha mai perso occasione di bersagliare le donne: offensivo, allusivo, inneggiante allo stupro.

Eppure loro stesse non hanno mai smesso di sostenerlo: alle elezioni del 2016 prima, per sventare l’impeachment poi, durante l’assalto di Capitol Hill alla fine (sarà davvero la fine?).

Durante l’assalto del 6 gennaio la partecipazione delle donne non è stata marginale. Sebbene i Proud Boys, uno dei principali gruppi di estrema destra che sostengono Trump, sia composto esclusivamente da uomini, la risposta femminile non è stata da meno. Le registe dei tafferugli sarebbero infatti le fondatrici del movimento “Women for America first”, Kylie Jane Kremer e sua madre Amy. Proprio quest’ultima è una repubblicana ultra conservatrice di ferro, attivista e esponente di punta del gruppo “Tea Party” dal 2009.

Per non farsi mancare nulla, nel 2020 hanno deciso di dare vita al gruppo Facebook “Stop the steal”, convinte che i brogli elettorali a danno di Trump siano realtà, poi chiuso dalla stessa piattaforma perché accusato di diffondere informazioni false e fuorvianti. Ma la perseveranza di Kylie l’ha portata a riaprire lo stesso gruppo su Twitter, e sarebbe proprio qui che è stata organizzata la marcia verso la sede del Congresso Usa. Ad una prima analisi, lei e la madre non avrebbero partecipato materialmente agli scontri, ma è opera di Kilye il video del discorso che circola in rete in cui Trump istiga la folla.

E poi c’è QAnon, la teoria del complotto di estrema destra. Il leader più rappresentativo è sicuramente Jake Angeli (al secolo Jacob Anthony Chasley), sciamano dal copricapo di pelliccia e le corna vichinghe. Però, inaspettatamente, la maggioranza dei seguaci del gruppo è donna. Una delle cinque vittime dell’assalto infatti è Ashli Elizabeth Babbitt, veterana dell’Air Force e adepta di QAnon. L’altra è Rosanne Boyland. Erano entrambe giovani, entrambe convinte che il mondo sia governato da una cricca di pericolosi pedofili ostacolati unicamente dall’ex re dei concorsi di bellezza.

Molti degli atti di violenza perpetrati in nome di QAnon hanno una firma femminile: a maggio Jessica Prim è stata arrestata per aver trasmesso in diretta social la sua spedizione verso New York per rimuovere Biden, il tutto in possesso di decine di coltelli. Poco più tardi, ad agosto, in Texas un’altra sostenitrice di QAnon è stata accusata di aver aggredito delle persone che credeva coinvolte nel rapimento di un bambino.

Ma perchè QAnon ha così presa sulla psiche femminile? Per parlare del valore delle donne si fa sempre riferimento alla loro innata capacità di essere empatiche, materne e comprensive con tutti. Doti che da un lato possono incrementare le capacità di leadership, dall’altro portare a gesti estremi. Come lo Stato Islamico, QAnon ha capito che per coinvolgere le donne e renderle pericolose è necessario fare leva sul loro altruismo e sull’istinto protettivo nei confronti degli indifesi.

Quindi, se il motto “salviamo la razza bianca” ha più effetto su maschi giovani e disillusi dalla realtà, “salviamo i bambini dai pedofili e dal traffico di esseri umani” ha un impatto fortissimo sulle donne.

Gli stereotipi che aleggiano intorno alla donna radicalizzata possono essere molto pericolosi. Infatti, ha molte meno probabilità di essere arrestata nel corso di una manifestazione violenta proprio perché la si ritiene meno convincente in “vesti militari”. Tutto questo per dire che sì, le donne sono più impressionabili se si parla di reati a danno dei bambini, ma no, non sono mediamente più buone ed equilibrate degli uomini. La crudeltà è una questione di potere e, fino ad ora, è stato sempre in mano maschile.

Se volete scoprire chi sono le donne che hanno contrastato Trump cliccate qui!

Chiara Barison

Questo articolo si inserisce in un progetto condiviso con i colleghi della scuola Walter Tobagi di Milano, qui trovate tutte le riflessioni ispirate dall’assalto di Capitol Hill.

“Lucky” o l’apologia della brava ragazza

«Molti di noi hanno uno scopo che non scelgono, ma che al contrario va a stanarli con l’ostinazione tipica di questo genere di fenomeni. Sottrarsi a questo non era possibile, per il mio bene e per quello di tutte le vittime ridotte al silenzio dalla vergogna o da imperativi familiari o culturali».

Alice Sebold aveva solo 18 anni quando, diretta verso la residenza universitaria di Syracuse in cui alloggiava, è stata aggredita e violentata da uno sconosciuto. Nel suo libro c’è tutto il dolore dell’evento in sé, compresa la tragicità del riviverlo per farne una testimonianza che sia di aiuto per gli altri.

“Lucky”, fortunata, così è stata definita dal poliziotto che raccolse la sua deposizione quella notte del 1981. Nello stesso luogo un’altra ragazza prima di lei fu uccisa. «Uno stupratore può violentare non solo il corpo ma anche la mente – spiega Sebold – se potessi avere una gomma magica e cancellare quella notte lo farei in un batter d’occhio».

Nonostante tutto, Sebold riesce a scorgere l’abbozzo di una benedizione: l’autrice si sofferma ad analizzare il ruolo che l’estrazione sociale delle parti in causa ha avuto nel processo. Lei infatti è bianca, benestante, istruita e all’epoca dello stupro fu accertato che fosse ancora vergine.

Al contrario, il suo aggressore era povero, nero e con precedenti penali. Anche se sembra assurdo, la verginità e il suo abbigliamento pudico giocarono un fondamentale ruolo a suo favore.

Detto questo, il processo fu tutt’altro che una passeggiata. Emotivamente devastante, le conseguenze hanno prodotto strascichi in tutte le pieghe dell’esistenza di Sebold: alcol, eroina, relazioni tossiche, sindrome da stress post traumatico. Nonostante la condanna del suo violentatore, parla della vittoria come «una condizione fuggevole, balena per un attimo e poi si spegne».

E provoca i lettori: «Prendete lo stesso identico caso e provate a invertire i ruoli. Esempio: lo stupratore è un professionista bianco appartenente alla classe media o alta e proviene da una famiglia rispettabile. Violenta una prostituta filippina transessuale in una camera d’albergo. Il delitto è esattamente lo stesso, ma le possibilità che l’imputato venga condannato? Nemmeno lontanamente paragonabili».

P.s.: vale la pena di leggere anche “Amabili resti”, altro capolavoro di Sebold. Nel 2009 ne è stato tratto un film con Saoirse Ronan nei panni della protagonista.

Chiara Barison

Non uno stigma, non un lusso e nemmeno una scelta: parliamo di mestruazioni

Regolare o irregolare, lungo o breve, con flusso abbondante o scarso, preciso come un orologio svizzero o in preoccupante ritardo: il ciclo mestruale può avere più d’una di queste caratteristiche e nell’arco di 40 anni, una donna avrà circa 520 cicli. Fino all’arrivo della menopausa, una volta al mese, dovrà dare il benvenuto alle non sempre gradite (dipende dai casi) mestruazioni, che l’accompagneranno per diversi giorni. Si tratta, in primis, di un evento fisiologico, una cosa naturale, un “fenomeno ciclico, tipico delle femmine dei mammiferi placentali”, per usare una definizione più “tecnica”. Ma per molte donne queste sono una seccatura non indifferente, principalmente per due ragioni.

La prima è lo stigma che lo circonda. Fateci caso, difficilmente questo viene chiamato con il proprio nome: dal classico “sei diventata una signorina!” agli irritanti “ma hai le tue cose?!?” e “per caso, sei “indisposta”?”, il termine “mestruazioni” sembra essere una cosa che ad alta voce non si può dire. È capitato a tante donne, almeno una volta nella vita, di trovarsi sprovviste di assorbente al primo giorno di ciclo ed essere costrette a chiederlo ad amiche e conoscenti (anche a sconosciute, se la situazione lo richiede!). Quante hanno mantenuto e mantengono un tono di voce normale nel formulare questa richiesta? Quelle che possono rispondere affermativamente alla domanda sono davvero poche. Perché?
Nella maggior parte dei casi, per non incorrere nella derisione o nel disgusto di una buona parte della controparte maschile che costringe le donne a vivere questo naturale momento della vita come qualcosa di imbarazzante o sconveniente per mancanza di attenzione e sensibilità riguardo l’argomento. Dal menarca alla menopausa, il terrore di macchiare in pubblico vestiti o superfici su cui si è sedute è costante per tutta la durata delle mestruazioni. Perché non basta l’aver macchiato, a volte irrimediabilmente, un bel paio di pantaloni ma a questo bisogna aggiungere le occhiate o, peggio, le battute di amici e conoscenti.
Purtroppo, non si tratta di casi isolati ma di una mentalità che interessa tutta la società. Nel 2015 Rupi Kaur, giovane poetessa, scrittrice e illustratrice canadese di origine indiana, si è vista cancellare una delle foto pubblicate sul suo profilo Instagram perché questa violava le linee guida del social. La ragazza era semplicemente ritratta sdraiata e di spalle, con i pantaloni e le lenzuola del letto macchiate di sangue mestruale. Una foto censurata perché ancora oggi le mestruazioni vanno tenute nascoste, come se fossero una sorta di colpa, qualcosa di cui vergognarsi quando, in realtà, potrebbero essere considerate come un malanno stagionale o una gravidanza, a parità di “naturalità”. Ma perché, se quando una donna è incinta lo si grida ai quattro venti, è invece così strano e assurdo parlare liberamente di e avere le mestruazioni?

Il secondo punto che rende problematica la convivenza con queste “simpatiche” amiche è la questione “Tampon Tax, ovvero la tassazione sui prodotti per l’igiene intima femminile. Sono all’incirca 12.000 gli assorbenti che una donna consuma nell’arco della propria vita. E questa spenderà all’anno mediamente 126 euro, visto che il prezzo per una confezione si aggira intorno ai 4 euro. Di questi, 22,88 andranno allo Stato come imposta sul valore aggiunto perché nel nostro paese questo tipo di prodotti non sono considerati un bene di prima necessità e vengono tassati con un’aliquota al 22%, alla stessa stregua di beni di lusso, bevande, abbigliamento, prodotti di tecnologia o per la casa e automobili. A stabilire la classificazione dei prodotti in commercio in Italia suddivisa per fasce di imposta è un decreto del Presidente della Repubblica del 1972: tra i beni con un’Iva inferiore al 10%, e quindi considerati necessari, ci sono carne, birra, cioccolato, tartufo, merendine, francobolli da collezione, oggetti di antiquariato. Basilico e rosmarino sono tassati al 5%; latte e ortaggi, occhiali o protesi per l’udito al 4%, insieme con volantini e manifesti elettorali. Una domanda sorge spontanea: se le mestruazioni sono qualcosa di inevitabile, può una donna fare a meno degli assorbenti?
In Italia, secondo i dati Istat sulla povertà del 2019, “sono quasi 1,7 milioni le famiglie in condizione di povertà assoluta con una incidenza pari al 6,4% (7,0% nel 2018), per un numero complessivo di quasi 4,6 milioni di individui (7,7% del totale, 8,4% nel 2018)”. Ciò significa che mantenere le tasse sugli assorbenti così alte è qualcosa di profondamente ingiusto, una pratica che incentiva la cosiddetta “period poverty” ed è lesiva del diritto alla salute delle donne che faticano ad affrontare le spese per il loro sostentamento, per le quali gli assorbenti non possono e non devono essere un lusso.

In Europa sono diversi i paesi virtuosi in materia di “Tampon Tax“: nel primo mese del 2021 il Regno Unito ha rinunciato alla tassa sugli assorbenti, unendosi all’Irlanda e alla Scozia che durante l’anno appena conclusosi ha deciso di rendere universale e gratuito l’accesso ai prodotti per l’igiene intima femminile.
In Italia sono molte le associazioni che tentano di sensibilizzare sul tema, anche attraverso i social network. “No Tampon Tax Italia“, per esempio, si occupa interamente di questo argomento (su Instagram e su Facebook) e qualche anno fa l’associazione “Onde Rosa“, insieme a “Weworld”, ha lanciato una petizione, “Stop Tampon Tax, il ciclo non è un lusso!” che ad oggi conta quasi 500.000 firme (fai la cosa giusta, clicca qui e firmala anche tu ;)). Le associazioni studentesche dell’Università La Statale di Milano sono riuscite, per la prima volta in Italia, a far installare distributori di assorbenti a prezzi calmierati (20 centesimi l’uno) all’interno delle sedi di città Studi, via Festa del Perdono e via Conservatorio.
In più, dal novembre 2019, l’Iva è stata ridotta al 5% sugli assorbenti biodegradabili e compostabili. Tuttavia, questi rappresentano solo l’1% dei prodotti in commercio e sono poche le donne che vi fanno ricorso.

Nei primi giorni del mese di gennaio in Italia ha visto la luce la nuova legge di bilancio nella quale la tassazione sugli assorbenti è rimasta purtroppo invariata.
Si può continuare a fare finta che il problema non esista? O che per le donne le mestruazioni siano una scelta?
La risposta è soltanto una: assolutamente no.

Eleonora Panseri

*Per saperne di più sull’argomento:
Dataroom di Milena Gabanelli: “Il tartufo è un bene primario, gli assorbenti no“;
European Data Journalism Network: “Iva sugli assorbenti femminili: la metà dei Paesi Ue li tratta al pari di sigarette e alcolici”;
Qualcosa di Buono:Assorbenti a basso costo alla Statale di Milano: quand’è che aboliamo la Tampon Tax?

“Donna non si nasce, lo si diventa”

Il 9 gennaio 1908 nasce Simone Lucie Ernestine Marie Bertrand de Beauvoir, scrittrice, saggista, filosofa esistenzialista, professoressa, massima esponente del femminismo emancipazionista e autrice del testo cardine, e indiscusso capolavoro, della seconda ondata: “Il secondo sesso”.

Figlia di Françoise Brasseur e Georges Bertrand de Beauvoir e sorella di Henriette – Hélène, di due anni più giovane, trascorrerà un’infanzia difficile, a seguito delle ristrettezze economiche affrontate dalla famiglia e causate dalla bancarotta del nonno materno Gustave Brasseur.
Studiosa appassionata fin dalla giovinezza, nel 1926 decide di iscriversi alla facoltà di Filosofia della Sorbona, fatto insolito per una donna in quegli anni. Il destino delle sue coetanee era all’epoca quello di trovarsi un marito e mettere su famiglia al più presto. Ma proprio a causa della difficile situazione economica familiare, e della conseguente assenza di dote, sia Simone che Henriette si rimboccheranno le maniche per trovare un impiego (cosa che il padre Geroges vivrà come un fallimento). Laureatasi con una tesi su Leibniz, nel 1929 ottiene la cosiddetta “agrégation“, ovvero l’idoneità all’insegnamento riservata ai migliori allievi francesi. Diventa così, a soli 21 anni, la più giovane insegnante di filosofia di Francia, classificandosi seconda all’esame di idoneità (superando Paul Nizan e Jean Hyppolite e perdendo di poco contro Jean-Paul Sartre, bocciato l’anno precedente). Sartre sarà l’uomo che accompagnerà De Beauvoir per tutta la vita: i due tuttavia non si sposeranno mai e imposteranno una relazione aperta che permetterà loro di frequentare altre persone. In alcuni casi, la libertà sentimentale e sessuale della scrittrice e filosofa le causerà non pochi problemi.  

Nel 1943, infatti, De Beauvoir verrà allontanata dall’insegnamento, a causa della storia avuta qualche anno prima con una studentessa che, all’epoca dei fatti, non aveva ancora raggiunto i 15 anni, l’età del consenso fissata ai tempi in Francia. Da questo momento in poi, la donna potrà dedicarsi interamente alla scrittura. Esce in quell’anno il primo romanzo, “L’invitata”, che racconta, appunto, il rapporto intercorso tra De Beauvoir, Sartre e Olga Kosakievicz, l’ex allieva. Tra il 1943 e il 1946 scrive “Pirro e Cinea”, un trattato di etica, i romanzi “Il sangue degli altri” e “Tutti gli uomini sono mortali” e la sua unica opera teatrale, “Le bocche inutili”. Partecipa, seppur marginalmente, alla Resistenza francese con il partito Socialismo e Libertà.

Nel dopoguerra, e precisamente nel 1949, pubblicherà “Il secondo sesso”. Il testo propone a chi legge un lungo excursus, storico, sociale e politico, nel quale la filosofa analizza la creazione del mito della femminilità e le conseguenze concrete che questa mitologia ha avuto, aveva in quegli anni e, sfortunatamente, tutt’oggi ha sulla vita delle donne.

Donna non si nasce, lo si diventa

Da “Il secondo sesso” è tratta questa frase, ancora oggi famosissima e spesso fraintesa, che si riferisce proprio all’identità femminile la cui costruzione non è mai stata appannaggio esclusivo delle dirette interessate. Secondo De Beauvoir, l’emancipazione del “secondo sesso” poteva avvenire solo e soltanto attraverso l’accesso al lavoro e l’indipendenza economica, ed il conseguente riconoscimento dei diritti civili e politici. Tra i tanti temi, l’incapacità delle donne di riconoscersi come un “noi”, conseguenza della subordinazione economica che le avvicina agli uomini piuttosto che a quante subiscono lo stesso destino, ma anche il rifiuto dell’inferiorità “naturale” della donna e della maternità come suo destino fisiologico.

Da questo momento in poi De Beauvoir si mobiliterà attivamente per le battaglie femministe della seconda ondata e verrà annoverata tra le iniziatrici di questa fase del movimento. Nel 1971 sottoscrive “Il Manifesto delle 343”, pubblicato sulla rivista Nouvel Observateur, nel quale 343 donne dichiaravano di aver abortito, esponendosi alle conseguenze penali, visto che in quegli anni la pratica era ancora illegale, e rivendicando il loro diritto a farlo. Non mancarono le durissime critiche e, a partire da una vignetta della rivista Charlie Hebdo, il documento fu soprannominato “Il Manifesto delle puttane”. Nonostante tutto, “Il Manifesto” rimane comunque tra i contributi che in maniera significativa portarono all’approvazione della “legge Veil“: nel gennaio del 1975 la Francia riconosceva alle donne il diritto di abortire. Nel 1977 fonda la rivista Questions féministes, insieme a Christine Delphy, Colette Capitan, Colette Guillaumin, Emmanuèle de Lesseps, Nicole-Claude Mathieu, Monique Plaza e successivamente anche Monique Wittig.

Nel 1980 muore Jean Paul Sartre, De Beauvoir commenterà così la dipartita del compagno di vita:

La sua morte ci separa. La mia morte non ci riunirà.
È così; è già bello che le nostre vite abbiano potuto essere in sintonia così a lungo”

Lei lo seguirà sei anni dopo, il 14 aprile 1986, e oggi i due riposano, l’una accanto all’altro, nel cimitero di Montparnasse.

Il contributo di De Beauvoir continua ad essere d’ispirazione per il mondo della filosofia e per le donne, femministe e non, di ogni epoca e paese.
La sua figura resta una delle più importanti e affascinanti del ‘900.

Eleonora Panseri

Fonti:
Carlotta Cossutta, “Profilo di Simone De Beauvoir“, APhEx 17, 2018 (ed. Vera Tripodi).

Le profonde radici della misoginia

Da Eva che mangia il frutto proibito, Pandora che apre il vaso con tutti i mali del mondo, fino allo stoicismo nemico dei piaceri (quindi delle donne): la lista delle persecuzioni a danno del genere femminile è parecchio nutrita. «Nessun gruppo al mondo è mai stato attaccato così a lungo e in maniera così feroce», parola di Guy Betchel, storico francese che prima espone dettagliatamente la demonizzazione della donna che precede l’epoca dei roghi, salvo poi affermare che d’altronde si bruciavano vivi anche gli uomini. Giungendo alla conclusione che no, la caccia alle streghe non è una manifestazione di misoginia.

La giornalista svizzera Mona Chollet, nel suo “Streghe. Storie di donne indomabili dai roghi medioevali al #MeToo”, rivela invece tutto il contrario: «La strega incarna la donna libera da ogni dominio, da ogni limitazione; è un ideale cui tendere, e ci indica il cammino». In questa frase c’è tutto ciò contro cui combattono le donne da sempre. Il dominio maschile, che pretende di controllare tutti gli aspetti della realtà. E le limitazioni, conseguenza della minaccia all’ordine precostituito dal maschio. Tra le oppressioni più cruente troviamo proprio la caccia alle streghe.

Iniziata in Europa tra il XVI e il XVII secolo ad opera dei tribunali civili, ha dato vita a strampalati quanto agghiaccianti processi. I patti con il diavolo costituivano l’accusa più comune e della quale era praticamente impossibile dimostrare il contrario. Così facendo, l’85 per cento delle sentenze erano di condanna, a morte ovviamente. Dopo giorni di torture, il rogo arrivava quasi come una liberazione.

Ma se parlare di streghe nel 2021 può sembrare anacronistico, Chollet spiega come il loro martirio abbia influito sulla visione del mondo che abbiamo ancora oggi.

Tra le accusate di stregoneria troviamo principalmente nubili e vedove, quindi donne considerate pericolose in quanto non più subordinate ad un uomo. Nessuna differenza con lo stigma associato alla donna single.

Per non parlare della criminalizzazione dell’aborto e della contraccezione. Proprio le streghe venivano etichettate come “antimadri” e accusate di cibarsi di bambini durante i loro riti malefici.

«La vecchiaia delle donne resta, in un modo o nell’altro, brutta, vergognosa, minacciosa, diabolica», prosegue Chollet. Per le donne anche invecchiare è una colpa: il prototipo della strega infatti è anziana, ricurva su se stessa, dalle mani nodose e deformi. Per evitare questo impietoso destino, i trattamenti anti-età offerti dal mercato sono infiniti, per non parlare del business che ruota intorno alla chirurgia estetica. Invece gli uomini invecchiando migliorano, e se stanno con una ragazza molto più giovane tanto meglio…

Si arriva fino alle illustri streghe che hanno avuto l’ardire di entrare in politica: prima Margaret Thatcher, alla cui morte non si è persa occasione per intonare “Ding dong, the witch is dead!” del Mago di Oz, poi Hillary Clinton, che durante la campagna elettorale del 2016 è stata spesso paragonata a un’arpia.

«La forza degli stereotipi e dei pregiudizi può avere in sé qualcosa di profondamente demoralizzante; ma è anche una possibilità per tracciare nuovi percorsi. È un’occasione per assaporare le gioie dell’insolenza, dell’avventura e della scoperta», in queste parole di Chollet un’esortazione da cogliere al volo, ancora meglio se a cavallo di una scopa.

Chiara Barison

Le donne che hanno lasciato il segno nel 2020

Un anno sicuramente buio, quello che sta per concludersi, in cui però la luce delle donne non ha smesso di brillare. D’altronde, le stelle risplendono meglio nella completa oscurità. Ecco un elenco, non esaustivo e senza pretese, per ricordavi alcune tra le personalità femminili che secondo noi hanno fatto la differenza nei 366 giorni più interminabili del secolo.

Dopo mesi segnati dalla pandemia non possiamo non iniziare con le donne che si sono distinte in campo scientifico.

Le ricercatrici dell’Istituto Spallanzani di Roma, Marta Branca, Maria Rosaria Capobianchi e Francesca Colavita, le prime ad isolare il virus Covid-19 in Italia. Incarnano alla perfezione l’importanza del lavoro di squadra e l’efficacia della competenza femminile.

È anche grazie al loro lavoro se Ozlem Tureci ha potuto sviluppare il primo vaccino approvato dall’Ema. Di origini turche ma nata in Germania, è medico e co-fondatrice insieme al marito della BioNTech. Al centro dei suoi interessi c’è anche lo sviluppo di un vaccino contro il cancro, al quale lavora da almeno un decennio.

Tornando un po’ indietro, tutto ciò che sappiamo sulla gestione cinese del virus lo dobbiamo a Zhang Zhan. Ex avvocata, con lo scoppio della pandemia non ha esitato ad imbracciare la telecamera per documentare la condizione in cui versavano gli ospedali di Wuhan, la città ritenuta l’epicentro della diffusione pandemica. Accusata di aver “provocato litigi e problemi”, è stata condannata a quattro anni di carcere dopo un’udienza lampo. L’ingiustizia non ha piegato la sua volontà: poco dopo il suo arresto, avvenuto a maggio, ha iniziato uno sciopero della fame.

Sempre in tema pandemia, ricordiamo Jacinda Adern e Sanna Marin: rispettivamente prima ministra neo zelandese e finlandese, sono entrate nella storia anche per essersi distinte nella gestione dell’emergenza sanitaria. Entrambe hanno fatto della parità di genere il pilastro sul quale fondare la loro politica.

A proposito di politica, come non ricordare Kamala Harris. Per la prima volta nella storia degli Stati Uniti d’America la carica di vicepresidente sarà ricoperta da una donna. E il discorso pronunciato dopo la vittoria ci fa ben sperare sul suo operato: «Sebbene io sia la prima a ricoprire questo incarico, non sarò l’ultima. Penso a intere generazioni di donne che hanno battuto la strada per questo preciso momento. Penso alle donne che hanno combattuto e sacrificato così tanto per l’uguaglianza, la libertà e la giustizia per tutti, comprese le donne afroamericane, spesso trascurate ma che dimostrano di essere la spina dorsale della nostra democrazia».

Nell’agone politico si è fatta avanti anche Svetlana Tikhanoskaya, insieme alle colleghe Veronika Tsepkalo e Maria Kolesnikova. Quando i mariti di Tikhanoskaya e Tsepkalo, candidati alle elezioni presidenziali in Bielorussia, sono stati il primo arrestato e il secondo costretto a lasciare il paese, queste tre grandi donne si sono unite contro Alexander Lukashenko, presidente uscente dell'”ultima dittatura d’Europa”. Hanno ottenuto un consenso inaspettato e, quando è stato comunicato il risultato delle elezioni, apparentemente vinte da Lukashenko, i loro sostenitori sono scesi in piazza, insieme al resto dell’opposizione, per protestare. Davanti al rifiuto del presidente di accettare la sconfitta, l’UE non ha riconosciuto il nuovo presidente. Anche se Tikhanoskaya è stata costretta all’esilio in Lituania e Kolsnikova è stata arrestata, il loro coraggio rimane un esempio.

Così come ci siano d’esempio le donne che hanno sacrificato la vita in nome della libertà. La prima è Helin Bölek, attivista e cantante turca di 28 anni. Se n’è andata ad aprile dopo 288 giorni di sciopero della fame. Protestava per denunciare la persecuzione politica in Turchia e il veto posto dal governo sui concerti del gruppo musicale al quale apparteneva. Infatti, dal 2016 le esibizioni del “Grup Yorum” erano state proibite.

E poi c’è Ebru Timtik, avvocata turca che lottava per l’equo processo. Anche lei ha scelto lo sciopero della fame. Anche la sua voce è rimasta inascoltata, fino alla morte in un carcere di Istanbul. Era stata arrestata 18 mesi prima con l’accusa di legami con il Fronte Rivoluzionario della liberazione popolare (Dhkp), un gruppo considerato terroristico da Ankara.

«Il posto delle donne è là dove si prendono le decisioni», anche Ruth Bader Ginsburg non è più tra noi, ma ci ha salutati dopo 87 anni vissuti da combattente. Nota per essere stata giudice della Corte Suprema statunitense per 27 anni, è considerata un’icona della lotta per i diritti civili. La sua sensibilità, progressista e moderata allo stesso tempo, le ha permesso di firmare storiche decisioni in tema di parità di genere e aborto. Pioniera fino alla fine, prima donna e prima persona di fede ebraica la cui camera ardente sia stata allestita al Campidoglio (sede del Congresso degli Stati Uniti d’America).

Il Premio Nobel per la Letteratura 2020 è stato assegnato a Louise Elisabeth Glück, poetessa americana. Nel ’93 già vincitrice del prestigioso Premio Pulitzer con la raccolta “L’Iris selvatico” (“The Wild Iris“), ha ricevuto il Nobel per «la sua inconfondibile voce poetica che con austera bellezza rende universale l’esistenza individuale».

Quest’anno le donne hanno raggiunto importanti risultati anche nel mondo del calcio, uno sport spesso ritenuto appannaggio esclusivo degli uomini. I primi (ma non unici) due nomi che ci vengono in mente sono quello della campionessa nostrana Sara Gama e dell’arbitra Stéphanie Frappart. La prima, 31 anni, madre triestina e padre congolese, capitana della Juventus e della Nazionale femminili, già consigliera della Figcil dal 2018, il 30 novembre 2020 è stata eletta vicepresidente dell’Associazione italiana calciatori. Una decisione storica: non era mai successo che una donna ricoprisse questo ruolo. La seconda, 36 anni e una carriera incredibile, è stata la prima donna arbitro ad aver diretto una partita di Champions League, Juventus-Dinamo Kiev, il 2 dicembre scorso.

A proposito di “prime volte” nostrane, dal 1 dicembre la professoressa Antonella Polimeni è la prima rettrice dell’università di Roma la Sapienza, la più grande università d’Europa, in 717 anni della sua storia. E Margherita Cassano a luglio è stata eletta all’unanimità presidente aggiunta della Cassazione, riuscendo ad arrivare lì dove nessun’altra era riuscita.

Chiudiamo con la speranza per il futuro. Per il “Time” è una scienziata di 15 anni. Gitanjali Rao è la prima “Kid of the year” della storia. Inventrice di un dispositivo per rilevare la presenza di piombo nell’acqua e di un’app che individua episodi di cyberbullismo, ha detto: «Il mio obiettivo non è solo inventare qualcosa per risolvere problemi, ma anche essere da esempio per gli altri. Se io lo posso fare, tu lo puoi fare».

Chiara Barison ed Eleonora Panseri

“No è no”: cultura dello stupro e consenso

Avete mai pensato a come cambierebbe il mondo per il genere femminile (e per quello maschile) se vivessimo in una società meno permeata dalla rape culture, la “cultura dello stupro”?

Penso spesso a tutto questo e al fatto che sostituire la prevaricazione sistemica con una “cultura del consenso”, parola di cui si parla davvero spesso negli ultimi anni, sia una delle possibili soluzioni al problema. Anche se è comprensibile il fatto che non è possibile distruggere il patriarcato dal giorno alla notte – in fondo, stiamo parlando di un sistema che esiste praticamente da sempre, come ha egregiamente raccontato Simone De Beauvoir nel suo “Il secondo sesso” -, questo non deve esimerci dal credere che un cambiamento sia necessario.

Nel testo del 1993Transforming a Rape Culture”, Emilie Buchwald, Pamela Fletcher e Martha Roth definiscono la “cultura dello stupro” come

“(…) un complesso di credenze che incoraggiano l’aggressività sessuale maschile e supportano la violenza contro le donne. Questo accade in una società dove la violenza è vista come sexy e la sessualità come violenta. In una cultura dello stupro, le donne percepiscono un continuum di violenza minacciata che spazia dai commenti sessuali alle molestie fisiche fino allo stupro stesso. Una cultura dello stupro condona come “normale” il terrorismo fisico ed emotivo contro le donne. Nella cultura dello stupro sia gli uomini che le donne assumono che la violenza sessuale sia “un fatto della vita, inevitabile come la morte o le tasse”.


Credo che il concetto così esposto sia assolutamente chiaro ma alcuni esempi di situazioni dove questo tipo di prevaricazione si palesa in maniera lampante o più sottile possono aiutare a comprendere meglio quello che Buchwalk, Fletcher e Roth sono riuscite a definire.

Il femminicidio e lo stupro (o il tentato stupro) sono le manifestazioni più evidenti della violenza di tipo fisico che l’uomo esercita sulla donna. A queste si aggiungono le molestie (sì, anche il catcalling), i ricatti sessuali, lo stalking, il revenge porn (quando materiale privato viene condiviso con terzi senza che gli attori ripresi siano d’accordo per vendetta o altri motivi ad essa legati), il victim blaming (sostenere che una survivor, una vittima di uno stupro, “se la sia cercata”) ed altre forme di violenza psicologica o economica che inficiano pesantemente la libertà e la serenità delle nostre vite.

Se osserviamo attentamente i vari fenomeni elencati qui sopra notiamo come manchi in ognuno di essi un elemento essenziale: il consenso. Lo ammetto, può sembrare un parolone ma se spiegato con l’aiuto della fidata Treccani si rivela in realtà un concetto molto semplice: “il consentire che un atto si compia” e ancora “permesso, approvazione”.

Nonostante mi sembra che fin qui la questione sia abbastanza chiara, tenterò di semplificarla ulteriormente. Non so voi, ma ho avuto spesso la sensazione che l’uomo venga cresciuto, non soltanto in famiglia – sarebbe bello, bastasse questo – ma anche dalle istituzioni e dai prodotti culturali di ogni epoca, con la convinzione che la sua virilità dipenda e sia direttamente proporzionale alla quantità di “sì” che riceve. In televisione è stato passato per anni lo spot (QUI trovate la versione dell’85) di un dopobarba che recita: “per l’uomo che non deve chiedere mai”…dovrebbe bastarci questo. La donna di conseguenza, in quanto controparte maschile, si trova a dover reprimere dei “no” perché l’essere accondiscendente e, in un certo senso “sottomessa”, le farà ottenere validità agli occhi degli uomini. Quante volte vi siete sentite dare dell’“acidona” o della “suora” nel momento in cui avete negato la vostra disponibilità all’altro sesso? Le donne che dissentono, guarda un po’, sono sempre “puntigliose“, “pesanti“, “rompiscatole“. Invece loro, gli uomini, “sono fatti così”, “boys will be boys”: impossibile che cambino, “essere uomini” è la loro natura e la giustificazione a qualsiasi scorrettezza. Prima lo impariamo, meglio è.
C’è anche un altro grande classico che alimenta questo tipo di narrazione: quante volte vi è capitato di sentire che “se ti tratta male è perché le piaci” o che una ragazza che ti dice “no” magari sta solo “facendo la difficile”? Questo in molti casi porta tanti a persistere nel tentativo di “conquistare” donne che, nel pieno delle loro facoltà mentali, li hanno rifiutati chiaramente dal giorno uno.
Ora, fatte tutte queste premesse, i concetti di “cultura dello stupro” e consenso si spiegano quasi da soli.

Io non riesco più a stupirmi davanti a chi sostiene che un determinato modo di vestire può in qualche modo mandare dei segnali ambigui e che quindi, più o meno direttamente, una minigonna giustifica uno stupro. La verità è che non bisogna arrivare a tanto, il “mondo là fuori” ci fa sperimentare diversi tipi di violenza che prescindono da femminicidi e stupri ma che possono esserne al tempo stesso causa e preludio. Finché ci sarà qualcuno che definirà “complimenti” quando parliamo del disagio che proviamo nel dover sopportare occhiate, versi e commenti di ogni tipo mentre camminiamo per strada; finché ci saranno persone che chiameranno “semplici avances” le attenzioni insistenti non richieste o non ricambiate che ci vengono rivolte sul luogo di lavoro, di studio o sui social; finché un partner, occasionale o meno, ci farà pressioni per avere rapporti sessuali che non vogliamo, lo stupro o il femminicidio saranno solo la punta dell’iceberg. E se alla voce delle donne venisse dato lo stesso peso di quella degli uomini, se un “no” pronunciato da una donna venisse considerato semplicemente come un “no” (cosa che avviene quotidianamente alla controparte maschile), se le donne non venissero considerate prede da conquistare, trofei da esibire, incapaci di esprimere la propria volontà – il proprio consenso, appunto-, una cosa come il victim blaming non esisterebbe.

C’è da rivedere dunque un intero sistema e per fare questo ci vorrà molto tempo, senza dubbio. Il primo passo però è sicuramente quello che va verso una maggiore consapevolezza, nostra e degli uomini. Noi dovremmo iniziare a dire quei “no” che potrebbero farci apparire meno desiderabili: un “sì” ottenuto con la violenza, di qualsiasi tipo esso sia, non ci farà stare meglio (fidatevi, parlo per esperienza). Il coraggio e la forza necessari, quelli che servono anche a tantissime survivors, dovremmo poterli trovare, in primis, nella solidarietà femminile di cui spesso si sente parlare ma che altrettanto spesso manca. E sarebbe bello se gli uomini aprissero gli occhi sul problema, lavorassero su se stessi per iniziare ad accettare il fatto che il rifiuto non li rende “meno uomini” e capissero che “no è no” pure se a dirlo è una donna.

Eleonora Panseri

P.s. Il 25 novembre l’Istat ha pubblicato un quadro informativo integrato sulla violenza contro le donne molto interessante. Vi lascio QUI il link, se avete voglia di capire attraverso i dati quali sono le proporzioni del fenomeno in Italia.

A cosa servono (davvero) le quote rosa

Con il termine “quote rosa” si intende un provvedimento, solitamente temporaneo, che ha lo scopo di riequilibrare la presenza di uomini e donne nelle sedi decisionali (Cda, sedi istituzionali elettive, ecc…) rendendo obbligatoria la presenza femminile. Si mira così a ridurre la discriminazione di genere consentendo alle donne di sfondare il glass ceiling (soffitto di cristallo), ossia la barriera invisibile che impedisce alle donne di accedere a incarichi prestigiosi.

In Italia, il termine stesso è impregnato di stereotipi. Le quote sono state colorate di rosa, il colore femminile per definizione. Sono rosa i vestiti delle bambole, rosa i romanzi a portata di intelletto femminile e definiti rosa pure i farmaci in grado di liberare dalle sofferenze mestruali. Un modo per farci vivere una vie en rose quando la situazione reale è invece piuttosto noire.

Se le donne non sono al potere, non saranno rappresentate politicamente, e se non sono rappresentate politicamente significa che non riescono a raggiungere i vertici. Un cane che si morde la coda.

Innanzitutto, chiamarle gender quotas all’anglosassone rende molto più chiaro il loro reale compito: non favorire le donne in quanto tali, ma garantire un’eguale partecipazione dei generi ai tavoli decisionali. Di fatto, sono norme antidiscriminatorie nei confronti della categoria sottorappresentata (ahimè, le donne). Questo non significa che prescindano dal merito: il motto è “Equality = Quality”. La parità è sinonimo di qualità. E no, non c’è discriminazione al contrario: ogni posto occupato da una donna grazie all’imposizione delle quote rosa, se queste non ci fossero, sarebbe ricoperto da un uomo. Sia chiaro, non perché più capace, ma perché maggiormente rispondente alle logiche del potere maschilista alla base della nostra società. Proprio per questo le quote non solo non sono la soluzione definitiva, ma devono essere accompagnate da altre misure.

Il principale nemico della donna al potere è proprio il ruolo di angelo del focolare che le viene affibbiato da sempre. La distribuzione diseguale del lavoro domestico e i numerosi stereotipi di genere dissuadono le donne dall’intraprendere una carriera all’interno di una società o in politica.

Perché no, le donne non sono una minoranza, ma sì, devono essere tutelate. Il paradosso del secolo, che vede il genere femminile come una specie in via d’estinzione che potrà salvarsi solo grazie alla protezione dei virili ma premurosi maschi, può trovare la sua fine ribaltando la prospettiva. La politologa inglese Rainbow Murray propone di non presentare il problema come una carenza di rappresentazione femminile ma piuttosto come un eccesso di rappresentanza maschile. Così facendo, le quote non sarebbero più il numero minimo di posti riservati ai rappresentanti di un sesso ma, al contrario, un limite massimo da non superare per garantire una situazione di parità. Un cambiamento in tal senso permetterebbe di percepire le donne come una componente della dialettica politica al pari degli uomini, e non come “ulteriori” da proteggere alla stregua di una minoranza.

Nonostante le donne costituiscano la metà della popolazione italiana, solo un terzo ricopre cariche politiche nazionali. A livello locale si arriva a malapena a un quinto. Un primo significativo passo è stato compiuto dalla Consulta che, con sentenza n. 49/2003, ha superato il principio di parità astratta affermato nel 1995. Sempre nel 2003 la riforma costituzionale ha cambiato il testo dell’art. 51 della costituzione (che stabilisce il principio della parità dei sessi nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive) integrando la previsione dell’adozione di appositi provvedimenti per la promozione delle pari opportunità tra donne e uomini. Con l’obbligo legislativo delle “quote rosa nei Cda” introdotto nel 2011, oggi il 40 per cento dei membri di consigli di amministrazione e di collegi sindacali in società quotate in borsa deve essere femminile. Sul versante politico il cambiamento è stato attuato solo nel 2012. Questo ha permesso il salto da un misero 13 per cento del 1994, all’odierno 36 per cento di presenza femminile nel nostro Parlamento.

Il problema però persiste a livello di potere decisionale. Troppo poche le donne alla presidenza delle commissioni parlamentari, fondamentali per l’iter legislativo (e quindi decisionale). Se il legislatore non è anche donna le leggi non saranno mai abbastanza inclusive.

Chiara Barison

Molestia e corteggiamento: differenze

Correva l’anno 2018 quando Catherine Deneuve, con un centinaio di donne francesi, firmava una lettera per contestare la caccia alle streghe innescata dal #MeToo. L’attrice incorreva nel solito errore: l’inversione del carnefice con la vittima. Anche se sono passati due anni, credo che questo argomento non sia mai troppo dibattuto, anzi, forse troppo poco. Già allora avevo provato a pensare a una risposta, questo è il risultato:

Gentili Madame Deneuve e simpatizzanti,

penso che la libertà di corteggiare nulla abbia a che fare con il diritto delle donne di essere rispettate. Nessuno si sognerebbe mai di indentificare come poco di buono un uomo che tenti di sedurre una collega senza essere corrisposto. Intelligenza vuole che il malcapitato sappia comprendere, nonostante l’insistenza, quando non è il caso di andare oltre. Tantomeno sembra opportuno accostare un tentativo di rimorchio ad una violenza sessuale. A dimostrazione del fatto che le femministe non sono nemiche degli uomini, anche loro corteggiano, seducono. Anche loro non vengono corrisposte. La maggior parte di loro non diventa violenta se rifiutata. Credo nessuna abbia mai palpeggiato un ragazzino sulla metropolitana. Perché se è questo il messaggio che vogliamo trasmettere alle giovani donne della nostra epoca, significa che dobbiamo rassegnarci a salire su un mezzo pubblico consapevoli che, se non riusciremo a raggiungere quel dannato posto a sedere, un uomo molto più vecchio si posizionerà dietro di noi per tastare la consistenza del nostro fondoschiena. Questo nella migliore delle ipotesi ovviamente. Altrimenti, se siamo fortunate, potremo sentire il suo membro variare di consistenza mentre si struscia contro il nostro corpo. Esperienza veramente esaltante, di cui sentirsi lusingate. Perché d’altronde rientra nel corteggiamento che gli uomini possono riservarci giusto? È un loro diritto rendere spiacevole il nostro viaggio verso casa, dopo una giornata di fatiche. Perché sostanzialmente la donna è stata creata per essere apprezzata dall’uomo, un gioco a suo esclusivo beneficio e consumo. Poco importa che ci faccia sentire un oggetto sporco e abusato, spesso sbagliato. Piacere prima di tutto. Essere accondiscendente di fronte alle pulsioni dell’uomo come diretta conseguenza. Insegniamo alle nostre figlie che se un giorno un collega farà loro una battuta pesante sulla loro scollatura non è perché stia loro mancando di rispetto, certo che no! Sta semplicemente facendo un apprezzamento, le sta corteggiando. Hai raggiunto il tuo obiettivo tesoro! Gli piaci, riesci a far venire fuori la bestia vittima delle proprie pulsioni sessuali che c’è in lui, ben fatto. E non ti preoccupare cara se, per ottenere quel posto di lavoro e mantenerlo nel tempo, dovrai sottometterti a favori sessuali a beneficio del tuo superiore. Un bel respiro e passa tutto in fretta. Alla fine ha scelto te no? Sei meglio delle altre, hai vinto. Cosa sarà mai un po’ di sesso con una persona che ti fa ribrezzo. In fondo ammettilo, ti piace pure.

Chiara Barison

Partenogenesi: quando il maschio non è indispensabile

Emma Dante, da abile artista poliedrica, ha portato sul palco la partenogenesi con la forza che solo una provocazione può avere. Letteralmente dal greco παρϑένος “vergine” e γένεσις “generazione”, indica un modo di sviluppo dell’uovo che prescinde dalla fecondazione. Invertendo il sesso tra i Medea e Giasone di Euripide la Dante crea un paradosso: lei è l’uomo che rinfaccia di non averle chiesto il permesso di sposare un’altra donna. Lui invece esprime il desiderio di procreare da solo, attribuendosi una capacità esclusivamente femminile. Che un uomo parli di partenogenesi è quasi un affronto.

Gli esempi di partenogenesi in natura sono diversi: le più famose a ricorrervi sono le api. L’ape regina esercita un controllo capillare sulle nascite decidendo se ha bisogno di più femmine operaie o di maschi: nel primo caso fa fecondare le uova, nel secondo invece attua la partenogenesi. Infatti, limitandosi i maschi all’attività riproduttiva o poco più, ne è sufficiente un numero minore rispetto alle laboriose femmine. In questo modo, si riesce a mantenere un equilibrio perfetto misurato sulle necessità dell’alveare.

Ma veniamo al genere umano. Molte donne si imbattono in un dilemma insormontabile: il desiderio di maternità frustrato dal non aver trovato un partner adatto. Anche se è biologicamente impossibile, proviamo ad immaginare un mondo in cui le donne possano decidere di tramandare il proprio patrimonio genetico in totale autonomia. Intendo una totale autonomia: nessuna donazione di gameti, ma una vera e propria autoclonazione. Partenogenesi, come le api. Fantastico no? Basta sentirsi fare la ramanzina dalla zia di turno che, siccome ha sopportato a malincuore il marito per cinquant’anni, non si capacita del fatto che tu non sia riuscita a trovare un uomo con il quale procreare. D’altronde, i cinque figli che le ha donato sono la luce dei suoi occhi. Annichilirsi per stare accanto ad un uomo è un concetto che va sempre meno giù alle nuove generazioni di donne. Costituire una famiglia composta da madre e figlio/i farebbe quindi gola a tante.

Ma il sesso? Beh, nulla toglie che si continui a praticare a scopo ludico. Puro divertimento, fatto alla maniera che agli uomini è concessa da secoli. “Tanta ginnastica e poche responsabilità”, sicuramente è questo il motto di chi tramanda il proprio patrimonio genetico senza assumersene la paternità. La maternità invece molte donne vorrebbero prendersela a piene mani senza interferenze maschili, come il Giasone di Emma Dante.

In tutto questo, però, bisogna dare a Cesare ciò che è di Cesare. I maschietti che decidono di farsi carico del ménage familiare sono sempre di più. Ultimamente abbiamo assistito a licenziamenti illustri: Mr. Zalando ha lasciato la co-presidenza del colosso dello shopping online per occuparsi dei figli permettendo alla moglie, giudice, di coltivare la propria carriera. Poi c’è Douglas Emhoff, marito della Vicepresidente eletta degli Stati Uniti Kamala Harris, che ha deciso di lasciare il prestigioso studio legale del quale era partner. Si parla di privilegiati, questo è vero, ma i comuni mortali si accontentano di molto meno. Basterebbe un congedo di paternità ben pensato, così da permettere alle madri, se non di arrivare a ricoprire prestigiose cariche, almeno di garantirsi l’indipendenza economica per la quale le nostre nonne hanno lottato tanto. Ma, soprattutto, non rimpiangere di non essere nate api.

Chiara Barison

(IM)POSSIBILI SCENARI: se Maradona fosse nato donna

Confesso i miei peccati sin da subito: non mi piace il calcio, non capirò mai il fuorigioco e non disdegno il rosa. Proprio il cliché della femmina un po’ ottusa. Fatte queste doverose premesse, mi permetto di fare lo stesso una riflessione. Negli ultimi giorni non si parla d’altro: Diego Armando Maradona ha lasciato questo mondo. Icona del nostro tempo, ha incarnato i vizi e le virtù di una società che cerca disperatamente la rettitudine ma non riesce mai a resistere al fascino della ribellione e dell’eccesso. Con mia grande sorpresa, la luce del Pibe de oro ha abbagliato anche me e mi sono fatta una domanda, forse banale: ma che vita avrebbe avuto Diego se fosse nato donna?

Il fuoriclasse argentino è nato nel 1960 in una condizione di povertà estrema. Quinto dopo quattro figlie, è stato accolto dai suoi genitori come una benedizione. Lui stesso ha avuto modo di ribadire che suo «papà estaba cansado de mujeres». Diego Maradona Senior era stanco di avere figlie, viste come una condanna. Le femmine davano preoccupazioni, bisognava trovare a tutte un marito e le occasioni di concludere un buon matrimonio si riducevano in modo direttamente proporzionale al livello di miseria in cui versavano le promesse spose. La madre stessa, forse consapevole della sorte destinata alle donne nate nella sua terra, lo venererà come un bambino prodigio anche quando sarà troppo cresciuto e segnato dai suoi tormenti.

E poi il calcio, lo sport maschile per eccellenza da sempre, negli anni ’60 non avrebbe mai potuto rappresentare l’occasione di riscatto per una giovane donna. I primi mondiali femminili si sono celebrati nel 1991, l’Argentina parteciperà per la prima volta con la sua nazionale in rosa a partire dalla seconda edizione, tenuta nel 1995 in Svezia. La scalata al successo di “Dieguita“, quindi, non sarebbe probabilmente mai iniziata. O almeno, non segnando i gol che hanno fatto sognare intere generazioni. Oltretutto a Diego, prima o dopo, è stato perdonato tutto. L’assoluzione che si concede tipicamente ai geni che, proprio grazie al loro genio, possono permettersi tutti i colpi di testa che vogliono. «La pelota fué mi salvación» dirà Armando una volta famoso e consapevole dell’opportunità immensa che il suo talento gli aveva offerto. Per le donne non funziona e non ha mai funzionato così.

Così mi è venuta in mente Tonya Harding, la prima pattinatrice statunitense ad eseguire un triplo axel. Certo, il pattinaggio artistico non è il calcio. Ma le persone sono straordinarie a prescindere dalla competizione nella quale gareggiano. E il talento è talento. Anche Tonya è nata nella miseria, dieci anni dopo Dieguito, in un Paese che a differenza dell’Argentina era ed è una potenza mondiale. La sua povertà sarà però una condanna, portata come un fardello impossibile da far volteggiare in pista. Tonya non sarà mai abbastanza: per sua madre, per essere amata, per brillare nel panorama sportivo internazionale. Nonostante abbia vinto la sua prima gara a soli quattro anni, non le verranno mai perdonati i costumi che si fabbricava da sola. E nemmeno la tenacia rovente con la quale aggrediva il ghiaccio. Determinazione scambiata per mancanza di grazia. Tonya faceva troppo rumore. Non è mai stata la presenza docile e leggera che i giudici di gara si aspettavano che fosse, pretendevano che fosse. Non ha mai incarnato la fidanzata d’America. Ed è stata duramente penalizzata. Nella vita così come in gara.

Negli anni in cui Maradona si prodigava per diventare leggenda, Harding vedeva andare in fumo la sua carriera. Quasi come se il mondo non avesse aspettato altro per farla sparire dalla scena.

Ricordo di aver sentito dire che il pubblico ha bisogno di scegliere qualcuno da amare e qualcun altro da odiare: ha scelto per l’ennesima volta di odiare una donna.

Chiara Barison

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Scozia, assorbenti gratis per tutte le donne: è il primo Paese al mondo

A partire dal 15 agosto la Scozia è diventata il primo paese al mondo a fornire gratuitamente alle donne assorbenti e prodotti per il ciclo mestruale. Alcuni giorni fa infatti è entrata in vigore una legge, il Period Products Act, presentata nel 2019 dalla parlamentare Monica Lennon e approvata nel novembre 2020 per combattere la “povertà mestruale” (in inglese period poverty).

Secondo i numeri, in Scozia una donna spende fino a otto sterline al mese in assorbenti e prodotti vari per il ciclo. Per questo, per permettere a ragazze e donne in stato di indigenza di poter avere gli assorbenti quando hanno le mestruazioni, questi prodotti verranno distribuiti gratuitamente in strutture pubbliche come farmacie o centri di aggregazione giovanili, così come scuole e università.

Varando questo provvedimento la Scozia diventa il primo paese al mondo a introdurre una misura del genere per le donne. Anche se, come scrive Monica Lennon su Twitter, nella comunità scozzese già c’era una particolare attenzione al tema e i prodotti mestruali venivano distribuiti anche prima della legge entrata in vigore il 15 agosto.

Il tema del costo dei prodotti mestruali viene discusso da tempo e di recente diversi Stati hanno iniziato a muoversi: la Nuova Zelanda, per esempio, distribuisce gratuitamente i prodotti mestruali alle studentesse, mentre in Canada e Regno Unito è stata eliminata l’Iva sugli assorbenti. Anche l’Italia, con l’ultima legge di bilancio, ha ridotto l’imposta sui prodotti mestruali dal 22 al 10 per cento. Ma resta ancora tra i Paesi fanalino di coda nel contrasto alla povertà mestruale.

Eleonora Panseri

Papa Francesco nomina tre donne al dicastero per i Vescovi: è la prima volta

Papa Francesco ha nominato tre donne al Dicastero per i vescovi: sono suor Raffaella Petrini, suor Yvonne Reungoat e Maria Lia Zervino.

Il Dicastero per i vescovi è l’organo vaticano che si occupa del processo di selezione dei pastori che andranno a guidare le diocesi, proponendo al Pontefice per ogni sede una terna di candidati (che il Papa è però libero di rifiutare).

Suor Raffaella Petrini è dal 2021 la segretaria generale (e quindi numero due) del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, l’organo di potere esecutivo della città-stato. Suor Yvonne Reungoat è stata superiora generale delle Figlie di Maria Ausiliatrice, mentre Maria Lia Zervino è presidente dell’Unione Mondiale delle Organizzazioni Femminili Cattoliche. La loro nomina fra i membri, fino ad oggi tutti uomini, del Dicastero guidato dal cardinale Marc Ouellet era stata anticipata dal Pontefice nel corso di un’intervista alla Reuters.

La presenza di donne in Vaticano

«Io sono aperto che si dia l’occasione», ha affermato il Papa rispondendo a una domanda del giornalista Philip Pullella sulla presenza femminile in Vaticano. «Oggi il Governatorato ha una vice governatrice», ha aggiunto, facendo riferimento proprio a suor Petrini. «Adesso, nella Congregazione dei Vescovi, nella commissione per eleggere i vescovi, andranno due donne per la prima volta. Un po’ si apre in questo modo».

Negli ultimi anni, Bergoglio ha nominato diverse donne in ruoli di governo e responsabilità, che spesso in precedenza erano stati ricoperti solo da uomini. Oltre a Petrini, anche altre religiose occupano posti importanti in dicasteri vaticani: l’economista suor Alessandra Smerilli è segretaria, e quindi numero due, del Dicastero per lo sviluppo umano integrale, mentre suor Carmen Ros Nortes è sottosegretaria al Dicastero per i religiosi. E la francese suor Nathalie Becquart è sottosegretaria del Sinodo dei vescovi: un ruolo che da regolamento la porterebbe ad essere la prima donna a poter votare sul documento conclusivo del Sinodo, l’assemblea che raduna vescovi da tutto il mondo ogni tre anni per discutere di questioni importanti per la vita della Chiesa universale.

Durante il pontificato di Francesco è anche aumentata la presenza di donne laiche all’interno delle istituzioni vaticane: ci sono ad esempio Francesca Di Giovanni, sottosegretaria per il Settore multilaterale della Sezione per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato e le Organizzazioni Internazionali o le sottosegretarie al Dicastero per i laici, famiglia e vita Linda Ghisoni e Gabriella Gambino. Ma anche la direttrice dei Musei Vaticani Barbara Jatta, la professoressa Emilce Cuda che è segretaria della Pontificia commissione per l’America Latina, la direttrice della Direzione teologico-pastorale del Dicastero per la comunicazione Nataša Govekar e Cristiane Murray, vicedirettrice della Sala Stampa della Santa Sede.

Praedicate Evangelium e il ruolo delle donne

Dal 5 giugno è in vigore la nuova Costituzione apostolica sulla Curia romana Praedicate Evangelium, punto di arrivo del lavoro di riforma degli organismi della Santa Sede. Uno dei principi fondamentali contenuti in Praedicate Evangelium è il coinvolgimento anche di laici e laiche nei ruoli di governo della Curia romana. Rispondendo su questo punto specifico a una domanda di Pullella, il Papa ha sottolineato che in futuro come prefetti di alcuni dicasteri (che di solito sono guidati da cardinali) potrebbero essere nominati uomini o donne laiche e ha fatto come esempi quello del Dicastero per i laici, famiglia e vita o quello per la cultura e l’educazione.

Le reazioni delle donne cattoliche

«È una cosa importante e ne sono felice», è stato il commento della teologa e femminista americana Natalia Imperatori-Lee sulla futura nomina al Dicastero dei vescovi. «Ma – ha aggiunto – rimane scoraggiante la sensazione di dover celebrare il minimo cenno alla nostra partecipazione paritaria in questa chiesa. Due donne. Due». (Nell’intervista a Reuters il Papa aveva parlato di due donne e non tre, ndr).

Sul fronte italiano, l’associazione Donne per la chiesa ha accolto la notizia in maniera meno calorosa: «Non sono le nomine di singole donne a scardinare un sistema clericale maschile».

Francesco si è più volte detto contrario alla possibilità di ammettere le donne al sacerdozio. Nel 2020 il Papa ha costituito una seconda commissione di studio sul diaconato femminile: i lavori di una prima commissione, incaricata di studiare le forme in cui le donne ricoprivano questo ministero oggi riservato agli uomini nella Chiesa primitiva, avevano secondo il Pontefice portato a un “risultato parziale”. Mentre nel 2021, Francesco ha aperto le porte dei ministeri laicali – dunque non parte dell’Ordine sacro, come è invece il diaconato – del lettorato e dell’accolitato.

Maria Tornelli
(IG: @torn.maria)

Europei femminili 2022, le Azzurre cercano la conferma e sognano l’impresa

Dodici mesi dopo l’impresa della Nazionale di Roberto Mancini, le Azzurre di Milena Bertolini cercano di ripercorrere le orme della squadra maschile. La finale di Uefa Women’s Euro 2022, al via il 6 luglio in Inghilterra, si giocherà ancora una volta Wembley, nello stadio dove la capitana Sara Gama vorrebbe alzare la coppa al cielo, come Giorgio Chiellini prima di lei.

All’Europeo femminile ci saranno 16 nazionali, divise in 4 gironi. L’Italia è inserita nel Gruppo D, assieme a Francia, una delle favorite per la vittoria finale, Belgio e Islanda. Le prime due squadre classificate in ogni girone passano ai quarti di finale, mentre l’ultimo atto si terrà a Londra il 31 luglio.

Dieci stadi in nove città. Si comincia il 6 luglio al Teatro dei Sogni, l’Old Trafford di Manchester, con la sfida tra l’Inghilterra, Paese ospitante, e l’Austria. Per tifare le Azzurre bisognerà attendere il 10 luglio, quando affronteranno la Francia a Rotherham. Subito un esame complicato per Gama, Girelli e compagne. Le transalpine sono terze nel ranking mondiale dietro a Usa e Svezia e sono imbattute da 16 partite, da 7 contro l’Italia. Poi sarà il turno dell’Islanda (a Manchester il 14 luglio) e del Belgio (sempre a Manchester il 18). L’obiettivo principale è passare i gironi, perché poi sognare non costa nulla.

A guidare il gruppo ci sarà lo zoccolo duro del Mondiale 2019: in difesa, davanti a Laura Giuliani, portiere del Milan, e assieme alla capitana della Juventus Sara Gama, ci sarà Elena Linari della Roma; a centrocampo la giallorossa Manuela Giugliano; in attacco le due bianconere Cristiana Girelli (miglior marcatrice azzurra con 53 reti) e Barbara Bonansea, entrambe per due anni consecutivi nella top 11 mondiale Fifa. Delle 23 giocatrici scelte da Bertolini, la Juventus Women è il club più rappresentato con 9 atlete in rosa; 4 della Roma; 3 di Milan e Fiorentina.

Tra le favorite a giocarsi la coppa a Wembley c’è l’Inghilterra padrone di casa della stella del Chelsea Fran Kirby, che vuole cancellare la delusione maschile della scorsa estate. La Germania è a secco dalle Olimpiadi di Rio 2016, mentre negli ultimi anni la Spagna ha dimostrato di aver fatto enormi passi avanti e di potersela giocare con tutte, anche se l’infortunio della Pallone d’Oro Alexia Putellas potrebbe essere un macigno sul percorso delle Furie Rosse. Ovviamente ci sono Svezia, reduce dall’argento a Tokyo 2020 e seconda nel ranking Fifa, e la Francia, che ha giocatrici di livello mondiale e non vuole fallire l’appuntamento. Senza dimenticare l’Olanda campione in carica e finalista agli ultimi Mondiali. Danimarca, Norvegia (con la ritrovata Pallone d’Oro 2018 Ada Hegerberg, che aveva abbandonato la sua nazionale per protesta contro i salari bassi) e, appunto, Italia, possono essere le outsider del torneo e puntare alla finale.

Per le Azzurre si tratta della tredicesima partecipazione (unica assenza nel 1995). Non hanno mai vinto, ma hanno collezionato due secondi posti nel 1993 e nel 1997 con il commissario tecnico Sergio Guenza.

L’atmosfera è elettrica. Uefa Women’s Euro 2022 si appresta a diventare il più grande evento sportivo europeo femminile della storia, con un giro di affari che si stima attorno ai 63 milioni di euro nelle città ospitanti. L’affluenza prevista è senza precedenti per il calcio femminile in Europa. La partita inaugurale e la finale sono già sold out. Televisioni di tutto il mondo avranno i fari puntati sul torneo e i telespettatori potrebbero toccare il 250 milioni in più di 195 Stati. In Italia tutte le partite dell’europeo femminile potranno essere seguite sulle reti Rai, in streaming sulla piattaforma RaiPlay, sui canali di Sky e su Now. Un segnale che testimonia i progressi del calcio femminile e un interesse sempre maggiore.

Un evento da seguire per sognare il coronamento del percorso di crescita del movimento dopo lo splendido quarto di finale giocato ai Mondiali 2019. E per sostenere il calcio femminile italiano, che dalla stagione 2022/2023 ha vinto la battaglia per vedersi riconosciuto lo status del professionismo.

Filippo Gozzo

Senza “Roe v. Wade” l’indice di mortalità materna è destinato a crescere

Dopo la revoca del diritto all’aborto negli Stati Uniti, le morti legate alle gravidanze sono sicuramente destinate ad aumentare, specialmente tra le persone appartenenti alle minoranze, secondo gli esperti, che raccomandano azioni urgenti per proteggere i diritti riproduttivi e la salute delle pazienti nel Paese.

Come riportato dal Guardian, che ha intervistato Rachel Hardeman, professoressa di salute riproduttiva egualitaria e ricercatrice alla University of Minnesota School of Public Health, ci saranno molte più persone che verranno costrette a portare a termine una gravidanza, e questo significa che aumenterà anche il numero di quelle a rischio. “Più gravidanze significano anche più morti materne“, ha osservato la professoressa.

I divieti statali che verranno approvati nelle prossime settimane faranno registrare un aumento di 75.000 parti all’anno. E questi avranno effetto in maniera sproporzionata soprattutto sulle persone più giovani, più povere, su quante hanno già dei figli e sulle donne appartenenti a minoranze.

Ma gli Stati Uniti è un paese dove è estremamente difficile essere una donna incinta, con il più alto tasso di mortalità tra i Paesi sviluppati, che negli ultimi anni è anche rapidamente aumentato. Per ogni 100.000 nascite, quasi 24 persone sono morte a causa della gravidanza o per altre complicanze legate al parto nel 2020, per un totale di 861 donne, secondo il US Centres for Disease Control and Prevention (CDC).

A seguito della decisione della Corte Suprema di ribaltare la “Roe v. Wade“, c’è anche chi, come l’ex vicepresidente USA Mike Pence, un divieto a livello nazionale, ma questo determinerebbe un aumento del 21% della mortalità legata alle gravidanze in tutto il Paese, ma sarebbe ancora peggiore per le donne nere, indigene e latine: il dato che le riguarda salirebbe al 33%, secondo uno studio condotto dall’University of Colorado Boulder.

Secondo la professoressa Hardeman, infatti, “il fatto che le donne delle comunità nere, indigene e latine saranno maggiormente colpite dal mancato accesso all’aborto farà crescere ancora di più il gap razziale nella mortalità materna che già esiste negli Stati Uniti”. Le persone incinte appartenenti alle minoranze sono state a lungo marginalizzate e trascurate dal sistema sanitario, e hanno spesso sperimentato razzismo e discriminazione a tutti i livelli.

Gli stati che hanno vietato o applicato restrizioni registrano alcuni dei più alti tassi di mortalità legati a gravidanza e parto, così come i più alti tassi di mortalità infantile. Il Mississippi, per esempio, dove ha avuto origine il caso Roe versus Wade, ha un tasso di mortalità materna due volte superiore a quello del resto del Paese e il più alto tasso di mortalità infantile.

E mentre la metà del Paese è in procinto di vietare l’aborto, altri Stati e città hanno lavorato per garantire questo diritto, anche alle pazienti non residenti. Ma restano comunque limitazioni importanti per raggiungere questi luoghi sicuri. Molte persone delle comunità marginalizzate che devono ogni giorno affrontare barriere sistemiche per avere accesso al sistema sanitario potrebbero non avere gli strumenti, le risorse, il denaro e il tempo per poter abbandonare il lavoro o la cura di casa e figli per viaggiare in un altro Stato e ricevere le cure di cui avrebbe bisogno.

Articolo originariamente pubblicato su theguardian.com
Traduzione di Eleonora Panseri

La decisione della Corte Suprema ci insegna una grande lezione: mai dare per scontati i diritti che altr* hanno conquistato per noi

Da alcune ore continuo a ricevere mail da parte di associazioni pro-choice e pro-aborto statunitensi che chiedono aiuto. È un’enorme macchina, quella che le attiviste del Paese in poche ore hanno messo in moto, ma già mesi fa stavano pensando a come organizzarsi nel caso in cui la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America avesse deciso di ribaltare la “Roe v. Wade“, la sentenza del 1973 che quasi 50 anni fa aveva riconosciuto l’aborto come diritto federale, basandosi su un’interpretazione del XIV emendamento della Costituzione. Non solo a maggio, quando era stata diffusa la bozza di sentenza, ma anche in momenti precedenti le attiviste avevano pensato a tutte le possibili soluzioni che contenessero i danni di questa catastrofe giuridica.

Negli scorsi mesi, una sentenza così sembrava un’eventualità, seppur terribile, che ancora si poteva evitare. Oggi, purtroppo, è divenuta una triste realtà. Da questo momento ai singoli Stati spetterà legiferare in materia di aborto e molti di questi, mesi fa, hanno approvato le tristemente note “trigger laws“, ovvero leggi che sarebbero entrate in vigore soltanto se la Corte avesse deciso come poi ha effettivamente fatto. Leggi che ostacoleranno in tutti i modi chi avrà la necessità di interrompere una gravidanza e che criminalizzeranno l’aborto, facendo rischiare a chi cercherà di aiutare queste donne multe e anni di prigione. Tra quelli che già erano pronti a negare questo diritto e quelli che lo faranno a breve dovrebbero essere circa 25 su 50 gli Stati, quasi tutti a trazione repubblicana, che renderanno l’aborto illegale. In alcuni, abortire diventerà impossibile anche in caso di stupro o incesto.

Molti governatori dei restanti 25, soprattutto democratici, hanno già fatto sapere che si muoveranno per tutelare ulteriormente il diritto all’aborto nelle loro giurisdizioni. Ma la decisione della Corte Suprema penalizzerà inevitabilmente, anche se non esclusivamente, le donne che risiedono negli Stati dove sarà illegale interrompere una gravidanza, soprattutto quelle che non hanno le possibilità economiche per recarsi laddove invece i loro diritti verrebbero rispettati. Il rischio che dilaghino gli aborti illegali c’è, questa potrebbe essere l’alba di una strage perché, come mi ha detto un’attivista statunitense che ho intervistato qualche tempo fa, “chi avrà bisogno di abortire, non smetterà mai di cercare un modo per farlo”. La depenalizzazione dell’interruzione di gravidanza, al contrario, garantisce non solo il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione delle donne, ma anche del rispetto della loro salute riproduttiva.

Dagli anni ’70 a oggi la vita di molte donne è cambiata, possiamo dire in meglio. Ci sono tante, troppe cose che ancora non vanno, dobbiamo però riconoscere che alcuni traguardi sono stati raggiunti. Ma la grande lezione che abbiamo da imparare dalla sentenza “Dobbs v. Jackson” è che purtroppo non possiamo e non dobbiamo darli per scontati. Non possiamo e non dobbiamo dimenticare che prima di noi qualcun* ha lottato, e in alcuni casi è anche mort*, per consentirci oggi di fare cose che per queste persone erano impensabili, immorali o illegali. Non possiamo e non dobbiamo dimenticare che in molte parti del mondo c’è ancora chi combatte per andare a scuola e lavorare o per non doversi coprire integralmente, come sta succedendo alle nostre sorelle in Afghanistan, che il mondo sembra aver dimenticato. Non possiamo e non dobbiamo dimenticare che ci sarà sempre qualcuno che vorrà negarci dei diritti, perché una società patriarcale si nutre di violenza, di esclusione, di prevaricazione, di ingiustizia e prospera solo in presenza di queste.

Credo fermamente nella possibilità di ogni individuo di autodeterminarsi: di cambiare idea, di trovare una soluzione a eventuali errori commessi, di non dover subire quelli fatti da altri. Dobbiamo lasciare alle persone il diritto di scegliere, a patto che questo non leda il resto della comunità. Io non so se mai abortirò e probabilmente avrei la risposta solo trovandomi nella condizione di doverlo fare o meno. Ma a oggi non posso pensare che una democrazia costringa un individuo vivente a dover compiere un passo, quello della maternità, che per tante ragioni non è pronto o non vuole fare. Non posso pensare che uno Stato intenda tutelare una potenziale vita, distruggendone milioni di altre.

Eleonora Panseri

Il diritto di essere donna

Ho letto diversi tweet in queste settimane sull’argomento “donne e molestie”. Come sempre ci sono quelli che attaccano le femministe, sostenendo che non diano lo stesso peso alle molestie degli Alpini rispetto a quelle degli “immigrati” sul treno a Riva del Garda. In particolare, mi hanno scossa due tweet che cito:

1. “Se continuiamo con questa narrazione che prevede che tutto sia molestia, arriveremo al punto che gli uomini avranno paura anche a prendere un ascensore da soli con una donna”;
2. “Arriveremo al punto che le donne dovranno supplicare gli uomini per essere considerate sessualmente, perché i maschi giustamente ci penseranno due volte”.

Purtroppo, non è facile spiegare la delicatezza e il rispetto che una donna vorrebbe dal momento in cui un uomo decide di approcciarla. Non mi stancherò mai di ripetere che non si tratta della questione in sé ma del modo in cui vengono proposte le attenzioni.


Tempo fa ero con un ragazzo (a me molto caro e vicino), un ragazzo rispettoso, e un suo amico, che chiameremo Super Mario. Davanti a noi passarono un gruppo di ragazze, con degli abitini estivi, e Super Mario, con un tono poco consono a voce alta si rivolge a loro con un: “Gonna corta, cortissima!”. Una delle ragazze lo sente, lo ignora, ma si abbassa comunque la gonna.
Di quella serata mi è rimasta solo la sensazione di impotenza per non aver reagito, per paura di sembrare pesante, quando invece sarebbe stato corretto il mio intervento. E, soprattutto, nell’immagine della ragazza che ha dovuto tirare giù la gonna per il commento di un idiota.

Mi rivolgo specialmente alle figure maschili, se mai leggeranno questa riflessione. Vedo sempre qualche “like” sporadico su vari canali social come sostegno all’indignazione di queste continue molestie che le donne ricevono, ma mai più di questo. Nessun tipo di condivisione o parere personale postato sui propri social, come invece spesso accade quando condividono altre notizie (attualità, sport, moda, viaggi e meme).

Mi viene naturale quindi domandarmi come mai una figura maschile, con una sua opinione ben precisa sull’argomento, non senta la necessità di dar voce a quello che succede, nonostante appoggi la causa.
Ora che ci penso, conto sulle dita di una mano il numero di figure maschili che, nel proprio piccolo, cercano di condannare la condizione precaria delle donne nel mondo. Per esempio, sui salari, l‘Iva sugli assorbenti, il diritto ad abortire, la violenza verbale e fisica. Non parliamo di sostenere le femministe (se considerate estremiste), ma giuste cause per cui stiamo lottando da anni.

Alla fine siete tutti fidanzati, amici, fratelli, cugini di qualche soggetto femminile che avete a cuore, quindi perché una qualsiasi altra notizia sì, e qualcosa per il “loro” bene, che poi sarebbe il bene di una società più moderna, che offre pari opportunità, no? Cosa vi porta a pensare che una notizia sia più importante di un’altra? E’ bellissimo quando le donne si fanno portavoce dei loro diritti, della loro intraprendenza e intelligenza. Del loro lato più sicuro e sfacciato. Aggiungo, però, che è sublime quando a farlo è un uomo. Abbiamo la necessità di avere al nostro fianco chi ci aiuti ad avere un futuro alla pari come compagne di vita, per davvero. Imparare a condividere e a correggere il necessario, perché è necessario.

Ai tweet che ho letto sulla crocifissione degli alpini e il placido dissenso nei confronti delle molestie da parte di uomini (non di immigrati, perché in questo caso solo di uomini si tratta) sul Garda rispondo che non esistono molestie di tipo A o di tipo Z. Non esistono molestie più gravi e meno gravi perché esiste solamente il trauma che lasciano dentro ciascuna vittima, perché di traumi e vittime parliamo, non esistono i mezzi termini. Ho lavorato in un luogo squallido in cui le ragazze venivano chiamate solo con nomignoli e vezzeggiativi: “amore, tesoro, stellina, zucchero, bambolina”. Mi sono sfogata su questo fatto e nessuno ha capito quanto mi facesse male, quanto è brutto essere demolite e sentirsi piccole tanto da non avere un nome.

“Ma lasciali stare, che schifo, lascia questo posto”, nessuno che avesse capito che la reale domanda da pormi era: ma tu come stai? Perché sono stata male, stiamo male, ognuna di noi ha i propri confini. Tutte le altre persone, di qualsiasi sesso, dovrebbero imparare a non superarli perché chiediamo rispetto, non facciamo la morale. Ognuno dovrebbe sapere quando sta superando il limite, quando si prendono spazi e libertà che non gli appartengono.


Non parliamo di messaggi sui social o un singolo fischio di qualche soggetto. Di cosa sto parlando lo sappiamo davvero tutt* anche quell* a cui non è mai capitato di essere vittima o carnefice. E siamo ancora qui a filosofeggiare sui “cambia lavoro, bloccalo sui social, rispondigli la prossima volta, se cammini da sola ti faccio compagnia al telefono”. Mentre continua la lotta tra le donne che pensano: “ il catcalling è bello” e quelle che invece lo condannano come gesto. Un palcoscenico di discussioni sterili dove un uomo medio ci osserva senza prendere una reale posizione e si gode la scena come fossimo nude sotto la doccia. Cosa ci scanniamo, ancora, tra donne? Smettiamola di dire cosa è molestia e cosa non lo è, lasciamoci il diritto di scegliere cosa per un soggetto sia molestia e cosa non lo sia, di non aver sbagliato a non denunciare subito uno stupro, di aver avuto paura a opporsi, il diritto di star male per aver subito molestie.

Dobbiamo ripartire dalla base, quindi capire prima di tutto che siamo differenti, siamo quello che siamo. Perché se non lo capiamo tra di noi, se non ci appoggiamo e non ci prendiamo i nostri diritti non lo farà mai nessuno: siamo sole. E allora, sì, mi sta bene che attrici dopo anni dichiarino di aver subito molestie, di non averlo detto subito e di aver aspettato di avere una fama a proteggerle, se questo può aiutare chi ha subito a sentirsi meno sola. Soprattutto a continuare a lottare insieme per la libertà di essere donne.


Marissa Trimarchi

Calcio femminile, svolta storica in Italia: diventerà professionistico da luglio 2022

Le calciatrici italiane hanno (finalmente) vinto un diritto. Il 26 aprile 2022, il Consiglio Federale della Figc ha ufficialmente equiparato le giocatrici di calcio donne agli uomini, modificando le norme e sancendo il passaggio al professionismo per la Serie A femminile a partire dalla prossima stagione. “Dal primo luglio inizia il percorso del professionismo del calcio femminile, siamo la prima federazione in Italia ad avviare e ad attuare questo percorso”, ha detto il presidente Gabriele Gravina.

Una decisione che è arrivata non senza qualche resistenza. Durante la votazione, la Lega Serie A (rappresentata dal presidente Lorenzo Casini e dai consiglieri federali Claudio Lotito e Beppe Marotta) si è espressa contraria, nonostante la propria assemblea interna fosse d’accordo con il procedere in modo positivo. Solo un “malinteso“, ha spiegato Lotito, mentre Gravina ha assicurato che tutti erano d’accordo, con qualche piccola resistenza e proposta di rinvio. La votazione è stata poi ripetuta con il sì finale della Lega di A. “È un punto di partenza che ci spinge a lavorare con grandissimo impegno per raggiungere e garantire nel tempo la sostenibilità di tutto il nostro sistema” ha commentato Ludovica Mantovani, presidente della Divisione Calcio Femminile.

Non può essere considerato un punto di arrivo, ma è comunque il primo traguardo di un percorso cominciato più di due anni fa, dopo le grandi prestazioni delle Azzurre ai Mondiali di Francia 2019. In questo periodo il calcio femminile ha iniziato a ottenere i primi risultati importanti. Nel 2019, Juventus-Fiorentina si era giocata davanti alle 40mila persone dello Stadium. L’anno successivo era stata la volta di Milan-Juventus a San Siro, seppur vuoto a causa della pandemia, un ostacolo che ha rallentato la crescita del calcio femminile. Il movimento è ancora indietro rispetto a quelli di altri Paesi, come quelli scandinavi e il Regno Unito. In Spagna, sulle tribune di un Camp Nou tutto esaurito per Barcellona-Real Madrid di Women’s Champions League c’erano 90mila persone. L’Ajax e la nazionale olandese riconoscono la parità di prestazione tra uomini e donne e lo stesso avviene in Brasile. A febbraio 2022 negli Stati Uniti, Megan Rapinoe e compagne hanno ottenuto la parità salariale e un risarcimento per la discriminazione di genere subita in questi anni.

Oltre al professionismo, dal 2022-23 il campionato di Serie A femminile avrà anche un nuovo format, già adottato in Austria, Belgio, Danimarca e Repubblica Ceca. Lo scudetto e la retrocessione si decideranno con un torneo a eliminazione diretta. Le dieci squadre della massima serie, disputeranno una prima parte di stagione con gare di andata e ritorno per un totale di 18 giornate. Successivamente le prime cinque della classifica accederanno a una poule scudetto, con il palio il titolo di Campione d’Italia e l’accesso alla Women’s Champions League (prima e seconda classificata). Le restanti cinque, invece, si giocheranno la salvezza: l’ultima retrocede direttamente in Serie B e la penultima dovrà giocarsi la salvezza in una gara di play out contro la seconda del campionato cadetto.

Filippo Gozzo

Ai figli anche il cognome della madre: la Corte costituzionale abolisce l’attribuzione automatica di quello paterno

D’ora in avanti i figli porteranno entrambi i cognomi dei genitori (a meno che siano gli stessi, di comune accordo, a decidere il contrario). Lo ha deciso il 27 aprile la Corte Costituzionale con una sentenza storica, dove si legge che la regola che attribuisce automaticamente il cognome del padre è “discriminatoria e lesiva dell’identità del figlio”.

Più nello specifico, la Corte si è pronunciata sulla norma che non consentiva ai genitori, di comune accordo, di attribuire al figlio il solo cognome della madre e su quella che, in mancanza di accordo, imponeva il solo cognome del padre, anziché quello di entrambi i genitori.

L’Ufficio comunicazione e stampa della Consulta ha fatto sapere, in attesa del deposito della sentenza, che le norme censurate sono state dichiarate illegittime per contrasto con gli articoli 2, 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli articoli 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

A portare la questione davanti alla Consulta sono stati due avvocati, Domenico Pittella e Giampaolo Brienza. “La storia parte da lontano”, ha spiegato Pittella a Skytg14. “La coppia (protagonista del caso, ndr), ancora non sposata, ha due figli riconosciuti solo successivamente dal padre e che quindi portano il solo cognome della madre. Dopo alcuni anni i due decidono di sposarsi, il papà riconosce i figli ma la coppia chiede di non aggiungere ai ragazzi, oramai cresciuti, il cognome del padre”. La situazione si fa problematica con l’arrivo del terzo figlio: “I genitori chiedono, per un principio di armonia e omogeneità, di poter dare il solo cognome materno”, prosegue Pittella, “una richiesta fino ad oggi non consentita dalla legge“.

I due però non si sono dati per vinti e, grazie alla loro determinazione, si è arrivati alla decisione della Consulta. “Una grande soddisfazione. La coppia che ha intrapreso questo complesso e faticoso iter giudiziario mi ha chiamato poco fa: sono commossi e consapevoli di avere scritto una pagina storica, loro ci hanno sempre creduto”, ha detto Pittella all’ANSA, dopo aver appreso la notizia.

La decisione, che ha ricevuto il plauso della classe politica e della società civile, arriva però in ritardo rispetto a quasi tutti gli altri Paesi europei. Le leggi degli altri Stati, infatti, in forme diverse, riconoscono la libertà ai genitori di attribuire ai propri figli il cognome paterno, materno o quello di entrambi.

In Francia e in Belgio, ad esempio, senza un accordo tra i genitori, si assegnano entrambi i cognomi in ordine alfabetico, mentre in Portogallo i genitori sono liberi di scegliere quale e quanti cognomi mettere, fino a un massimo di quattro. Nel Regno Unito, un caso curioso, i genitori possono attribuire anche un cognome diverso dai propri. Ma il caso più virtuoso è sicuramente quello della Spagna, dove esiste l’obbligatorietà nell’attribuzione di entrambi i cognomi. I genitori sono liberi soltanto di scegliere in quale ordine vadano posti.

Eleonora Panseri

Oscar 2022: uno schiaffo che spiega come a Hollywood regni (ancora) una cultura patriarcale

È passata ormai qualche settimana dalla 94esima edizione degli Oscar e dopo il susseguirsi di commenti a caldo sui vincitori e le polemiche a seguito dell’accaduto durante la serata, cosa ci rimane di questi Academy Awards 2022?

Una serata all’insegna del lusso, dello sfarzo e del politicamente corretto, una patina che ha reso questa edizione estemporanea, dato il momento storico che stiamo vivendo – neanche un cenno agli avvenimenti in Ucraina, se non per qualche sporadica spilla azzurro-gialla appuntata su qualche bavero della giacca, per non parlare della totale assenza di mascherina (è proprio vero: il Covid, come dicono in molti, è finito, malgrado la risalita di contagi e la scoperta di nuove varianti).

Ma veniamo al dunque, ciò che ha fatto più discutere in queste settimane: Will Smith, in lizza per il premio Best Actor in a Leading Role, sale sul palco e di fronte a una platea a metà tra il divertito e lo sbigottito dà uno schiaffo all’attore comico Chris Rock, dopo che quest’ultimo ha fatto una battuta sull’aspetto fisico della moglie di Smith, Pinkett Smith, paragonandola alla protagonista di GI Jane (per chi non avesse visto il film, la protagonista interpretata da Demi Moore si rasa i capelli). Aspetto fisico che a dire di Chris Rock dovrebbe essere similare a quello di Pinkett Smith, affetta da alopecia.

In molti si sono schierati a favore del gesto di Smith, definendolo “obbligato” per difendere la moglie dal commento offensivo di Rock. Smith stesso durante il discorso di ringraziamento, dopo aver ritirato il premio per miglior attore, si scusa dicendo: “Love makes you do crazy things”. L’amore fa fare pazzie, appunto. Ma è forse proprio questo il punto? Si può considerare un atto di violenza come un dettato dall’amore, per l’amore?
Molte parole sono state spese in suo favore. Secondo molti stava semplicemente difendendo la moglie e, in fondo, Chris Rock se l’è meritato. Ma è proprio così? Lo schiaffo che è stato dato non è forse, invece, espressione di una cultura patriarcale e machista?

Innanzitutto, il gesto di Smith è simbolo di come ancora oggi la violenza sia strettamente correlata al concetto di uomo e di essere uomo: un uomo deve essere forte, fisicamente e non solo a parole, per sapersi e saper difendere.
Che cosa? Il proprio onore, l’onore della propria moglie e della propria famiglia – sì, suona proprio come un detto di altri tempi, eppure eccoci qui a parlarne. Come se Pinkett Smith non fosse perfettamente in grado di sapersi difendere dalle parole ignoranti e ottuse di un altro uomo, che pensa di poter fare della sua condizione – e di tante altre persone – oggetto di ridicolo.
Pinkett Smith è stata così privata della possibilità di difendersi e di esprimere sé stessa in una situazione che la riguardava direttamente. Non solo, nella propria dimostrazione di mascolinità tossica, Smith si è totalmente dimenticato di voltarsi verso sua moglie e chiederle come stesse in quel momento. Una totale mancanza di empatia verso una persona che viene derisa per la propria condizione fisica, e che si suppone sia da te amata e rispettata.

A questo, possiamo aggiungere la correlazione tra atto violento e amore: lo schiaffo come dimostrazione dell’amore che Smith prova per la moglie. Una giustificazione che troppo spesso ormai sentiamo e vediamo quasi ogni giorno sui titoli di giornali e telegiornali. Un uomo che pazzo d’amore agisce in modo violento. Giustificare lo schiaffo a Chris Rock come una pazzia dettata dall’amore non fa altro che avvallare una cultura patriarcale e machista, dove si giustifica la violenza – per fortuna questa volta non nei confronti di una donna, ma scusanti di questo tipo utilizzate nei titoli di giornali e nei commenti di molti che la pensano così se ne potrebbero elencare a bizzeffe.

Soffermiamoci, però, anche sulla battuta “comica” di Chris Rock: paragonare Pinkett Smith, affetta da alopecia, alla protagonista di GI Jane non è altro che la dimostrazione di come, ancora, la nostra società sia fortemente condizionata dal patriarcato. Una persona che per fare della comicità deride pubblicamente la condizione fisica – ma potrebbe anche essere la razza, la condizione sociale, l’orientamento sessuale, e via dicendo – di un’altra, sminuendola di fronte ad altri e sottolineando la condizione di “diversità” rispetto alla massa. Non è forse la cara e vecchia retorica del “prendersela con il più debole”?

Cosa ci rimane, quindi, di questi Academy Awards? Un senso di amaro in bocca e il pensiero che molto ci sia ancora da fare. Specialmente in un mondo, quello del cinema e dello spettacolo, dove sono ancora gli uomini a farla da padrone. Basta considerare che, escluse le categorie per cui sono nominati solo gli uomini (ad esempio miglior attore), le donne rappresentano in media il 14% delle nomination in tutte le altre categorie aperte a entrambi i sessi. Un altro esempio: il premio per miglior regista, il più prestigioso, quest’anno è andato a Jane Campion per Il potere del cane, una “mosca bianca” se consideriamo che la categoria è aperta ad entrambi i sessi e dal 1929 ad oggi, delle 449 nomination per miglior regista, solo due premi sono stati consegnati a delle donne – Kathryn Bigelow nel 2010 per il film The Hurt Locker e Chloé Zhao nel 2021 per il film Nomadland.
Nella storia degli Academy Awards solo altre quattro donne sono state nominate per questa categoria: Lina Wertmüller, la prima donna ad essere nominata a miglior regista nel 1977 per Seven Beauties; Sofia Coppola per Lost in Translation; Greta Gerwig per Lady Bird e Emerald Fennell con Promising Young Woman chiudono la (più che) breve lista. Ancora più evidente è la differenza di genere se consideriamo la categoria Miglior fotografia, dove l’unica donna ad essere mai stata nominata è stata Rachel Morrison nel 2018 per il suo lavoro su Mudbound.

Disparità di genere che non è limitata solo al cinema d’oltreoceano, ma anzi, è ben presente anche nel Vecchio Continente: un recente studio attesta che nel settore audiovisivo europeo la percentuale di donne registe si attesta solo al 23%. Tra il 2016 e il 2020 la percentuale di donne direttrici della fotografia è al 10%, mentre quella delle compositrici solo al 9%, afferma l’Osservatorio audiovisivo europeo. Nello stesso periodo, solo il 33% di donne è tra i produttori e un 17% tra gli sceneggiatori. Dati che uniti alle considerazioni fatte in precedenza, fanno pensare a come il mondo dell’audiovisivo sia pervaso da una cultura fortemente improntata al patriarcato – come dimenticare anche il caso Harvey Weinstein – e dove la disparità di genere è all’ordine del giorno.

Verrebbe da domandarsi: cosa sarebbe successo se a fare la battuta comica fosse stata una donna riferendosi a un uomo?. Ne sarebbe scaturito uno
schiaffo? Probabilmente no, forse non saremmo qui a parlarne. La strada da percorrere è sicuramente lunga, per ora possiamo perlomeno fare i complimenti a Jane Campion.

Sara Mandelli

Violenza domestica, la Corte di Strasburgo condanna l’Italia: «le autorità nazionali hanno fallito»

Il 7 aprile 2022 la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ha condannato l’Italia per non aver protetto Annalisa Landi e i suoi due bambini dalle violenze domestiche subite dal compagno, poi condannato a 20 anni di carcere, anche per l’omicidio di uno dei figli. Le autorità italiane, “con la loro inazione”, avrebbero infatti permesso all’uomo di agire indisturbato, nonostante il “grave rischio di maltrattamenti”.

Di indizi, per la Corte, ce ne erano fin troppi. Niccolò Patriarchi soffriva di un disturbo bipolare caratterizzato da comportamenti violenti. In passato, gli era già stato disposto il divieto di avvicinamento verso l’ex partner. E negli attacchi tra novembre 2015 e settembre 2018, tre prima dell’ultimo, quello dell’uccisione del figlio, era sempre intervenuta la polizia di Scarperia (Firenze). Landi aveva anche esposto una serie di denunce, poi ritirate, nei confronti dell’uomo, su cui le autorità stavano indagando per violenze domestiche.

Secondo la CEDU, l’Italia avrebbe violato l’articolo 2 della Convenzione Europea dei Diritti umani, che prevede il diritto alla vita. Come riporta la sentenza, “le autorità nazionali hanno fallito nel compito di condurre una valutazione immediata e proattiva del rischio di reiterazione degli atti violenti commessi” e “nell’adottare misure preventive”. Per la Corte inoltre non avrebbero reagito “né immediatamente, come richiesto per i casi di violenza domestica, né in qualsiasi altro momento”. Per questo, l’Italia dovrà risarcire Landi di 32mila euro.

Alessandra Tommasi

Cosa ci ha lasciato questo 8 marzo

Un’altra Giornata internazionale dei diritti delle donne è passata e come ogni anno necessita forse di qualche momento di riflessione. Purtroppo, anche l’8 marzo 2022 è stato viziato dalla solita zuccherosa retorica “rosa”, ormai trita e ritrita. In occasione di questa ricorrenza, così importante per alcun* e così redditizia per altr*, viene profuso un impegno incredibile nel produrre un florilegio di spot, manifesti, iniziative e simili che posizionano le donne su un piedistallo dal quale vengono automaticamente spinte giù nei restanti 364 giorni dell’anno.

Come avviene anche per il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne (ricordiamo che dall’inizio del 2022 ne sono state uccise 13, l’anno scorso sono state 119), i toni usati prevalentemente sono quelli, da un lato, della “specie protetta da difendere” (le donne, per esempio, si trasformano in fiori da curare), dall’altro, delle “wonder womaninvincibili. A queste, e qui cito, “magnifiche creature” viene ricordato il loro ruolo di madri, sorelle, compagne e amiche e ci si chiede: “Che mondo sarebbe senza le donne?“.

Non abbiamo la risposta a questa domanda. Invece sappiamo bene qual è la situazione di un mondo dove le donne esistono. Secondo Eurostat, nel 2021 la retribuzione oraria delle donne europee è stata del 13% inferiore rispetto a quella dei colleghi uomini. E nello stesso anno, come si legge in un articolo de La Stampa, in Italia è stata uccisa una donna ogni 72 ore. Nel 2020 invece, secondo un’indagine condotta da Save the Children su adolescenti tra i 14 e i 18 anni, il 70% delle ragazze intervistate dichiarava di aver subito molestie nei luoghi pubblici e apprezzamenti sessuali e il 64% raccontava di essersi sentita a disagio per commenti o avance da parte di un adulto di riferimento. Nel Rapporto Donne Manageritalia 2020, poi, si legge che le donne in posizione dirigenziale erano, solo due anni fa, il 18,3% del totale, poco meno di 1 su 5. Un dato che, tuttavia, non stupisce se, nello stesso anno, le donne italiane svolgevano 5 ore e 5 minuti di lavoro non retribuito di assistenza e cura al giorno (gli uomini un’ora e 8 minuti), il 74% del totale. Ed è forse anche per questo che il 21% delle donne in età lavorativa dichiarava di non essere disponibile o di non ricercare lavoro attivamente proprio a causa dell’impegno totalizzante che la cura della casa, di bambini e anziani richiede loro.

Di fronte a questo quadro decisamente desolante (meno male che siamo nel XXI secolo, dicono alcuni), celebrare i successi delle donne non è forse così sbagliato, anzi. Farlo regalando la mimosa, poi, è senza dubbio un gesto da apprezzare. Sarebbe però ancora più bello se chi ne fa dono conoscesse anche la storia di questo simbolo. Il fiore venne scelto nel secondo dopoguerra su proposta di Teresa Mattei, ex partigiana e dirigente del Partito Comunista Italiano (PCI), in prima linea per tanti anni nella lotta per i diritti delle donne. Insieme a Rita Montagnana e Teresa Noce, scelse un fiore economico, facile da trovare anche in natura, per permettere a tutte le donne di riceverlo. «La mimosa era il fiore che i partigiani regalavano alle staffette. Mi ricordava la lotta sulle montagne e poteva essere raccolto a mazzi e gratuitamente», raccontò Mattei, morta nel 2013 a 92 anni, in un’intervista. «Quando nel giorno della festa della donna vedo le ragazze con un mazzolino di mimosa penso che tutto il nostro impegno non è stato vano».

È proprio dall’impegno di Mattei e delle donne di tutto il mondo che il Women’s Day nacque molti anni prima rispetto ai fatti raccontati poco sopra. Celebrata per la prima volta negli Stati Uniti del 1909, la Giornata della donna fu all’epoca un’occasione per rivendicare il diritto di voto femminile, che in quegli anni veniva negato, e maggiori tutele sindacali. La società dei consumi l’ha poi trasformata nella festa commerciale che conosciamo oggi ma in molt* è ancora forte la consapevolezza che si tratta invece di una giornata di riflessione su quanto è stato fatto o che ancora c’è da fare, una giornata che ha un profondo significato politico.

Equo salario e riforme per una più giusta divisione tra i due sessi del lavoro di cura, tutela della maternità e, allo stesso tempo, del diritto all’aborto, sono solo alcuni dei temi sui quali anche le società occidentali più “avanzate” devono ancora fare passi avanti. E se pensiamo che nel mondo le donne sono ancora vittime di violenze fisiche, psicologiche, economiche, è davvero così strano o poco lecito chiedersi a cosa servono i grandi proclami che vengono fatti in queste occasioni?

Le mimose le accettiamo volentieri, ma anche alcuni diritti in più non sarebbero male.

Eleonora Panseri

Calcio, vittoria storica per la nazionale femminile Usa: Megan Rapinoe e compagne avranno la parità salariale

Per Megan Rapinoe, Alex Morgan e compagne è l’ennesimo trofeo. Questa volta, però, è un traguardo di vita, non solo professionale. Ieri la nazionale di calcio femminile degli Stati Uniti ha ottenuto la parità salariale con la squadra maschile. Una battaglia lunga oltre sei anni al grido di “Equal Pay”, passata per il trionfo di Lione ai mondiali del 2019, partita in cui proprio Rapinoe segnò il gol del vantaggio sull’Olanda. Quei campionati del mondo sono stati la vetrina della rivendicazione delle calciatrici americane, capitanate, in campo e fuori, proprio dalla centrocampista.

In base all’accordo, la U.S. Soccer Federation dovrà alle ragazze statunitense anche un risarcimento di 24 milioni di dollari: 22 come arretrati e due destinati a un fondo post-carriera, da cui ogni giocatrice potrà richiedere fino a 50mila dollari. Nonostante la cifra sia di molto inferiore ai 67 milioni di dollari richiesti inizialmente, per la nazionale femminile a stelle e strisce si tratta un accordo storico. Non solo la squadra femminile guadagnerà come quella maschile, ma è stata anche riconosciuta la disparità salariale avvenuta finora.

Le giocatrici avevano accusato la Federazione di averle discriminate per il loro genere, pagandole meno della nazionale degli uomini nonostante il paragone impietoso sui successi sportivi (quattro titoli mondiali per le donne, di cui due vittorie consecutive ai mondiali in Canada e Francia; nessuno per gli uomini). Nel 2019 avevano avviato il ricorso, poi bocciato da un giudice distrettuale l’anno successivo. Le calciatrici avevano portato la questione in appello, anche con l’appoggio del presidente Joe Biden, che si è schierato dalla parte delle giocatrici arrivando a minacciare un taglio dei fondi per i mondiali maschili del 2026.

«Alla fine, ci siamo riuscite. Sono così orgogliosa del modo in cui noi giocatrici siamo rimaste unite e abbiamo puntato i piedi. Questa è una grande vittoria”, ha commentato la 36enne californiana Megan Rapinoe, campionessa in campo e attivista per i diritti Lgbt, «questo sarà uno di quei momenti incredibili che cambiano le regole per sempre, il calcio Usa è cambiato per sempre, e anche nel resto del mondo. Per noi, questa è solo una grande vittoria nel garantire che non solo correggiamo i torti del passato, ma prepariamo la prossima generazione per qualcosa che avremmo potuto solo sognare».

Filippo Gozzo

Donne e scienza: il 54% delle adolescenti è appassionata di materie stem ma continua a ritenerle “poco adatte”

Appassionato ma titubante. Potremmo descrivere così l’atteggiamento delle ragazze italiane nei confronti delle materie scientifiche e tecnologiche. Secondo l’ultima ricerca realizzata da Ipsos per Save the Children, in occasione della Giornata internazionale per le donne e le ragazze nella scienza, il 54% ne è incuriosita, anche se le ritiene “poco adatte“.

L’obiettivo della giornata è quello di incentivare la partecipazione delle ragazze al mondo scientifico, non solo in qualità di beneficiarie, ma anche come agenti di cambiamento per il perseguimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile previsti dall’Agenda 2030 dell’Onu.

Nel 2021 le immatricolazioni universitarie hanno registrato un aumento delle donne iscritte alle facoltà Stem (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica), in particolare in informatica e tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Itc) con un +15,74%. Ma quelle che scelgono corsi scientifici sono il 22% sul totale delle iscritte. Le intervistate da Ipsos pensano di poter dare un contributo concreto, per esempio, nella produzione di energia sostenibile (31%) e la diminuzione delle emissioni inquinanti dei mezzi di trasporto (27%).

Foto Pexels

La direttrice dei programmi Italia-Europa di Save the Children, Raffaela Milano, ha sottolineato come stia crescendo “tra le bambine e le ragazze, in Italia e nel mondo, la consapevolezza del loro valore e del contributo che possono dare in ambito scientifico. L’acquisizione di una piena ‘cittadinanza scientifica’ è considerata oggi da molte come un diritto fondamentale per rispondere alle sfide ambientali e della salute. Tuttavia il divario di genere è molto presente e si radica, sin dai primi cicli di istruzione, negli stereotipi, ancora oggi diffusi, che vorrebbero le ragazze poco portate verso le materie scientifiche e che bloccano sul nascere i loro talenti”.

Il rapporto tra ragazze e mondo della scienza e della tecnologia verrà approfondito venerdì 11 febbraio alle 17 in una diretta sul canale Instagram di Save the Children, alla quale parteciperanno, tra gli altri, Antonella Inverno, Responsabile politiche Infanzia e Adolescenza dell’Organizzazione e l’attrice e testimonial di Save the Children Caterina Guzzanti.

Eleonora Panseri

(Fonte: ANSA)

Milano, sarà di Daniela Olivieri la statua per Margherita Hack

Sarà Daniela Olivieri, in arte Sissi, a realizzare per Milano la statua dedicata a Margherita Hack. A giugno 2022, in occasione del centenario della nascita della celebre astrofisica, sarà installata in Largo Richini, nel giardino che fronteggia l’ingresso dell’Università degli Studi “La Statale”.

Si tratta del secondo monumento che il capoluogo meneghino dedica a una figura femminile: a settembre 2021 è stato inaugurato ufficialmente quello dell’intellettuale Cristina Trivulzio di Belgioioso, attiva patriota durante il Risorgimento. Ma quella dedicata ad Hack sarà la prima a raffigurare una scenziata sul suolo pubblico in Italia.

L’opera si intitola “Sguardo fisico” e rappresenta Margherita Hack intenta a osservare le stelle mentre emerge da un vortice raffigurante una galassia.

Foto ANSA

Daniela Olivieri, che realizzerà il monumento in bronzo, è nata nel 1977 a Bologna, insegna attualmente all’Accademia delle Belle Arti di Firenze ed è vincitrice di diversi riconoscimenti nazionali e internazionale (ricordiamo il Premio Alinovi, il Gotham Prize, il New York Prize).

Ad annunciare la decisione il 9 febbraio, sono stati Fondazione Deloitte, Casa degli Artisti e Comune di Milano, i tre enti che qualche mese fa hanno indetto il concorso di idee per scegliere l’artista a cui affidare l’incarico. Al bando avevano aderito 8 artiste italiane e internazionali: insieme con Olivieri, Chiara Camoni, Giulia Cenci, Zhanna Kadyrova, Paola Margherita, Marzia Migliora, Liliana Moro e Silvia Vendramel.

I testi, i disegni, i rendering e le maquette dei progetti presentati saranno in mostra fino al 20 febbraio nello spazio espositivo di Casa degli Artisti.

Foto ANSA

Eleonora Panseri

(Fonte: ANSA)

Diritti LGBTQ+, il parlamento francese vieta le terapie di conversione

La Francia ha vietato le terapie di conversione dell’orientamento sessuale. Mercoledì 26 gennaio il Parlamento francese ha approvato in via definitiva le pratiche che pretendono di curare l’orientamento sessuale delle persone omosessuali, bisessuali o transgender. Il testo ha scatenato però le proteste di psichiatri e giuristi, in particolare riguardo al nodo dell’identità di genere.

La legge – La nuova legge è stata presentata da Laurence Vanceunebrock, deputata di Lrem (La République en Marche), il partito del presidente Emmanuel Macron. Finora le terapie di conversione erano accomunate a reati come molestie morali o pratica illegale della medicina. Un approccio insufficiente secondo i sostenitori della nuova legge, che permetterà ora di aumentare la consapevolezza dell’illegalità di queste pratiche. Chiunque continuerà ad adottare le terapie di conversione rischierà due anni di carcere e una multa di 30mila euro, che potranno salire fino a tre anni di reclusione e 45mila euro nel caso in cui fosse coinvolto un minore.

«Nessuno potrà più pretendere di essere in grado di curare le persone LGBT», ha dichiarato Vanceunebrock. Macron ha esultato per l’entrata in vigore della nuova legge con un post su Twitter: «Essere se stessi non è un crimine, non c’è niente da curare». La Francia si aggiunge alla lista di Paesi in cui le terapie di conversione sono vietate, tra cui Germania, Malta, Brasile e Canada, che aveva adottato questa legge il 7 gennaio scorso.

Cosa sono – Le terapie di conversione sono pratiche pseudoscientifiche che hanno come obbiettivo quello di cambiare l’orientamento sessuale di una persona. L’individuo è “curato” per far sì che ritorni alla sua originaria eterosessualità, per eliminare o ridurre i suoi desideri e comportamenti omosessuali. Le tecniche tentate sono diverse: modificazione del comportamento, terapia dell’avversione (esporre un paziente a uno stimolo e simultaneamente a una forma di disagio, ndr), psicoanalisi, preghiere, fino alla lobotomia.e a terapie religiose come l’esorcismo. In alcuni casi si è ricorso persino all’elettroshock. Le ricerche condotte dalla comunità scientifica non hanno mai confermato i risultati dichiarati dalle associazioni che promuovono queste pratiche. Anzi, ne hanno evidenziato la pericolosità.

Il nodo – Nel primo articolo della nuova legge è stata inserita anche l’identità di genere, cioè il senso di appartenenza di una persona a un genere con cui essa si identifica e che può essere differente dal suo sesso biologico. In Francia, come in molti altri Stati, si segnala una grande crescita di giovanissimi che decidono di intraprendere un percorso di transizione di genere attraverso bloccanti della pubertà, ormoni e operazioni chirurgiche. Questo ha suscitato le proteste dell’ Observatoire la petite sirène, il collettivo che riunisce medici, psicologi, psichiatri e psicanalisti per l’infanzia: «Non potremo più prendere in cura i minori che soffrono di disforia di genere, nella legge non si fa distinzione tra minori e maggiorenni e i problemi delle due categorie non sono gli stessi».

Dopo l’approvazione del decreto, un medico non potrà più rifiutarsi di effettuare una transizione richiesta dal minore o dai genitori, né potrà effettuare un consulto psicologico per valutare se l’operazione sia o meno adeguata al caso concreto. «Il nostro approccio è neutro e vogliamo accogliere i bambini permettendo loro di raggiungere la maturità prima di intervenire dal punto di vista medico», queste le parole della psicologa e psicanalista Céline Masson riportate sul mensile Tempi. Un altro punto criticato alla legge è quello sui genitori. Si legge che, qualora venisse impedita la transizione di genere al figlio, il padre e la madre rischierebbero «la revoca totale o parziale dell’autorità genitoriale».

Il caso Keira Bell – L’anno scorso era diventato celebre, nel Regno Unito e poi a livello internazionale, il caso di Keira Bell. La ragazza originaria di Manchester aveva cominciato il suo percorso di transizione a 16 anni, salvo poi pentirsi della propria scelta e denunciare la clinica Tavistock and Portman, che l’aveva aiutata in questo processo e colpevole secondo lei di aver assecondato con troppa leggerezza il suo desiderio. «Non si possono prendere decisioni simili a 16 anni», aveva dichiarato Bell, «I ragazzi a quell’età devono essere ascoltati e non immediatamente assecondati. Io ne ho pagato le conseguenze, con danni gravi fisici». L’Alta Corte inglese aveva accolto il ricorso contro la clinica, dichiarando che è «altamente improbabile che un adolescente possa comprendere in maniera appropriata gli effetti a medio e lungo termine del cambio di genere e fornire a chi lo prende in cura per la transizione da un sesso all’altro un adeguato consenso informato».

Mattia Camera

Shoah, Liliana Segre e la «colpa» di essere nata

«Porto il mio numero con grande onore perché è la vergogna di chi lo ha fatto. Persone odiate per la colpa di essere nate e che non avevano più diritto al loro nome diventano un numero. Il numero serve, in quella numerazione, per sapere quanti pezzi c’erano. Io sono stata un pezzo». In una delle sue ultime apparizioni pubbliche, un’intervista rilasciata a Massimo Gramellini del novembre 2019 (un anno dopo si è ritirata a vita privata), la senatrice della Repubblica italiana Liliana Segre raccontava così l’esperienza dell’Olocausto. Segre, 91 anni, è tra le ultime testimoni sopravvissute agli orrori dei campi di sterminio nazisti: in occasione della Giornata della memoria, ripercorriamo la sua storia.

Un’infanzia felice

Milano, 1930: Liliana Segre nasce il 10 settembre e cresce in corso Magenta 55, dove oggi sono posate le pietre d’inciampo dedicate al padre Alberto e ai nonni paterni, Giuseppe Segre e Olga Lövvy. La madre Lucia muore 25enne di cancro, quando sua figlia ha solo un anno di vita. Quella di Liliana Segre è tuttavia un’infanzia felice: il padre, che perde la moglie giovanissimo, ha solo 31 anni, decide di dedicarsi totalmente alla bambina, la vizia e la ama profondamente. I Segre vivono una vita agiata.

Liliana sperimenta una prima grande sofferenza a 8 anni quando, per le sue origini ebraiche, viene espulsa da scuola: è il 1938 e in Italia entrano in vigore le leggi razziali. «Mi restò per anni la sensazione di essere stata cacciata per aver commesso qualcosa di terribile, che in seguito tradussi dentro di me come “la colpa di essere nata”; perché altre colpe certo non ne avevo: ero una ragazzina come tutte le altre», ha raccontato in diverse occasioni la senatrice.

Il tentativo di fuga in Svizzera e il carcere

L’8 settembre 1943 cade il fascismo, il centro e il sud Italia vengono liberati dagli Alleati. Ma il nord del Paese rimane in mano ai fascisti e ai tedeschi. Alberto Segre capisce il pericolo che corrono gli ebrei e tenta la fuga in Svizzera con Liliana: «La storia di questa fuga grottesca la racconto sempre, quando vado a testimoniare nelle scuole, perché sulle prime mi sentivo un’eroina, sui valichi dietro Varese. Era inverno e attraversavamo i boschi, io e mio papà: passavamo il confine come clandestini, come animali sulle montagne. Eravamo liberi, pieni di speranza. Ma arrivati di là, un ufficiale svizzero tedesco ci trattò come degli imbroglioni, come delle cose orribili che capitavano proprio a lui, e ci respinse, ci consegnò agli italiani, condannandoci a morte».

I due vengono arrestati a Varese, portati nel carcere di Como, infine trasferiti in quello milanese di San Vittore. Restano per 40 giorni nel V raggio, sezione che i fascisti avevano destinato ai detenuti ebrei. Segre, all’epoca 13enne, e suo padre lasciano il carcere e Milano il 30 gennaio 1944, insieme a più di seicento persone, tra cui quaranta bambini. Dal binario 21 della Stazione Centrale inizia «il viaggio verso il nulla durato una settimana» in un vagone sprangato. Il viaggio verso Auschwitz.

Il campo di concentramento e la perdita del padre Alberto

«Ad Auschwitz un passo avanti o indietro poteva cambiare il destino. Sono anziana, ma non sono mai uscita davvero dalla me stessa di allora. E ogni anno che passa, mi chiedo “Ma come ho fatto, ma come ho fatto, ma come ho fatto?”. Potrei andare avanti all’infinito ma non ho la risposta. Uomini di qua, donne di là: quando scendemmo dal treno e ci separammo, mio padre mi disse di restare con una nostra conoscente, la signora Morais. Eppure quando la guardia mi chiese se fossi sola, ebbi l’istinto di dire di sì. Finii in una fila, la signora Morais in un’altra, e andò al gas». Liliana Segre raggiunge il campo di concentramento il 6 febbraio 1944. Arrivano ad Auschwitz 605 persone, ma in poche ore 500 ne vengono uccise con il gas. La ragazza perde in quel momento suo padre Alberto, che non rivedrà mai più: «Mi ha amato e io lo ho amato con tutta me stessa. Resta il grande nodo irrisolto della mia vita. Il dolore più grande del mondo ce lo siamo dati reciprocamente: io per la sua perdita, lui perché quando ha lasciato la mia mano sulla rampa di Auschwitz-Birkenau, non credo pensasse che ce l’avrei mai fatta». La stessa sorte sarebbe toccata nel maggio dello stesso anno anche ai nonni paterni Giuseppe e Olga, arrestati 6 mesi dopo Alberto e Liliana, e ai suoi cugini.

Liliana Segre invece vede la sua vita risparmiata ed è costretta a lavorare in una fabbrica, la “Union”, che produce munizioni, diventa 75190. Un numero diverso per ogni sopravvissuto ma per tutti il simbolo dello sterminio di 17 milioni di persone: ebrei, disabili, zingari, omosessuali, prigionieri politici. Tra le esperienze più strazianti che la senatrice ha raccontato in questi anni, c’è quella di Janine: una ragazza, ebrea francese di 12 anni, internata con Liliana Segre ad Auschwitz. Una mattina la ragazzina viene ritenuta non idonea per continuare a lavorare e destinata alla camera a gas. Soltanto perché aveva perso due dita. Resta uno dei rimpianti di Segre, quello di non averla salutata, di non averle mostrato un ultimo gesto di affetto e umanità: «Lei non serviva più, andava al gas. E io, che ero appena passata e che tutti i giorni lavoravo con lei, sono stata orribile, così ero diventata. Non mi sono voltata, non accettavo più distacchi. Ma non ci fu mai più un tempo in cui non mi ricordai di Janine».

Dopo circa un anno di lavori forzati e la chiusura del campo, Segre viene trasferita in Polonia, poi in Germania, nei campi di Ravensbrück e Malchow. È il 1° maggio del 1945 quando viene liberata dai russi. Tornerà a Milano nel 1946, fra i 25 sopravvissuti di età inferiore ai 14 anni.

Nel 1948 conosce a Pesaro, durante una vacanza al mare, Alfredo Belli Paci, il suo futuro marito. Anche lui deportato in diversi campi di concentramento nazisti per non aver aderito alla Repubblica di Salò, Alfredo conquista Liliana, colpita dalla sua somiglianza fisica e caratteriale con il padre Alberto. I due si sposano con rito cattolico nel 1951 e dalla loro unione nasceranno Alberto, Luciano e Federica.

La testimonianza per le generazioni future e l’impegno politico

Solamente nei primi anni ’90 Liliana Segre decide di rompere il silenzio in cui si era rifugiata e di diventare testimone vivente della sua prigionia. Per molti anni parla con gli studenti di varie scuole, un’attività alla quale, come lei, tanti altri sopravvissuti alla Shoah si sono dedicati con l’intenzione di educare le generazioni future, affinché cose come queste non avvengano mai più.

Il riconoscimento non è solo civile, ma anche politico: nominata prima Commendatore della Repubblica Italiana sotto il governo Ciampi, poi senatrice a vita, nel 2018, dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, “per aver illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo sociale“. Nel 2004 una medaglia d’oro dalla città di Milano e nel 2008 e 2010 due lauree ad honorem, in Legge dall’Università di Trieste, e nel 2010 in Scienze pedagogiche dall’Università di Verona. E in diversi altri momenti la cittadinanza onoraria in diverse città, tra cui Lecco, Palermo e Varese.

Nel 2020 è invitata al Parlamento europeo dal recentemente scomparso Presidente David Sassoli. Davanti ai più alti rappresentanti delle istituzioni di tutta Europa ripercorre gli orrori vissuti, meritando l’applauso commosso di tutta l’assemblea: «La forza della vita è straordinaria, è questo che bisogna trasmettere ai giovani, che sono mortificati dalla mancanza di lavoro, mortificati dai vizi che ricevono dai loro genitori molli per cui tutto è concesso Mentre la vita non è così, è una marcia. Noi non volevamo morire, eravamo pazzamente attaccati alla vita, qualunque fosse».

Qualche tempo dopo l’Università di Roma “La Sapienza” le conferisce un dottorato honoris causa in storia dell’Europa che Segre dedica al padre Alberto,“ucciso per la colpa di essere nato”. Nell’ottobre dello stesso anno l’ultimo discorso pubblico, prima di ritirarsi a vita privata. A Rondine, in provincia di Arezzo, inaugura idealmente il progetto dell’ “Arena di Janine”, dedicata alla ragazza “scartata”, la compagna di Auschwitz. In quell’occasione ha detto: «Non perdono e non dimentico, ma non odio».

Rispettando i suoi compiti da senatrice a vita, nel 2021 ha votato la fiducia al Governo Conte II e la mozione di conferimento della cittadinanza italiana onoraria al ricercatore egiziano dell’Università di Bologna Patrick Zaki, liberato l’8 dicembre scorso dopo due anni di detenzione nel carcere del Cairo. Ha partecipato anche all’elezione del futuro Presidente della Repubblica italiana nel gennaio 2022.

«C’è una bambina, tra quelli del campo di Terezin, poi deportati e uccisi ad Auschwitz per la sola colpa di essere nati, che ha disegnato una farfalla gialla che vola sopra i fili spinati. […] Questo è un semplicissimo messaggio da nonna che vorrei lasciare ai miei futuri nipoti ideali: che riescano sempre a fare una scelta, che con la loro responsabilità e coscienza siano in grado di essere sempre quella farfalla gialla che vola sopra i fili spinati», Liliana Segre.

Eleonora Panseri

Quirinale, da Cederna a Belloni: tutte le donne (quasi) Presidente della Repubblica

Da qualche giorno circola il nome di Elisabetta Belloni, la donna a capo dei servizi segreti italiani, come possibile figura terza che metta d’accordo le diverse forze politiche chiamate a eleggere, il 24 gennaio, il nuovo Presidente della Repubblica italiana. Se Belloni dovesse effettivamente salire al Colle, sarebbe la prima donna a farlo (come già lo è stata, nel ricoprire la carica che attualmente riveste). Anche se il suo non è l’unico nome femminile apparso nella lunga storia delle elezioni al Quirinale.

Camilla Cederna, Elena Moro e Ines Boffardi

Le prime candidate al ruolo apparvero in sede di scrutinio soltanto 30 anni dopo l’istituzione del ruolo presidenziale. Nel 1978 venne poi eletto Sandro Pertini (1896-1990), prima partigiano, poi politico e giornalista, uno dei più amati presidenti della Repubblica di sempre (il settimo). Ma durante lo scrutinio vennero fatti anche i nomi di Camilla Cederna (1911-1997), giornalista famosa per l’inchiesta realizzata per l’Espresso che costrinse il predecessore di Pertini, Giovanni Leone, a dimettersi; quello di Eleonora Moro (1915-2010), moglie dell’ex presidente del Consiglio assassinato lo stesso anno, Aldo Moro; e il nome di Ines Boffardi (1919-2014), partigiana attiva nelle Sap, le Squadre di azione patriottica, durante gli anni della guerra. Le tre ottennero rispettivamente quattro, tre e due voti. Il futuro presidente Pertini, in qualità di presidente della Camera durante le votazioni di quell’anno, dovette richiamare i colleghi che di fronte ai voti di Boffardi scoppiarono a ridere: «Colleghi, non c’è nulla da ridere, anche una donna può essere eletta!».

Camilla Cederna (Photo by Fototeca Gilardi/Getty Images)

Nilde Iotti

Il nome di Cederna apparve anche nell’elezione successiva, quella del 1985, insieme a quello della partigiana Tina Anselmi (1927-2016), prima donna eletta ministro della Repubblica nel 1976. Anselmi venne candidata anche alle votazioni del 1992, dove ottenne 19 voti. Ma quell’anno fu Nilde Iotti (1920-1999), partigiana e per 13 anni (dal ’78 al ’92) prima donna a ricoprire l’incarico di presidente della Camera, a ottenere un ottimo risultato. Proposta dal partito democratico della sinistra come candidata di bandiera, conquistò 256 preferenze. Molte, se pensiamo a quelle delle colleghe, ma non sufficienti per superare il quorum e venire eletta.

Nilde Iotti (Photo WikimediaCommons)

Emma Bonino

Emma Bonino (1948-), storica leader del Partito radicale e senatrice della Repubblica, è stata nominata per la prima volta alle elezioni del 1999, insieme a Rosa Russo Iervolino (1936-), parlamentare dal ’79 al 2001 ed ex sindaca di Napoli. In quell’occasione le due ottennero rispettivamente 15 e 16 preferenze. Il nome di Bonino è poi tornato in tutte le successive elezioni: nel 2006, insieme a quelli di Anna Finocchiaro, Franca Rame e Lidia Menapace; nel 2013 ancora con Finocchiaro, Rosy Bindi, Paola Severino, Alessandra Mussolini, Daniela Santanchè e Annamaria Cancellieri, nel 2015 insieme al nome di Luciana Castellini. Anche per la votazione del 2022 alcuni avevano parlato di lei, ma  in un’intervista a Repubblica, Bonino ha detto: «Ringrazio tutti quelli che pensano a me, da Roberto Saviano a Carlo Calenda a tutti i militanti che mi scrivono. Ma credo proprio che il mio momento fosse anni fa».

Emma Bonino con il Presidente Sandro Pertini (Photo by WikimediaCommons)

Il “caso Gabanelli”

Una situazione particolare si verificò nel 2013, quando venne fatto il nome della giornalista Milena Gabanelli (1954-). La fondatrice ed ex voce narrante di Report, il noto programma d’inchiesta di Rai 3, fu infatti la più votata alle “quirinarie“: un sondaggio organizzato dal Movimento cinque stelle sul proprio blog per scegliere il candidato che il partito avrebbe poi presentato. Gabanelli ottenne il voto online di 6000 persone ma declinò l’invito: «Credo che per ricoprire un ruolo così alto ci voglia una competenza politica che io non credo di avere».

Milena Gabanelli (Photo by WikiCommons)

I nomi del 2022

Oltre a Belloni e Bonino, quali altre donne sono state indicate per il “toto nomi” del 2022? È tornato quello di Rosy Bindi (1951-), ministra della Repubblica e presidente della Commissione parlamentare antimafia dal 2013 al 2018, tra le “papabili” del 2006. Per l’elezione di quest’anno sono state proposte anche Letizia Moratti (1949-), ex sindaca di Milano e da gennaio 2021 vicepresidente e assessore al Welfare della Regione Lombardia, ed Elisabetta Alberti Casellati (1946-), eletta presidente del Senato nel 2018 su proposta del centrodestra, ma ritenuta valida da tutte le parti politiche. Ugualmente gradita potrebbe essere Marta Cartabia (1963-), prima donna presidente della Corte costituzionale (dal 13 settembre 2011 al 13 settembre 2020) e attuale ministra della Giustizia nel Governo del premier Mario Draghi.

Marta Cartabia (Photo by WikiCommons)

Quelle che “ce l’hanno fatta”

Come abbiamo già detto, la prima a sfondare l’ormai ben noto “soffitto di cristallo” delle istituzioni italiane è stata Nilde Iotti, prima presidente della Camera dei deputati, dal 1979 al 1992. Solo altre due, però, hanno avuto l’occasione di seguirla: Irene Pivetti nel 1994 e Laura Boldrini nel 2013, 19 anni dopo. Per non parlare del fatto che soltanto nel 2018 è stata eletta la prima (e, di conseguenza, l’unica) presidente del Senato donna, ancora in carica: Maria Elisabetta Alberti Casellati. Belloni potrebbe davvero farcela? Come ha detto qualche tempo fa il nostro Presidente della Repubblica uscente, Sergio Mattarella, sarebbe “un sogno, forse una favola”.

Eleonora Panseri

Sci, Goggia torna a vincere: sesto successo stagionale nella discesa di Cortina

Sofia Goggia in versione supersonica. Torna sulla pista Olimpia delle Tofane, a Cortina d’Ampezzo, dopo l’infortunio alla tibia che lo scorso anno l’aveva esclusa proprio dai Mondiali nella famosa località sciistica veneta. E lo fa vincendo. Quello di oggi è il sesto trionfo stagionale per la 29enne bergamasca.

La discesa dimezzata a causa del vento e la partenza da un punto più in basso non hanno impedito alla sciatrice azzurra di dominare la gara. Goggia ha disegnato linee impensabili sulla neve per combattere le sferzate dell’aria e, nonostante qualche errore, è stata comunque la più veloce. Due i decimi di vantaggio sulla seconda classificata, l’austriaca Ramona Siebenhofer, e sulla terza, la ceca Ester Ledecká. Male, invece, Federica Brignone: per la “Tigre” è solo 17esimo posto, a più di un secondo di ritardo da Goggia.

Sofia Goggia sulle Tofane durante la discesa libera, Cortina d’Ampezzo, Italia, 22 gennaio 2022. ANSA/ANDREA SOLERO

Il successo la rilancia nella classifica generale (complice l’assenza delle avversarie Mikaela Shiffrin e Petra Vlhová) e rafforza la prima posizione nella specialità di discesa libera, dopo la brutta caduta dello scorso weekend in Austria. Un pieno di fiducia in vista delle Olimpiadi invernali di Pechino, al via il 4 febbraio. Goggia non ha cominciato nel migliore dei modi il suo 2022 e le ultime vittorie risalivano allo scorso dicembre in Val d’Isère. Ora la campionessa olimpica di discesa libera in carica può guardare con fiducia all’appuntamento con la manifestazione in Cina, per provare a ripetere l’impresa del 2018 a Pyeongchang, in Corea del Sud.

Cile, Boric sceglie 14 donne per il suo Governo: tra loro anche Maya Fernández, nipote di Allende

Gabriel Boric, il nuovo presidente cileno, candidato leader della sinistra progressista eletto a dicembre 2022, ha presentato la squadra di Governo. I ministri che si insedieranno ufficialmente a marzo sono 24. Ma la grande novità, il chiaro segnale di rottura con il passato che Boric ha voluto mandare, sono le 14 ministre che, in numero maggiore, occupano importanti ministeri. Due dei quali, Difesa e Interni, per la prima volta nella storia del Paese sono affidati a figure femminili: Maya Fernández e Izkia Siches.

Maya Fernández: la nipote di Allende alla Difesa

La guida del ministero della Difesa è stata affidata a Maya Fernández, 50 anni, figlia di Beatriz Allende e nipote del defunto presidente Salvador Allende, vittima del colpo di Stato ordito dal generale Augusto Pinochet. Nata nel 1970, un anno dopo l’elezione del governo di Unità Popolare, guidato dal nonno, ha vissuto in esilio all’Avana (Cuba) dal 1973 al 1990. Membro del Partito socialista cileno, Fernández ha avuto il primo incarico politico nel 2002, durante l’amministrazione del presidente Ricardo Lagos. Eletta deputata nel 2017, ha assunto il ruolo di presidente della Camera due anni dopo. È stata una delle prime figure del suo partito ad appoggiare pubblicamente la candidatura di Boric, quando la proposta dei vertici socialisti era stata la democristiana Yasna Provoste.

Il ministero dell’Interno e della Sicurezza pubblica va alla 35enne Izkia Siches

Boric sceglie la 35enne Izkia Siches, di professione medico, per il ministero degli Interni e della Sicurezza pubblica. Con un passato di militante nella gioventù comunista, Siches si è poi impegnata come indipendente nelle organizzazioni universitarie. Ha deciso di dimettersi dalla presidenza del Collegio dei medici del Cile, ottenuta nel 2017 (è stata la più giovane nella storia dell’istituzione) per aiutare Boric, durante il ballottaggio presidenziale del 19 dicembre 2021, a recuperare lo svantaggio del primo turno nei confronti del candidato della destra, José Antonio Kast. Il suo ruolo nella pandemia la trasformata in una figura nazionale. Infatti, sono partite da lei alcune proposte importante per la lotta al coronavirus: la richiesta di affidarsi agli esperti e agli specialisti del settore sanitario, di rafforzare le restrizioni alla mobilità delle persone e di intensificare le attività di screening.

Eleonora Panseri

Violenza sulle donne: perché il sistema preventivo fallisce

Juana Cecilia Hazana Loayza aveva già denunciato Mirko Genco, 24 anni, l’ex compagno che le ha tolto la vita il 19 novembre. Era stato arrestato il 5 settembre per atti persecutori e il giorno dopo scarcerato e sottoposto alla misura cautelare del divieto di avvicinamento. Ma il 10 settembre Genco era stato arrestato di nuovo per violazione della misura, violazione di domicilio e ulteriori atti vessatori, riuscendo a ottenere i domiciliari con un patteggiamento a due anni. Anche Vanessa Zappalà, 26 anni, uccisa lo scorso agosto ad Acitrezza (Catania) a colpi di pistola, aveva denunciato per stalking l’ex compagno 37enne Antonio Sciuto. L’arresto dell’uomo, però, non era mai stato convalidato.
Nella relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidi, presieduta dalla senatrice Valeria Valente, viene riportato che solo una donna su sette uccisa tra il 2017 e il 2018 aveva denunciato il proprio assassino. Ma quelle che denunciano non vengono tutelate: lo dimostrano alcune delle storie delle 109 donne assassinate dall’inizio del 2021. A questo si aggiunge il mancato sovvenzionamento dei centri antiviolenza e un ritardo culturale che non viene colmato dal sistema educativo. Dopo ogni femminicidio il solito commento è: “Qualcosa non ha funzionato”. Ma in Italia c’è più di “qualcosa” che non funziona.

“C’è un grande problema: l’assenza di professionalità tra magistrati e forze dell’ordine”, ha dichiarato il giudice Fabio Roia, presidente vicario del tribunale di Milano e componente dell’Osservatorio sulla violenza contro le donne, in un’intervista a Repubblica pubblicata martedì 23 novembre. Avviene spesso che le denunce non vengano prese in considerazione con la necessaria serietà: alcune vittime di violenza raccontano di essere state invitate dalle stesse forze dell’ordine a pensarci due volte prima di formalizzare le accuse. In più, su 118 processi arrivati a sentenza per femminicidio considerati dalla Commissione d’inchiesta istituita sul tema, solo 98 si sono conclusi con una condanna.
“È necessario che chi si occupa di questa materia sia formato su scienze complementari, dalla psicologia all’esperienza quotidiana degli operatori dei centri antiviolenza. Occirre essere in grado di comprendere il ruolo della donna nel ciclo della violenza. Le leggi che abbiamo sono buone ma non vengono applicate con competenza”, prosegue Roia. E conclude: “Dobbiamo essere in grado di proteggere le donne senza limitare la loro libertà. Le donne stanno sei mesi chiuse nelle case rifugio in attesa che i giudici decidano eventuali misure cautelari nei confronti degli uomini che le minacciano. Ma non dobbiamo sradicare dalle loro case e dal loro quotidiano, sono gli uomini che dobbiamo togliere dalla circolazione”.

Non ci sono i soldi per le attività dei centri antiviolenza. Anzi, bisognerebbe dire piuttosto che i fondi ci sono ma non arrivano a destinazione. Lo ha denunciato qualche giorno fa l’ong ActionAid nel dossier “Cronache di un’occasione mancata”, un documento che monitora il movimento dei fondi antiviolenza sul territorio nazionale. Di quelli stanziati per il 2020 solo il 2% del totale è stato effettivamente consegnato a centri e case per donne vittime di abusi (e in sole due regioni: Liguria e Umbria).
A marzo 2020, su iniziativa della ministra per le Pari Opportunità Elena Bonetti, la cifra totale ammontava a 3 milioni di euroma solo poco più di 25mila sono effettivamente arrivati ai centri (meno dell’1%). Il mese successivo, con un bando d’emergenza per gli enti che gestiscono il sistema antiviolenza, la ministra aveva chiesto 5,5 milioni di euro: soltanto 142 hanno potuto farne richiesta perché i soldi venivano distribuiti a quanti erano in grado di offrire una garanzia pari all’80% dell’importo.
A maggio poi è stato istituito il “reddito di libertà“, misura pensata per permettere alle donne vittime di violenza di essere economicamente indipendenti con un contributo massimo di 400 euro al mese per 12 mesi. L’Inps ha pubblicato la circolare per definire le modalità e i requisiti di accesso al fondo l’8 novembre. Da maggio a oggi, quindi, nemmeno un euro dei 3 milioni complessivi stanziati a Centri e Case è stato consegnato. In più, secondo un gruppo di 84 associazioni di donne che gestiscono circa 150 realtà del sistema antiviolenza (la rete D.i.Re), per sostenere tutte le donne che avrebbero bisogno del “reddito di libertà” servirebbero almeno 48 milioni.

In una nota Istat sull’andamento del mercato del lavoro nel primo trimestre del 2021 si leggeva che il 59,3% delle donne fra i 15 e i 34 anni, cioè 6 su 10, non lavora e non cerca lavoro e che le donne inattive per motivi familiari sono più di quelle inattive per studio. Quando si tratta di indipendenza economica femminile spesso si sottovaluta l’importanza che questa assume in contesti familiari violenti.
Promuovere politiche che favoriscano l’assunzione delle donne, la giusta retribuzione e servizi che consentano di ridurre il carico del lavoro di cura, da sempre ritenuto appannaggio quasi esclusivo del genere femminile, permetterebbe a buona parte delle donne di abbandonare compagni e mariti violenti dai quali però, purtroppo, sono costrette a dipendere in assenza di impiego. Situazione che si fa ancora più complessa quando sono coinvolti anche eventuali figli minorenni. La necessità di rendere le donne sempre più autonome economicamente diventa stringente se si osserva l’ultimo report della Direzione centrale anticrimine della polizia: il 36% dei femminicidi è stato commesso da mariti o conviventi delle vittime.

Il fallimento del sistema che dovrebbe prevenire le violenze deriva, forse non del tutto ma sicuramente in parte, da una prolungata assenza della società su questi temi. Dal linguaggio sessista che riempie le pagine dei giornali e i programmi televisivi, all’assenza di progetti educativi capillari negli istituti scolastici che formino i giovani sul tema. Anche nella comunicazione delle iniziative volte a sensibilizzare la popolazione si osservano carenze non indifferenti: la nuova campagna contro la violenza di genere della polizia di Catania si chiama “Aiutiamo le donne a difendersi”, come se il problema riguardasse solo le vittime e non un sistema, una mentalità che da secoli limita l‘autodeterminazione femminile. Come se la causa di questa enorme problematica sociale non fossero gli uomini che le massacrano di botte o le uccidono.

Lavorare sugli uomini sarebbe la cosa più logica da fare e a dirlo sono le statistiche. Per esempio, a Milano è stato sperimentato il “protocollo Zeus” che obbliga gli uomini segnalati per violenze a fare percorsi terapeutici e che ha portato nel capoluogo a una riduzione dei casi recidivi del 90%.
Dal 2006 è attivo il numero di pubblica utilità 1522, tra i pochi strumenti che le donne hanno per denunciare le violenze e il reato di stalking, introdotto nel 2013. Operatrici volontarie rispondono 24h su 24, tutti i giorni dell’anno, sull’intero territorio nazionale e forniscono un primo supporto a quante ne hanno bisogno, offrendo informazioni e indirizzando le vittime, quando necessario, verso i centri antiviolenza. Il numero garantisce l’assoluto anonimato e nel secondo trimestre 2020, a causa del lockdown, l’Istat ha registrato un picco: 12.942 chiamate valide e 5.606 vittime. Uno strumento sicuramente utile ma non risolutivo.
Negli ultimi anni si è parlato con maggiore frequenza di violenza sulle donne ma spesso lo si fa male e non in maniera continuativa e trasversale, quasi a voler dedicare a un tema importante ma complesso solo un giorno, il 25 novembre. Riducendo al silenzio le vittime passate, presenti e future per il resto dell’anno.

Eleonora Panseri

Articolo originariamente pubblicato su Upday news

Cancro alla cervice in UK, con vaccino contro Hpv cala il rischio dell’87%: «Risultato storico»

È un risultato storico. Cervarix, il vaccino contro il Papilloma virus, a 13 anni dalla sua introduzione nel Regno Unito ha favorito la riduzione dei casi di cancro alla cervice uterina dell’87%. I dati emersi grazie al Cancer Research Uk sono stati pubblicati sulla rivista scientifica britannica “The Lancet”, che lancia questo studio come uno dei più straordinari degli ultimi decenni, considerando che il Papilloma è uno dei virus più diffusi e letali al mondo con 300.000 vittime ogni anno. Questi numeri sono l’esito di una lunga ricerca che ha avuto i suoi primi frutti l’1 settembre 2008 con l’introduzione in commercio del vaccino, destinato nel Regno Unito a ragazze di giovane età compresa tra gli 11 e i 13 anni. I risultati si sono visti ora che le pazienti sono in età adulta, mentre lo studio ha stimato che a partire da giugno 2019 il programma di vaccinazione contro il Papilloma ha permesso di prevenire 448 tumori alla cervice e 17.235 fasi pretumorali. «Questa è solo la punta dell’Iceberg. I risultati sono ancora più eccezionali di quello che avevamo predetto», ha detto alla Bbc il professor Peter Sasieni, esperto di prevenzione tumorale al King’s College.

Dati sorprendenti – A fare la differenza nella campagna di immunizzazione è l’età in cui le donne hanno ricevuto il vaccino. Più la fascia di età si abbassa, più è alta la possibilità di non contrarre il virus. Tra i 16 e i 18 anni la riduzione di casi di cancro alla cervice è pari al 34%, nella fascia tra i 14 e i 16 anni è del 62%, mentre per le ragazze molto giovani a cui il Cervarix è stato inoculato all’età di 12-13 anni, la possibilità di contrarre il cancro diminuisce dell’87%. I dati utilizzati sono relativi a 13,7 milioni di donne che ad oggi hanno tra i 20 e i 30 anni.

Alta adesione alla vaccinazione – La campagna vaccinale nel Regno Unito ha avuto grande successo. Tra il 2008 e il 2012 circa il 90% delle giovani adolescenti inglesi si è vaccinato, garantendo così un alto livello di prevenzione in fase di crescita. «Per le donne è fondamentale ricevere il vaccino in giovane età, prima che si inizi ad essere sessualmente attive, considerando che il Papilloma si trasmette principalmente tramite rapporti sessuali», ha detto Sasieni, che poi ha aggiunto: «Sappiamo che in passato molti teenagers sono stati colpiti dal Papilloma e in generale l’80% della popolazione ha contratto il virus». La speranza è che Cervarix possa favorire l’immunizzazione di gregge e garantire una protezione dal Papilloma per tutta la durata della vita di una donna, ma ancora non ci sono certezze. Per questo è fondamentale ricevere i richiami del vaccino.

Il metodo di ricerca – Dal primo momento in cui Cervarix è stato introdotto l’obiettivo era uno solo: ridurre l’incidenza del cancro alla cervice e favorire la campagna di prevenzione. Ad essere più a rischio sono le donne tra i 16 e i 18 anni, sessualmente attive e con maggior esposizione al virus, che nel 2008 rappresentavano l’80% dei casi totali di contagio nel Paese. Il programma vaccinale, quindi, ha preso in considerazione come fattore principale le fasce d’età: 12-13, 14-16 e 16-18 anni, mentre per la comparazione dei risultati sono state individuate donne nate tra l’1 maggio 1989 e il 31 agosto 1990 e non vaccinate. L’aspettativa di riduzione del cancro alla cervice e della neoplasia intraepiteliale alla cervice era pari al 36–48%, 59–64%, e 68–71% per ogni fascia d’età (dalla più vecchia alla più giovane). Aspettative che sono state di gran lunga superate.

Papilloma virus: come riconoscerlo – Il 99% dei tumori alla cervice uterina è causato dal Papilloma virus che, però, può essere fermato grazie a un’attenta e periodica attività di monitoraggio. Prima che il cancro si formi e cresca in stato avanzato attraversa una fase pre-tumorale che può essere bloccata in tempo. I principali sintomi causati dal Papilloma sono un anormale sanguinamento durante i rapporti sessuali, tra un ciclo mestruale e l’altro e anche dopo la menopausa. Inoltre può provocare anche dolore, fastidi e perdite vaginali. Se peggiora nel tempo può portare a cistite, diarrea, incontinenza e sangue nelle urine. È necessario, quindi, fare uno screening continuo con controlli ogni tre, cinque anni e ovviamente procedere con la vaccinazione.

Benedetta Mura

Originariamente pubblicato su:
https://www.lasestina.unimi.it/layout-2/apertura/cancro-alla-cervice-con-vaccino-contro-hpv-cala-il-rischio-dell87-risultato-storico/

Perché “The Last Duel” di Ridley Scott è anche un film femminista

Francia, anno domini 1386. Due uomini si sfidano a duello. Uno per difendersi da un’accusa di stupro, l’altro invece si batte per il proprio onore di marito offeso. Al centro dell’arena, posta in alto rispetto ai duellanti, una donna, Marguerite de Carrouges, osserva la scena. Inizia così il nuovo film di Ridley Scott, “The Last Duel“, uscito nelle sale italiane il 14 ottobre e tratto dall’omonimo romanzo del 2004, scritto da Eric Jager. Il noto regista de “Il gladiatore” (vincitore di ben 5 premi Oscar) non poteva che proporre al suo pubblico un film ben fatto, consigliato a chi ama quelli di genere storico-drammatico. Tuttavia, al di là delle belle riprese e della sceneggiatura avvincente, chi ha gli strumenti per notarlo si accorgerà che il vero cuore del film non è il duello riportato nel titolo, ma quella donna che, tremante e incatenata, prega che il marito Jean de Carrouges, trionfi sullo sfidante ed ex amico Jacques Le Gris. Parlare della trama potrebbe in qualche modo portare a spoiler involontari. Quindi, in questo contesto, l’analisi verrà limitata alle tematiche femministe che, più o meno volontariamente, non ci è dato sapere, Scott ha inserito nel suo film.

Dal XIV secolo a oggi possiamo dire che, fortunatamente, la condizione della donna sia migliorata. Ma tra le qualità del regista capace sta quella di saper parlare, attraverso il passato, del presente. Il film racconta la storia di una donna stuprata nel Medioevo ma che ricorda molto da vicino quella delle survivors di tutte le epoche. Infatti, Marguerite, che trova il coraggio di denunciare il suo stupratore, finisce per affrontare tutte le prove che anche una vittima di stupro contemporanea vive sulla propria pelle.

In primis, l’atteggiamento del marito che sfida a duello l’ex amico e compagno d’armi non per un affetto sincero nei confronti della moglie, ma semplicemente per senso di rivalsa e di orgoglio maschile ferito. Marguerite è per Jean un oggetto di sua proprietà sul quale lo stupratore ha impresso un marchio d’infamia: solo il duello all’ultimo sangue potrà cancellarlo e restituire all’uomo la dignità perduta per colpa della consorte. A de Carrouges non interessa la sorte della donna che, nel caso lui perdesse il duello, verrebbe bruciata viva per aver mentito, o l’impatto che questo evento traumatico può aver avuto su di lei. L’uomo vive il fatto in virtù della propria visione del mondo e di come l’evento ha influenzato la sua, di vita.

Qui si passa a un altro interessante esperimento fatto dal regista: la divisione del film in tre parti, ognuna dedicata a uno dei protagonisti, intitolata “La versione di…”. Con questa divisione Scott enfatizza il diverso modo con cui prima Jean, poi Jacques e, per ultima, Marguerite, vivono quello che accade. In ogni versione notiamo particolari che in quella precedente o successiva non erano presenti o sfuggiti allo spettatore perché trascurati dal personaggio al centro di quel momento del film. Ne “La versione di Jacques Le Gris“, l’uomo accusato di stupro pronuncia una frase con la quale fa intendere che le resistenze della donna di fronte a un rapporto sessuale non consenziente per lui fanno parte del rituale della seduzione. Il consenso non è contemplato nella scala di valori di un uomo del Medioevo ma sembra che, in ogni secolo, anche quello attuale, non lo sia nemmeno per molti nostri contemporanei. Almeno questo è quello che emerge spesso dalle storie di donne sopravvissute ad una violenza sessuale. Ogni volta la responsabilità di uno stupro risiede nell’abbigliamento della vittima o nel fatto che fosse ubriaca o drogata e solo dopo nel comportamento criminale dell’uomo.

Le prime che fanno questo tipo di allusioni spesso sono altre donne. E’ ciò che accade anche in “The Last Duel”. Dopo la denuncia di Marguerite, le poche che lei considerava amiche le voltano le spalle, sostenendo in tribunale che, quello stupro, la donna lo desiderava perché una volta aveva riconosciuto a Les Gris di essere un bell’uomo. Il “se l’è cercata” aleggia prepotentemente in ogni scena post-denuncia.

Tra le detrattrici di Marguerite, anche la madre di suo marito che racconta alla nuora di essere stata stuprata a sua volta in gioventù. Ma questo non basta a farla empatizzare con la vittima del nuovo crimine: l’anziana donna la svilisce dicendo che lei, al contrario della ragazza, ha semplicemente scelto di stringere i denti, dimenticare il fatto e continuare con la sua vita. E da questo episodio si può trarre l’insegnamento più bello della pellicola: trovare la forza per denunciare un fatto, per non rimanere in silenzio di fronte a qualcosa che, sì, la società condanna, ma per il quale ti ritiene in parte colpevole pur non essendoci da parte tua alcuna responsabilità, non è facile. Ma alzare la testa e reagire consente non solo di cambiare il proprio destino, anche se tutti credono che sia già scritto, ma pure la sorte delle donne che verranno dopo.

Un film crudo, che lascia allo spettatore sensibile a questi fatti tanti temi su cui riflettere per giorni.

Le conseguenze della pandemia sull’istruzione femminile

Le bambine che nei prossimi anni dovrebbero frequentare la scuola primaria ma che probabilmente non vi accederanno mai sono 9 milioni. Un numero tre volte superiore rispetto a quello dei coetanei maschi. A dirlo è Save the Children in un report uscito in questo mese che offre un’analisi completa delle conseguenze della pandemia di Covid-19 sull’istruzione nel mondo e in Italia. La prolungata chiusura degli istituti e le difficoltà nell’accedere alla rete Internet per seguire le lezioni a distanza potrebbe far crescere nei prossimi anni i tassi di analfabetismo e l’abbandono scolastico. Le persone analfabete nel mondo sono quasi 800 milioni, due terzi di queste sono donne. I paesi più penalizzati sono quelli dell’Asia meridionale e dell’Africa subsahariana. Un esempio: in Sud Sudan il tasso di scolarizzazione e di alfabetizzazione delle ragazze è il più basso del mondo, ogni cento maschi, solo 75 femmine sono iscritte alla scuola elementare, e meno dell’1 per cento la conclude.

La principale causa di esclusione di bambine e ragazze dal contesto scolastico è la discriminazione di genere. Nei paesi più poveri le difficoltà per accedere all’istruzione interessano in maniera indiscriminata maschi e femmine, ma se una famiglia ha la possibilità di investire sul futuro dei propri figli la scelta ricadrà sempre sui maschi. Appena raggiungono la giusta età per farlo, alle figlie femmine si impone la cura della casa e dei fratelli più piccoli. In molte realtà del mondo, infatti, specialmente in quei paesi dove gli stereotipi sessisti sono più forti, l’unico futuro possibile per le bambine è quello di mogli e madri. Quelle poche studentesse che riescono a frequentare la scuola non trovano personale docente femminile che possa in qualche modo costituire un modello per loro e la mancanza di servizi igienici adeguati le costringe a dover rinunciare alle lezioni per tutto il periodo delle mestruazioni. Anche le strade poco sicure da percorrere per tornare a casa sono un grave problema perché, se non avviene già all’interno della famiglia, le bambine rischiano di essere vittime di violenze e abusi. A tutti questi problemi spesso si aggiunge quello della guerraSecondo il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef), nei paesi interessati da conflitti armati “le bambine hanno una probabilità doppia di interrompere le lezioni rispetto alle coetanee negli Stati politicamente stabili”.

In un’indagine pubblicata l’8 marzo sempre dall’Unicef, è stato segnalato il pericolo di un aumento esponenziale a causa del Covid dei matrimoni forzati tra ragazze minorenni e uomini adulti. Si legge nel rapporto che prima della pandemia si prevedeva che le bambine costrette a sposarsi prima dei 18 anni sarebbero state più di 100 milioni in 10 anni. Oggi a queste potrebbero aggiungersene altri 10 milioni. Molte famiglie, a seguito della recessione economica, si sono trovate senza i mezzi per sostentare l’intera famiglia. Per questo, il matrimonio di una figlia, anche se minorenne, a molti sembra la scelta migliore. Per non parlare del fatto che con la chiusura delle scuole e la sospensione di molti servizi di assistenza alle famiglie le ragazze sono tornate a occuparsi, insieme alle madri, di tutta una serie di mansioni di cui gli uomini non sono in grado di occuparsi o rifiutano di farlo. A tutto questo si aggiunge, in molti paesi dove a mancare sono anche l’acqua potabile o la corrente elettrica, l’assenza della rete Internet e dei dispositivi necessari per seguire eventuali lezioni da remoto.

Impedire a una ragazza di frequentare la scuola è, in primis, la negazione di un diritto fondamentale della persona. Infatti, come si legge nel primo comma dell’articolo 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo approvata dall’ONU nel 1948, “ogni individuo ha diritto all’istruzione. L’istruzione deve essere gratuita almeno per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali. L’istruzione elementare deve essere obbligatoria. L’istruzione tecnica e professionale deve essere messa alla portata di tutti e l’istruzione superiore deve essere egualmente accessibile a tutti sulla base del merito”. In più, la promozione delle pari opportunità in ambito scolastico permetterebbe alla società di crescere e progredire nel suo insieme. Consentire alle bambine di avviare un percorso di studi che gli permetta di inserirsi in futuro nel mondo del lavoro porterebbe a un aumento della produttività, del reddito delle famiglie e, di conseguenze, alla crescita economica di un paese. L’Unicef ha anche sottolineato come spesso le donne istruite siano più attente e informate riguardo alla propria salute e a quella dei propri figli. Nei paesi dove alle ragazze è consentito studiare si è verificata una diminuzione significativa di violenze, sfruttamento, gravidanze precoci o indesiderate e di malattie come l’infezione da HIV.

Eleonora Panseri

Articolo originariamente pubblicato su news.upday.com

Coronavirus, molti studi clinici non considerano le differenze di genere

“Le differenze di genere hanno un impatto sull’incidenza dell’infezione da SARS-CoV-2 e della mortalità da COVID-19. In più, tali differenze influenzano la frequenza e la severità di possibili effetti collaterali dati dai farmaci”.

Si apre così lo studio Mancata considerazione delle differenze di genere negli studi clinici sul Covid-19, uscito il 6 luglio sulla rivista scientifica “Nature communications“. L’obiettivo della pubblicazione: sottolineare come nei recenti studi clinici sul Covid-19 il diverso impatto della malattia su uomini e donne sia un fattore spesso trascurato.

Partendo dall’analisi del sito PubMed, uno dei più grandi archivi per la ricerca online, gli autori della pubblicazione hanno scoperto che dei 4,420 studi sulla SARS-CoV-2 e sul COVID-19, 935 (21.2%) si occupano del genere solo nel contesto della selezione dei volontari, 237 (5.4%) pianificano campionamenti basati sul sesso o enfatizzano il tema del genere e solo 178 (4%) riportano esplicitamente un piano per includere il genere o il sesso biologico come variabile analitica. Solamente 8 (17.8%) dei 45 test clinici pubblicati su riviste scientifiche fino al 15 dicembre 2020 riferiscono risultati divisi per sesso o analisi in sottogruppi.

Un’assenza di dati che, come sottolineato anche dalla giornalista e attivista britannica Caroline Criado-Perez nel libro Invisibili pubblicato nel 2019, investe molti aspetti della vita delle donne, non soltanto quello sanitario, e questo determina un effettivo peggioramento della qualità della vita del genere femminile.

E anche se le donne sono state tra le categorie più penalizzate dalla pandemia (a causa del lockdown che ha aumentato il numero delle violenze e in ambito lavorativo), l’anno scorso sono state protagoniste facendosi promotrici attive di cambiamenti epocali importanti e necessari.

Eleonora Panseri

La “troppa vita” dimenticata della poetessa Antonia Pozzi

«Quando la nomino non la conosce nessuno». Se ne stupisce ancora, dopo anni, Valeria Torresan, laureata in Lettere moderne all’Università degli Studi di Milano. Mai il programma della sua facoltà si è imbattuto nel nome di Antonia Pozzi. Eppure Eugenio Montale l’aveva inserita, unica donna, tra i più grandi poeti del ‘900. Valeria aveva letto per caso i suoi versi e ne era rimasta folgorata: «Ho deciso di fare la tesi su di lei, sentivo che mi chiamava». Ne è rimasto affascinato anche Paolo Cognetti, scrittore premio Strega, che ha curato la raccolta «L’Antonia», pubblicata pochi mesi fa.

Antonia Pozzi, poetessa nata nel 1912 a Milano, oltre a essere concittadina di Valeria, frequentava la stessa università. Nelle stesse aule ha affinato il talento poetico. Ciò nonostante la città non la ricorda, niente parla di lei e della sua arte. Valeria è la prima ad ammetterlo: «Mi sono stupita di aver trovato alcune sue poesie appese ai muri della stazione Garibaldi e il suo viso è raffigurato su una facciata dell’Istituto alberghiero Pasolini. È qualcosa, ma si potrebbe fare molto di più».

Antonia Pozzi non era solo una stella nascente della letteratura, era anche figlia di una famiglia prestigiosa: padre avvocato e madre di stirpe nobiliare, discendente di Tommaso Grossi. Eppure, secondo lo storico Gianfranco Scotti, furono proprio i genitori, alla morte prematura della figlia, a nascondere per lungo tempo il suo talento: «Il padre era un uomo duro, un fascista. Non perdonò ad Antonia la fine che aveva deciso per se stessa».

La ragazza, infatti, si uccise in una fredda mattina del dicembre 1938, a soli 26 anni. Salutò i suoi studenti dell’Istituto Tecnico Schiaparelli di Milano, dove insegnava Lettere, disse loro «fate i bravi», poi salì in sella alla sua bicicletta e pedalò fino all’abbazia di Chiaravalle, nella periferia della città. Si stese nella campagna innevata lì attorno e ingerì una dose letale di barbiturici. I genitori, a cui Antonia aveva lasciato una lettera,  fecero di tutto per evitare che la notizia di una fine così vergognosa si spargesse e ignorarono i componimenti di Antonia, da cui già si poteva presagire il peggio. Una sua breve poesia recita:

«E poi – se accadrà ch’io me ne vada – Resterà qualche cosa / di me / nel mio mondo - / resterà un’esile scia di silenzio / in mezzo alle voci - / un tenue fiato di bianco / in cuore all’azzurro»

Antonia aveva ragione: dopo la sua morte, attorno a lei e ai suoi versi si formò uno strato di oblio, reso ancora più spesso dallo scoppio della Seconda guerra mondiale. Fu Eugenio Montale il primo ad accorgersi, nel 1945, del valore della Pozzi, curando la prefazione della sua prima raccolta di poesie. La definì: «Una voce leggera, pochissimo bisognosa di appoggi, essa tende a bruciare le sillabe nello spazio bianco della pagina. La purezza del suono e la nettezza dell’immagine erano il suo dono nativo». La sua stima nei confronti della poetessa milanese non sfiorì con il tempo: «Quando fu chiesto a Montale, negli ultimi anni della sua vita, chi fossero per lui i più grandi poeti del Novecento, egli collocò nel novero, unica donna, Antonia Pozzi. Da allora si ebbe la sua rivalutazione, che la inserì nelle voci autorevoli della “linea lombarda”», spiega Scotti.

Ma anche nel percorso di riscoperta di Antonia Pozzi, Milano non compare tra i protagonisti. Il contributo più grande lo diede, infatti,  suor Onorina Dino, di Pasturo, piccolo paese in Valsassina. Fu lei a raccogliere e custodire con affetto le poesie che Antonia aveva scritto durante i mesi di villeggiatura. La città la opprimeva e Pasturo era il suo rifugio, come testimoniano i suoi versi:

«Giungere qui – tu lo vedi - / dopo un qualunque dolore / è veramente / tornare al nido»

«Antonia non aveva un grande rapporto con la sua città natale», racconta Scotti, «Provava più trasporto per la natura e adorava le montagne di Pasturo. Sentiva che Milano non l’aveva capita».

Meno ancora sembravano capirla i suoi genitori che avevano ostacolato l’amore tra la figlia e il suo professore di latino e greco Antonio Maria Cervi. «Antonia si innamorava spesso dei suoi compagni di scuola o di università, senza mai venire corrisposta. Ma solo Cervi fu l’amore della sua vita. La famiglia fece di tutto per impedirle di sposarlo, prevedendo per lei un matrimonio all’altezza della sua classe sociale», spiega Scotti.

Da qui il legame gelido con il capoluogo lombardo che non le permetterà mai di trovare la pace. Come analizza lo storico: «In lei si alternavano delusioni e speranze. La sua forza sta in aver tradotto queste emozioni in versi brillanti di purezza, senza tempo». Antonia sapeva come scavare nell’anima, tra burrasche e passioni ardenti: la letteratura, i viaggi, la montagna, l’arrampicata, la fotografia. Persino quando si tolse la vita, non lo fece per aridità di spirito ma, al contrario, per l’incapacità di incasellare il proprio estro nei rigidi limiti imposti dai genitori e dalla società. Lucida e tenace, i suoi versi parlano, postumi, per lei:

«Per troppa vita che ho nel sangue, tremo»

Emmy Awards 2021, candidata la prima donna transgender

L’attrice statunitense MJ Rodriguez entra nella storia come prima attrice transgender a essere candidata agli Emmy Awards nella categoria di migliore attrice protagonista. Al secolo Michaela Antonia Jaé Rodrig, deve la nomination al prestigioso premio televisivo a Pose, serie in cui interpreta Blanca Evangelista. Il personaggio incarna quello di una donna transgender che si porta sulle spalle un passato drammatico, segnato dal rifiuto della sua famiglia proprio a causa della sua identità di genere.

Nata il 7 gennaio 1991 a Newark (Usa), ha capito di sentirsi donna a 7 sette anni. Da sempre appassionata di canto, ballo e recitazione, debutta inizialmente a teatro, per esordire poi sul piccolo schermo nel 2012 in un episodio della serie Nurse Jackie – Terapia d’urto.

Dovrà concorrere con attrici di altissimo livello: le altre candidate sono Uzo Aduba, Olivia Colman, Emma Corrin, Elisabeth Moss e Jurnee Smollett.

Chiara Barison

Women20, il summit del G20 dedicato alla parità di genere

Tre giorni dedicati ai temi dell’occupazione femminile e del divario salariale, alle strategie per il contrasto alla violenza di genere. A Roma si apre oggi Women20, il gruppo di discussione del G20 sulla parità di genere. A guidare i lavori Linda Laura Sabbadini, specializzata in statistiche di genere e presidentessa del Women20.

“Saranno presenti scienziate, economiste, donne che lottano per i diritti della propria terra, una rappresentanza ampia”, ha detto Sabbadini parlando delle ospiti che si riuniranno per “rimettere le donne al centro del cambiamento“.

In un momento storico in cui le donne sono state tra le categorie più penalizzate (la pandemia ha aumentato il carico di lavoro non retribuito e il numero di licenziamenti, ne abbiamo parlato qui), il Women20 si tiene con l’obiettivo di costruire strategie utili per il futuro che favoriscano l’imprenditoria e la leadership femminile, l’abbattimento degli stereotipi di genere e un cambiamento culturale.

Ph. Polina Zimmerman

Secondo Sabbadini, “la parità, l’empowerment femminili sono degli obiettivi strategici di fondo, l’interazione tra la politica e la società civile è centrale per raggiungerli. Abbiamo l’opportunità di realizzare il pieno potenziale delle donne. Non solo aumenterà la crescita sostenibile, ma sarà anche un imperativo per l’esistenza di società creative e inclusive, sostenute da una cittadinanza attiva. L’uguaglianza è una grande sfida che si può vincere”.

Eleonora Panseri

Scarcerato Bill Cosby: «Il processo non fu equo»

Dopo tre anni di pena scontata in carcere per violenza sessuale aggravataBill Cosby è un uomo libero. La mattina di mercoledì 30 giugno, l’attore, che compirà 84 anni il prossimo luglio, è rientrato nella sua casa di Elkins Park nel sobborgo nord di Philadelphia, accompagnato dai suoi legali e da alcuni familiari. Lo ha deciso la Corte Suprema della Pennsylvania – ultima istanza a livello statale – che ha annullato la condanna in appello a dieci anni dello scorso 26 aprile 2018. La decisione dei giudici non è entrata nel merito della sentenza e non riabilita la figura di Cosby, accusato di stupro da 36 donne. La scarcerazione è stata ordinata per due motivi di natura procedurale. Il primo: riaprire il processo nonostante un precedente accordo stragiudiziale tra imputato e magistrati è stata una violazione che ha reso il processo non equo. Il secondo: la testimonianza di numerose vittime estranee alla vicenda processuale ha condizionato la decisione della giuria, che avrebbe dovuto attenersi ai fatti del 2004, quelli denunciati da Andrea Constand.

La vicenda – I guai giudiziari per l’attore, musicista, e sceneggiatore americano – che aveva raggiunto la fama planetaria recitando il ruolo del buon padre di famiglia nella sitcom “I Robinson” – erano iniziati nel 2004, dopo la denuncia di Andrea Constand, allora impiegata della Temple University di Philadelphia. Subito dopo l’incontro tra i due, avvenuto nella residenza di Cosby, la donna sporse denuncia alla polizia, riferendo di essere stata intrappolata, drogata e abusata sessualmente dall’attore. Sentito dagli inquirenti, Cosby fece mettere a verbale che sì, ci fu «un rapporto sessuale, ma con il pieno consenso» della donna, allora trentunenne. Le parti raggiunsero un accordo stragiudiziale e gli inquirenti garantirono alla star di Hollywood che non sarebbe stato perseguito.
Così è stato per dieci anni. Con lo scoppio dello scandalo Weinstein, nel 2014, il sostituto procuratore Kevin Steele accoglie la richiesta dei nuovi legali di Andrea Constand di riaprire il caso. Il verbale trapela e nel 2015 finisce in prima pagina sul New York Times. È in quel momento, storico, che 35 donne prendono coraggio e si uniscono alle accuse della Constand, abbattendo un muro di silenzio decennale. Il processo riparte e si conclude con la prima condanna, proprio quella di Bill Cosby, nell’ambito dello movimento #MeToo

Le ragioni della Corte Suprema – Bill Cosby si è sempre dichiarato innocente. Con determinazione ha rifiutato di pentirsi e prendere parte a programmi di recupero che gli avrebbero garantito sconti di pena. Ma la decisione della suprema Corte di Philadelphia di annullare la condanna per violenza sessuale aggravata non entra nel merito e nei contenuti della sentenza d’appello.
Accogliendo il ricorso dei legali di Cosby, i giudici hanno ritenuto fondati due vizi procedurali che hanno reso il processo non equo. Il primo: la decisone del procuratore Kevin Steele di riaprire il caso nel 2015 è stata una violazione dell’accordo stragiudiziale tra l’imputato e altri magistrati avvenuto nel 2004. Perseguire Cosby a dieci anni di distanza è stato illecito.
In secondo luogo, il coinvolgimento di altre, numerose testimoni, tra cui la top model Janice Dickinson, avrebbe contribuito a tratteggiare il profilo di predatore seriale dell’attore, influenzando la decisione della giuria che avrebbe invece dovuto attenersi ai fatti relativi alla denuncia di Constand, e non al quadro più ampio emerso nel corso del dibattimento.

Le reazioni – Numerosissime le reazioni da Hollywood e dal mondo dello spettacolo che esprimendo sdegno per la decisione della Corte Suprema di Philadelphia, hanno espresso la propria solidarietà alle vittime di Cosby via Twitter.

Filippo Menci (qui il suo blog)

La rivoluzione dei videogiochi: gli Esports sempre più al femminile

Una damigella rapita e un eroe che combatte contro il cattivo per salvarla. Una trama che si è ripetuta per anni nel mondo dei videogiochi, come Super Mario e Donkey Kong. Ma oggi, davanti allo schermo e con le dita sul gamepad, ci sono sempre più ragazze.
«Esiste un falso mito: si pensa che il gaming sia un’attività principalmente maschile. Invece, ci sono sei milioni di appassionati di Esports e di questi il 39 per cento è donna. È una percentuale che in tante discipline sportive tradizionali non si trova», spiega Luigi Caputo, cofondatore dell’Osservatorio italiano Esports. Dal 2019, la piattaforma si occupa di ricerche dati di mercato e di formazione e informazione per le aziende che vogliono investire in questo settore.

La pandemia ha influito sull’ampliamento al femminile della fanbase e ha accentuato l’avanzamento progressivo dell’ultimo periodo. «Abbiamo passato un anno chiusi in casa. Le persone cercano di svagarsi e così anche molte donne», analizza Michela “Banshee” Sizzi, gamer professionista di Bergamo che ha disputato diversi campionati italiani a Milano. Dello stesso parere anche Miryam Saidi, 25 anni, pro-player meneghina: «I videogiochi piacciono e basta, non c’è più lo stereotipo del nerd. Con l’arrivo di grandi eventi è diventato normale che anche le donne li seguano».

Nonostante l’avvicinamento agli Esports del pubblico femminile, all’interno del mondo dei videogiochi resta palpabile la diffidenza della componente maggioritaria maschile. Un atteggiamento che spesso si esprime attraverso forme di sessismo, discriminazione e misoginia. «Su Overwatch, che è un gioco di squadra 6 vs 6, mi è capitato che i ragazzi nel mio team si accorgessero che ero donna e mi facessero perdere apposta», racconta “Banshee”, «lo stesso succede su Rainbow Six o Call of Duty, dove i compagni si rivoltano contro di te perché sei donna». «C’è molta aggressività e a volte non ti lasciano nemmeno parlare al microfono», commenta Saidi, «l’essere una ragazza è la prima cosa su cui vengo attaccata dal giocatore “medio”». Lo stesso non avviene, invece, con il gamer agonistico, che è abituato a vincere o perdere e ha una mentalità professionale.

«Quella del gaming è una community che spesso risulta tossica. Molte ragazze si nascondono dietro a pseudonimi, usano nomi maschili per giocare nelle live o scrivere nelle chat. Per una donna è difficile esprimere la sua passione per i videogiochi», spiega Fjona Cakalli, blogger, tech influencer e conduttrice della eSerie A Tim, la competizione calcistica virtuale di Fifa e Pes promossa dalla Lega Serie A.

Di origini albanesi, Cakalli si è trasferita a Milano da piccola, assieme al suo Nintendo Nes. Da allora non ha mai smesso di giocare, una passione che è cresciuta fino a diventare un lavoro. «Mi piace raccontare storie e recensire videogiochi. Mi sono proposta ad alcuni siti che parlavano di gaming ma sono stata respinta», racconta Cakalli, «mi dicevano che non ero pronta, che non ne sapevo abbastanza ma nessuno mi dava la possibilità di informarmi. Quindi, ho aperto un blog per divertirmi». L’esperimento nato nel 2011 si chiamava Games Princess. La particolarità? Era un sito di videogiochi con una gestione interamente al femminile: «Ho conosciuto ragazze che volevano scrivere. Siamo state accusate di “autoghettizzarci”, ma in realtà era un modo per proteggerci. Molte hanno utilizzato il sito come porto sicuro», afferma la blogger.

Il numero di appassionate di Esports è aumentato nell’ultimo anno ma non dal punto di vista agonistico. «Bisogna fare una distinzione tra player competitivo e streamer o content creator», analizza Luigi Caputo, «le streamer donna sono tante e anche famose. A livello competitivo, invece, ci sono molti più uomini».

A Milano, le professioniste si contano sulle dita di una mano. «Non siamo spinte a provare seriamente a diventare gamer. Molte ragazze giocano per divertimento. Ma quelle che vogliono raggiungere un obiettivo partono svantaggiate», spiega Saidi, «all’inizio anche io ho provato a cercare un team ma nessuno ha voluto farmi fare un tentativo “per non rovinare l’ambiente all’interno della squadra”».

Ma questa è solo una delle giustificazioni che impedisce alle ragazze di provare una carriera professionistica. Spesso le gamer non trovano sponsor perché il pubblico del settore non è pronto a gestire il fatto che una donna possa competere contro un uomo. Di conseguenza, nascono anche tornei divisi per genere, nonostante negli Esports non esista una differenza di prestazione fisica che, invece, potrebbe essere presente negli sport tradizionali. «È un male necessario», afferma Cakalli, «creare team femminili è un modo per puntare il faro. Partecipare a campionati per sole ragazze dà l’opportunità di farsi conoscere, per poi entrare in squadre miste». «Sono sempre stata molto contraria», ammette Saidi, «finché non li ho guardati da un punto di vista diverso. È come se si stesse cercando di normalizzare il fatto che le donne giocano agli Esports. Si cerca di introdurle facendole giocare fra di loro, per farle sentire più a loro agio».

In ambito competitivo, come in quello lavorativo della vita quotidiana, emerge la questione degli ingaggi. In Italia non si possono ancora fare bilanci sulle differenze reali di stipendi tra player maschili e femminili perché il mercato non è ancora così sviluppato e i contratti non sono ancora così remunerativi. Ma avvicinare il pubblico femminile agli eventi di Esports (e al gaming più in generale) è uno degli obiettivi di business delle aziende e degli organizzatori per ampliare la platea degli appassionati. Un esempio è quello delle fiere del videogioco, che da tempo hanno eliminato la figura delle booth babes, le ragazze in top e shorts che avevano il compito di attirare gente agli stand.


Per normalizzare il fatto che le donne si occupino di videogiochi e tecnologica si deve partire dalla formazione, soprattutto quella scolastica. «Per creare parità c’è bisogno di strategie mirate», conclude Cakalli, «a scuola cercavo di condividere con le amichette la mia passione per i videogiochi, ma mi sentivo un alieno. Avevo solo amici maschi perché con le ragazze non avevo un interesse comune. Ma le donne possono essere coinvolte già da piccole per dire loro che è normale amare i videogiochi, le scienze e la tecnologia».

Filippo Gozzo

Il distanziamento impossibile delle sex workers transgender

«Non disponiamo di dati precisi, ma si parla di circa 5mila persone che si prostituiscono indoor (in appartamenti, ndr) e circa 600 su strada, di cui il 50 per cento è transessuale», racconta Vincenzo Cristiano, presidente dell’associazione Ala Onlus. Il territorio meneghino è diventato così in particolare il centro della prostituzione transessuale di origine sudamericana in Italia. Perché proprio il capoluogo lombardo? «È la città con la maggiore dimensione internazionale», dichiara Cristiano, «c’è un grande via vai di uomini d’affari e turisti».

«Scappano da Paesi machisti in cui la loro sessualità non è accettata e per questo non riescono a lavorare», afferma Antonia Monopoli, attivista e responsabile dello sportello di Ala. «Lasciano la famiglia e vedono nella prostituzione l’unica via possibile di fuga». «Ricordo però anche il racconto di una ragazza trans che faceva la parrucchiera: tutte le sere si presentavano uomini che pretendevano di fare sesso con lei. Se non si fosse concessa le avrebbero distrutto il locale».
La vendita del proprio corpo come scelta quasi obbligata, ma non significa che il sex work sia necessariamente sinonimo di sfruttamento. «Spesso sono persone che arrivano nel nostro Paese consapevoli di esercitare questa professione», chiarisce Cristiano.

Ph. Ted Eytan 

A causa delle misure relative a distanziamento sociale e coprifuoco, sulle strade non si sono più viste le ragazze che erano solite lavorare outdoor. L’assenza di entrate ha reso loro difficile provvedere al sostentamento: «Per due mesi abbiamo aiutato 54 ragazze transgender con pacchi alimentari». Chi lavora in appartamento ha visto solo diminuire i propri clienti, i quali hanno continuato a rivolgersi alle sex worker nonostante l’emergenza sanitaria. «Il cliente tipo va dai 30 ai 50 anni, tendenzialmente con famiglia, per compensare una vita sessuale poco soddisfacente tra le mura domestiche», dice il presidente, «tutte le estrazioni sociali sono coinvolte, dall’operaio al manager affermato».

Inevitabili i contagi. «Un paio di sex worker sono decedute, ma a causa di patologie pregresse», chiarisce Cristiano, «paradossalmente sieropositive e tossicodipendenti non sono state più colpite della media della popolazione. Molte hanno pensato di avere una banale influenza». Magari non emarginate, ma sicuramente poco tutelate giuridicamente anche in questa situazione. Nel 1958, la senatrice Lina Merlin ha proposto e fatto approvare la legge che ha chiuso le case di tolleranza e introdotto i reati di sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione. Di ispirazione abolizionista, la normativa aveva l’obiettivo di tutelare le donne, ma di fatto impedisce il riconoscimento del sex work quale professione, «escludendo dall’erogazione di bonus e ammortizzatori sociali quelle che sono lavoratrici a tutti gli effetti. Noi di Ala Onlus ci battiamo affinché la prostituzione ottenga un riconoscimento legislativo», sostiene Cristiano.

Da sfatare il binomio fra transessualità e prostituzione: «Quando trovano un lavoro decidono di lasciare perché è un mondo in cui non si sentono serene», rivela ancora Monopoli, «in strada non mancano le violenze da parte dei clienti». E non solo.
«Riceviamo moltissime telefonate di genitori i cui figli vogliono intraprendere la transizione. Una volta la famiglia li rifiutava», aggiunge Vincenzo Cristiano, «da questo punto di vista la realtà milanese è molto più progredita di altre città». «Possiamo definire l’Italia un Paese accogliente, ma c’è ancora molto da fare», conclude Antonia Monopoli, «non mancano gli episodi di mobbing a danno delle ragazze trans che trovano un lavoro».

Chiara Barison