Treccani.it elimina i riferimenti sessisti dalla voce “donna”

Due mesi fa un gruppo di donne guidate dall’attivista italiana Maria Beatrice Giovanardi aveva fatto un appello all’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani chiedendo di rimuovere i riferimenti sessisti presenti sull’enciclopedia online alla voce “donna”. Queste espressioni infatti, secondo le 100 firmatarie della lettera inviata all’Istituto, non erano da ritenere soltanto offensive ma anche, “quando offerte senza uno scrupoloso contesto”, causa di “stereotipi negativi e misogini che oggettificano e presentano la donna come essere inferiore”. A seguito di un lungo dibattito oggi, 14 maggio, è arrivato il responso positivo della Treccani che ha deciso di ascoltare la richiesta delle attiviste.

Valeria Della Valle, direttrice del vocabolario, ha spiegato a Repubblica che la scelta di modificare la voce è solo l’inizio di un più lungo processo “culturale”:

«L’operazione richiederà più tempo perché il lavoro di un dizionario è simile a quello del sarto, la voce “donna” che contempla già espressioni relative ai diritti, all’emancipazione e ai movimenti di liberazione delle donne, ha bisogno di ritocchi che aggiungeranno frasi relative al ruolo professionale della donna».

Nel 2019 Giovanardi aveva portato avanti la stessa battaglia con l’Oxford Dictionary che, dopo un anno di dibattito, aveva acconsentito a modificare la voce “woman”.

Eleonora Panseri

Florence Nightingale, la “ragazza con la lampada”

Vegliava i feriti di notte, un gesto semplice che permise di salvare molte vite e le valse il soprannome di “ragazza con la lampada”. Parliamo di Florence Nightingale, la madre dell’infermieristica moderna.

Nata in una famiglia dell’aristocrazia inglese, Florence decise di non sposarsi, un gesto di ribellione nell’età vittoriana in cui è vissuta. Si dedicò così agli studi e all’assistenza dei bisognosi. Una volta giunta in Turchia, durante la guerra di Crimea, capì che qualcosa nella gestione dei feriti di guerra andava cambiato. Una condizione su tutte: l’igiene in corsia. Un ambiente pulito e l’assistenza continua determinarono un cambiamento rivoluzionario: i morti nell’ospedale da campo diminuirono di due terzi.

Dopo questa esperienza, Florence scrisse un trattato di più di 800 pagine sull’importanza delle condizioni di vita dei pazienti ricoverati. Sua è anche l’invenzione di una serie di servizi ospedalieri come li conosciamo oggi: la mensa, la lavanderia e la biblioteca per tenere i degenti intellettualmente attivi.

Non si limitò a essere un’infermiera. Le sue doti l’hanno resa una vera e propria statista: durante le sue esperienze in guerra raccolse instancabilmente dati ed è sua l’invenzione del grafico chiamato diagramma polare (Nightingale rose diagram) attraverso il quale riuscì a dimostrare il rapporto tra interventi sanitari e il tasso di mortalità.

Dal 1965, il 12 maggio di ogni anno tutto il mondo la ricorda grazie all’istituzione della giornata mondiale degli infermieri. Nel 2019 Bologna le ha anche dedicato un giardino pubblico.

Chiara Barison

Calcio, Maria Marotta prima arbitra in serie B

Dopo l’esordio di Stéphanie Frappart in Champions League, anche in serie B è arrivato il momento delle donne. L’arbitraggio della partita Reggina – Frosinone è stato infatti affidato a Maria Marotta. Classe ’84, non è nuova alle partite maschili: già parte dell’organico di serie C, è stata promossa nella categoria superiore grazie a una norma introdotta da poco.

Con lei, come secondo assistente, un’altra donna: Francesca Di Monte ha esordito in serie B il 17 ottobre 2020 in Cremonese – Venezia.

Entrambe vantano una carriera di tutto rispetto, fatta di tanta gavetta e lavoro duro. Soddisfatto anche il presidente dell’associazione italiana arbitri Alfredo Trentalange: «Per me e l’associazione è un momento di grande soddisfazione, frutto di un lavoro importante di crescita che viene portato avanti a tutti i livelli».

Che sia un esordio, non un traguardo.

Chiara Barison

Perché è sbagliato dire “il femminismo contro il ddl Zan”

Il dibattito sul ddl Zan, la proposta di legge contro omolesbotransfobia, misoginia e abilismo presentata dal deputato del PD Alessandro Zan, approvata alla Camera a novembre e recentemente calendarizzata per la discussione in Senato, ha spaccato a metà il mondo della politica e la società civile. Una divisione abbastanza netta: contrari vs. favorevoli.

In questo contesto, ha destato stupore il fatto che anche 17 associazioni femministe italiane si siano schierate contro il disegno di legge (insieme a singol* privat* cittadin*). A seguito della nota stampa firmata da Udi Nazionale, Udi Napoli, Collettivo Luna Rossa, Associazione Freedomina, Associazione TerradiLei-napoli, Arcidonna, Associazione Salute Donna, RadFem Italia, In Radice- per l’Inviolabilità del corpo femminile, Se Non Ora Quando Genova, I-Dee, Associazione Donne Insieme, Arcilesbica, Arcilesbica Magdalen Berns, Associazione Trame, Catena Rosa, Ide&Azioni Associate, alcune testate hanno titolato: “Il femminismo contro il ddl Zan”.

Ma qui c’è un errore di cui bisogna parlare.

Il femminismo non è mai stato una religione o un pensiero politico che non ammette contestazioni. Dalla sua nascita il movimento ha conosciuto fasi diverse e racchiuso in sé più correnti.

Tra queste, quella delle TERF ( le “Trans-exclusionary radical feminists”). Le femministe radicali transescludenti non riconoscono le donne trans come tali e scelgono di lottare solamente per quelle che definiscono come “donne nate donne” (per citare un esempio noto, la scrittrice J.K. Rowling). In Italia, i gruppi TERF sono tanti ed è infatti il concetto di genere espresso nel ddl che questi gruppi contestano (non necessariamente l’intero disegno di legge e i motivi che l’hanno ispirato).

Sono libere di farlo.

Per il femminismo intersezionale il disegno di legge dell’onorevole Zan è un provvedimento giusto, che va sostenuto. Per le TERF no. E da qui potrebbe e dovrebbe nascere un dibattito costruttivo.

Anche le testate devono essere libere di riportare quanto accade e di scrivere “il femminismo/le femministe contro il ddl Zan”.
C’è la necessità, tuttavia, oggi più che mai, di parlare correttamente di femminismo.

Un movimento che non è solo uno (si parla infatti spesso di “femminismi“) e che ha una storia, alla base della quale c’è sempre stata l’idea che noi donne fossimo tante, tutte differenti, ognuna degna di essere ascoltata e rispettata.

Eleonora Panseri

Le Femen son tornate

Le femen son tornate. In realtà non se ne sono mai andate. In questi giorni si stanno svolgendo le elezioni amministrative a Madrid e non sono mancate le proteste. Cinque attiviste del collettivo femminista Femen sono state fermate dopo aver protestato davanti al seggio in cui votava Rocìo Monasterio, candidata di estrema destra del gruppo Vox.

Nate nel 2008 a Kiev, in Ucraina, da un’idea di tre amiche Oksana Šačko, Hanna Hucol e Inna Shevchenko per dare una svolta alla lotta al turismo sessuale, al sessismo e alle discriminazioni sociali. Solo in Ucraina si contano più di 300 attiviste tra i 18 e i 30 anni, ma ormai sono presenti gruppi in tutta Europa. Quello spagnolo è solo l’ultimo dell’elenco. La loro forza? Fare del proprio corpo una bandiera, lo stesso corpo femminile spesso vittima di abusi e disprezzo. Come? Mostrando il proprio seno in modo fiero, quasi noncurante. I seni come un’arma. I controversi seni, amati e violentati dagli uomini che ancora non sanno riconoscere il valore delle donne nella società. «È l’unico modo per farsi ascoltare in questo Paese», così hanno giustificato la propria scelta. E bisogna dire che ha funzionato: sono protagoniste delle manifestazioni di tutta Europa e dal 2012 la Francia ha riconosciuto ufficialmente l’associazione.

Ovviamente non mancano le polemiche. Chi le considera eccessive e chi, come la giornalista Daryna Chyzh ne ha evidenziato le ombre. Per il suo reportage si è fatta reclutare nel gruppo: dopo essere stata fotografata a seno nudo, ha seguito un vero e proprio training per imparare a svestirsi in pubblico in modo da attirare l’attenzione. La giornalista sostiene anche che le Femen percepirebbero un compenso mensile di circa 1000 euro, oltre al rimborso spese in caso di trasferta. Inoltre, non sarebbero poche le personalità del jet set europeo a celarsi dietro l’organizzazione.

Chiara Barison

#iolochiedo, una campagna per cambiare la legge sulla violenza sessuale

Nella Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, anche nota semplicemente come Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia nel 2013, lo stupro è un “rapporto sessuale senza consenso”. Nell’articolo 36 del testo, al paragrafo 2, si legge anche che tale consenso deve essere dato volontariamente, quale libera manifestazione della volontà della persona, e deve essere valutato tenendo conto della situazione e del contesto”.

Al contrario, l’articolo 609-bis del Codice penale italiano, che disciplina il reato di violenza sessuale, non considera in alcun modo l’elemento del consenso e punisce “chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali”.
Se dunque per sanzionare un comportamento come stupro la legge italiana prevede che concorrano gli elementi della violenza, della minaccia o dell’abuso di autorità, nel caso in cui questi siano assenti, diventa difficile stabilire la gravità del reato.

Proprio a questo proposito, Amnesty Italia ha lanciato una petizione per richiedere alla Ministra della Giustizia Marta Cartabia la revisione dell’articolo 609-bis. Revisione che tenga in considerazione la definizione data dalla Convenzione di Instabul e introduca in Italia l’idea che lo stupro non sia soltanto una violenza fisica ma qualsiasi comportamento sessuale privo del consenso di entrambe le parti.

Come si legge anche sul sito di Amnesty, la percezione del reato di stupro in Italia è viziata non soltanto a livello legislativo, ma anche e soprattutto a livello culturale:

“Secondo l’Istat (rilevazione del 2019), persiste in Italia il pregiudizio che addebita alla donna la responsabilità della violenza sessuale subita. Addirittura il 39,3% della popolazione ritiene che una donna è in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole. Anche la percentuale di chi pensa che le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire è elevata (23,9%). Il 15,1%, inoltre, è dell’opinione che una donna che subisce violenza sessuale quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte corresponsabile. Per il 10,3% della popolazione spesso le accuse di violenza sessuale sono false (più uomini, 12,7%, che donne, 7,9%); per il 7,2% “di fronte a una proposta sessuale le donne spesso dicono no ma in realtà intendono sì”, per il 6,2% “le donne serie non vengono violentate”. Solo l’1,9% ritiene che non si tratta di violenza se un uomo obbliga la propria moglie/compagna ad avere un rapporto sessuale contro la sua volontà”.

La campagna di Amnesty è stata lanciata in rete con l’hashtag #iolochiedo e l’obiettivo è quello delle 61000 firme.

Se volete sostenere la petizione, fate click QUI.

Eleonora Panseri

Alessandra Galloni è la nuova direttrice di Reuters

Decisione storica per Reuters.
La giornalista italiana Alessandra Galloni sarà la nuova direttrice della nota agenzia di stampa che, fondata nel 1851 da Paul Julius Reuter, nei suoi 170 anni di storia non era mai stata guidata da una donna.
A fine aprile Galloni prenderà il posto di Stephen J. Adler, vincitore di sette premi Pulitzer e a capo dell’agenzia dal 2011, che lascerà la direzione per andare in pensione.

Nata a Roma nel 1974, Galloni si è laureata nel ’95 ad Harvard, ha conseguito un master alla London School of Journalism nel 2002 e ha lavorato al Wall Street Journal per 13 anni. Dal 2013 in Reuters la nuova direttrice si è occupata di economia e finanza come corrispondente da Londra, Parigi e Roma.

“Sono onorata di dirigere una delle migliori redazioni del mondo!” ha scritto Galloni sul suo account Twitter.

Anche Vincenzo Amendola, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega agli Affari europei, ha salutato con entusiasmo la nomina della neo direttrice, twittando: “In bocca al lupo ad Alessandra Galloni, prima donna a guidare Reuters in 170 anni. Orgoglio italiano”.  

Eleonora Panseri

Trovate la notizia anche nel GR del 13/4/2021 sul canale Youtube di Radio Sestina, la radio della Scuola di giornalismo “Walter Tobagi”.

Transessualità: Antonia Monopoli si racconta

Nonostante il filtro dello schermo di un pc, la luce negli occhi di Antonia Monopoli non può che abbagliare. Ancora più forti sono le sue parole. Ha scritto un libro che vale la pena di leggere: La forza di Antonia. Storia di una persona transgender. Parla della sua vita, degli ostacoli e di come è riuscita a superarli. Una storia che supera le barriere di genere, in cui ognuno di noi può identificarsi. Ora è responsabile dello sportello trans dell’associazione Ala Onlus Milano ed è una delle attiviste più influenti della comunità trans.

Innanzitutto, qual è la differenza tra omosessualità e transessualità? Spesso non si hanno le idee molto chiare.

Anche io in un periodo della mia vita sono andata alla ricerca di un gruppo di appartenenza credendo di essere gay. Ma ciò che sento io è diverso, perché io non cerco un gay ma un uomo eterosessuale a cui piacciono donne cisgender. Quando ho visto per la prima volta una trans ho capito di voler essere come lei, prima non sapevo di esistere. La differenza quindi sta nel percepirsi anche in relazione al genere opposto.

Quando hai realizzato per la prima volta la tua “diversità”?

Verso i sette anni. Giocavo con le bambole, mi piacevano i capelli lunghi. Per me i capelli sono un segno di femminilità. Io amo i miei, mi arrabbio ancora adesso quando la parrucchiera taglia troppo (ride).

A proposito di capelli lunghi, quali sono gli stereotipi della femminilità che non ti piacciono?

Minigonna, tacco a spillo, calze a rete. In alcuni contesti l’abito fa il monaco. La minigonna va bene per andare in discoteca, bisogna tenere sempre conto del luogo in cui andiamo. A me piacciono le cose particolari ed estrose ma sempre raffinate: amo molto Thierry Mugler e Jean-Paul Gaultier.

Che rapporto hai con la moda?

Quando ero un maschietto aspettavo la domenica per vedere “Non solo moda”, ero appassionata. Mi piace molto lo stile vintage, soprattutto anni ’50.

Secondo te le problematiche che incontrano le persone transessuali oggi sono le stesse che hai incontrato tu all’inizio del tuo percorso o sono cambiate? Pensi sia più facile oggi?

Per me le cose sono cambiate. Negli anni ’80 quando dissero a mia madre che ero un bambino diverso dagli altri, si allarmò moltissimo e si rivolse al medico di base. Lui le suggerì di portarmi al manicomio. Ero considerata una malata mentale curabile solo con il lavaggio del cervello e la lobotomia. A 18 anni a Trani incontrai il primo terapeuta che disse a mia madre che non ero malata e a dover essere aiutata in questo percorso fosse lei, non io. In quel momento vidi la luce. Dopo ho iniziato a fare le ricerche per diventare quella che sono oggi.

E arrivi a Milano.

Nel ’94 non c’era nulla, mancava un punto di riferimento per le persone trans che mi potesse consigliare cosa fare. Erano le altre ragazze, non un medico, a dirmi quale farmaco utilizzare per avere il seno e ottenere una fisionomia più femminile possibile. Nel 2002 trovai il primo centro diagnostico al Niguarda, anche se all’epoca era ancora piuttosto rudimentale: all’interno del centro sterilità c’era un medico ginecologo che seguiva la transizione creando un’équipe multidisciplinare. Così, nel 2009 ho deciso di creare il punto di riferimento che mancava, per dare alle persone come me quello che io non ho avuto. Quindi direi di sì, dagli anni ’80 i cambiamenti ci sono stati e io ho stessa ho contribuito a innovare la quotidianità delle persone trans.

Quale consiglio daresti alla vecchia te?

Io ho passato periodi un po’ bui. Alla vecchia me posso consigliare di avere più fiducia in se stessa, andare avanti a testa alta (quasi si commuove). Non avrei mai pensato di arrivare a 48 anni. Siccome ho lavorato 10 anni in strada, mi dicevano che le trans prostitute non vivono a lungo. Mi guardo indietro e mi dico che nonostante le difficoltà ho fatto tanta strada.

Chiara Barison

“Non tutti gli uomini…”: alcune considerazioni

Quante volte abbiamo sentito dire la frase “non tutti gli uomini”? Trasformata anche in un hashtag, #notallmen, è diventata molto famosa fuori e dentro la rete (un hashtag che è anche recentemente tornato nei trend di Twitter).
È assolutamente vero, bisogna riconoscere che buona parte degli uomini non ha comportamenti criminali nei confronti delle donne, MA CHE FORTUNA! (percepite l’ironia?). Sarebbe allo stesso tempo giusto e più che legittimo però chiedersi se per contribuire al benessere e alla sicurezza di tutte le donne (non solo di quelle che rientrano nella propria sfera di affetti) basti solo non molestare, stuprare, uccidere.

Il “non tutti gli uomini” è, per certi versi, un imbarazzante tentativo di togliersi il noto “sassolino dalla scarpa”. Può capitare che, quando si intavola un discorso su un tema caro al femminismo, alcuni uomini usino questo tipo di retorica per non dover discutere oltre: “Non siamo tutti così, non infastiditeci oltre”. Ma la questione è decisamente più complessa di così.

Quello che questi uomini potrebbero fare non è dire “Non faccio le cose sbagliate che fanno gli altri”, rifiutare quindi in blocco la responsabilità di atti sicuramente individuali che, tuttavia, se inseriti in un contesto ben più ampio, in un’ottica di violenza di genere, possono essere ricondotti a una più comune “responsabilità maschile”. Riflettere su quello che fanno o potrebbero fare di più è invece il nodo essenziale del discorso.

Per molte femministe il contributo degli uomini non è necessario ma, quando si combatte una guerra, possono essere utili anche truppe mercenarie per riuscire a vincere il nemico. Insomma, possiamo farcela da sole ma un aiuto in più non guasterebbe. Il problema è che non tutti ma tanti (ancora troppi) uomini non riescono (o non vogliono) stare zitti e ascoltare. Provare a comprendere chi certe dinamiche le ha vissute per secoli e le vive ancora sulla propria pelle ogni giorno non è una perdita di tempo. Per non parlare della vecchia scusa del “eh, ma voi femministe siete troppo aggressive”, con la quale il più delle volte chiudono qualsiasi canale di comunicazione.

Se lo saranno mai chiesti perché siamo così incazzate?

Rifiutare un confronto o cercare in tutti i modi di mettere in ridicolo il proprio interlocutore quando si tratta la parità di genere o il femminismo; minimizzare una violenza, di qualsiasi genere essa sia (e, no, le molestie per strada e il catcalling non sono “complimenti”), o insinuare che una ragazza “se la sia cercata”; parlare di donne in maniera irrispettosa o mostrare “solo tra amici”, senza necessariamente condividerle su chat/social, foto intime di ragazze che non hanno dato esplicitamente il loro consenso . La lista potrebbe continuare all’infinito. Questi non sono reati ma sono atteggiamenti molto diffusi ed estremamente dannosi perché permettono a un certo tipo di retorica e di pensiero tossico di sopravvivere e di generare i già citati fatti ben più gravi che “non tutti gli uomini” fanno.


La convinzione che la situazione possa cambiare resta, così come la speranza che sempre più uomini dicano: “Cambiamola insieme“.

Eleonora Panseri

Libri femministi che tutt* dovremmo leggere (Parte II)

Stufe di romanzi di formazione che, per quanto siano gratificanti da leggere, hanno sempre come protagonista un uomo? È ora di leggere La Vita delle ragazze e delle donne (Lives of girls and women) di Alice Munro. L’autrice canadese è stata premiata con il Nobel per la letteratura nel 2013 ed è considerata una delle più brillanti scrittrici di racconti di tutto il panorama letterario contemporaneo. Il suo primo e unico romanzo parla di Del Jordan, una bambina di 9 anni estremamente acuta e brillante che si scontra con il ritardo culturale dell’Ontario degli anni ’40. Attraverso la sua protagonista, Munro racconta le contraddizioni dell’adolescenza, la scoperta dell’amore e dell’indipendenza. Più che un romanzo, una vera e propria guida alle insidie del percorso per diventare donna attraverso un’analisi profonda e priva di pregiudizi.

Se le persone che vi circondano reagiscono alle vostre crisi di nervi con uno stupito Bastava chiedere!, la raccolta di vignette della fumettista francese Emma dall’omonimo titolo fa al caso vostro (Un autre regard. Truc en vrai pour voir les choses autrement). Aldilà della copertina rosa confetto, è un libro che gli stereotipi li abbatte in modo leggero ed efficace. Le 186 pagine scorrono in poche ore e, alla fine, potrete dire di aver capito cosa si intende per carico mentale. Questo concetto identifica tutti i pensieri che frullano costantemente nella testa delle donne: lavatrice da fare, cena da preparare, figli da andare a prendere, spesa, e si potrebbe andare avanti per ore. Emma spiega che si tratta di un lavoro invisibile che ricade interamente sulle donne: «Secondo l’Insee (l’istituto di statistica francese) le donne ancora oggi dedicano alle faccende domestiche più del doppio del tempo rispetto agli uomini». Da leggere, rileggere e regalare (anche agli uomini).

Un punto sul movimento #MeToo non fa mai male, partire da dove tutto è iniziato può aiutare a chiarire le idee: Predatori (Catch and kill) di Ronan Farrow racchiude tutto ciò che serve. Il giornalista americano ripercorre l’indagine che ha portato all’arresto, e poi alla condanna, del produttore hollywoodiano Harvey Weinstein. Stupri, minacce e violenze psicologiche raccontate dalla voce delle attrici vittime dell’attività predatoria del cineasta. Un testo illuminate per comprendere le complesse dinamiche che si celano dietro alle violenze maschili sul luogo di lavoro. Mille sfumature sulle quali riflettere e un’unica certezza: la vittima non è mai colpevole.

Chiara Barison

(Parte I – 8 marzo: libri femministi che tutt* dovremmo leggere)

8 marzo: libri femministi che tutt* dovremmo leggere (pt. I)

Conosciuta dai più come “Festa della donna”, la Giornata internazionale dei diritti delle donne è stata istituita dall’ONU il 16 dicembre 1977. Sbagliato considerarla come un’occasione per regalare mimose e cioccolatini: l’8 marzo per molti è e per tanti altri dovrebbe essere una giornata per celebrare i successi nella lotta per la conquista della parità di genere e per riflettere su quanto ci sia ancora da fare. Proprio per questo nel post di oggi e in quello che verrà prossimamente proponiamo una serie di testi, dei “suggerimenti di lettura” più o meno impegnativi, utili a conoscere e capire la storia di quell’insieme di dinamiche e pratiche (meglio note come “patriarcato”…) che hanno impedito alle donne di realizzarsi pienamente come individui. Degli spunti di riflessione per capire cosa ancora non va e soprattutto dove si può e si deve fare sempre di più e sempre meglio.

(Parte II – Libri femministi che tutt* dovremmo leggere)


Il secondo sesso di Simone De Beauvoir (1949) e Una stanza tutta per sè di Virginia Woolf (1929): partiamo con due capisaldi della letteratura femminista, testi che non potevano assolutamente mancare in questa lista. Il primo è un lungo trattato filosofico (quasi 800 pagine) che analizza la condizione della donna da un punto di vista storico, sociale, culturale e letterario per mostrare come la tanto decantata “femminilità” non sia una condizione naturale ma un costrutto, una gabbia in cui le donne sono state per secoli rinchiuse e, di conseguenza, controllate (“Donna non si nasce, si diventa“). Secondo De Beauvoir, nel 1949 la liberazione della donna sarebbe dovuta passare dalla conquista dell’indipendenza, soprattutto economica. La stessa indipendenza reclamata vent’anni prima da Virginia Woolf che nel suo famoso saggio tratta il tema dell’esclusione delle donne dal mondo della cultura, della letteratura e, quindi, dalla storia. Per lo più relegate al mondo domestico, impossibilitate ad avere tempo, soldi e una stanza tutta per loro.


Dovremmo essere tutti femministi di Chimamanda Ngozi Adichie (2014): un saggio di poche pagine che in breve tempo è diventato un testo di riferimento per le femministe di tutto il mondo. Adattamento di un TEDx tenuto dall’autrice, questo libro invita tutti, uomini e donne, ad abbracciare la causa femminista. “C’è chi chiede: “Perché la parola ‘femminista’?” Perché non dici semplicemente che credi nei diritti umani, o giù di lì?” Perché non sarebbe onesto. Il femminismo ovviamente è legato ai diritti umani, ma scegliere di usare un’espressione vaga come “diritti umani” vuol dire negare […] che il problema del genere riguarda le donne“.


Manuale per ragazze rivoluzionarie. Perché il femminismo ci rende felici di Giulia Blasi (2018): questo libro è stato una vera e propria rivelazione. Ironico, molto arrabbiato ma anche scritto con la convinzione che tante cose possano e debbano cambiare, questo Manuale offre una serie di esempi pratici per riconoscere e combattere il sessismo (anche quello benevolo) nel quotidiano. E invita tutt* a non accettare mai quei compromessi che sembrano rendere la vita più semplice ma che, al contrario, rischiano di portare la situazione delle donne indietro di decenni: “Siamo arrivate a un punto di svolta: un punto in cui se accettiamo di giocare secondo le regole siamo finalmente ammesse alla mensa dei patriarchi per nutrirci del poco cibo che ci viene allungato. Ma il femminismo non si siede al tavolo con il patriarcato: il femminismo lo rovescia, il tavolo“.


Odio gli uomini di Pauline Harmange (2021): uscito recentemente in libreria, questo breve saggio ha scatenato il caos. Pubblicato da una piccola casa editrice, accusato di misandria e minacciato di censura dal consigliere del Ministero per le Pari Opportunità francese Ralph Zurmély, Odio gli uomini è stato distribuito in 17 paesi e ha venduto in pochissimo tempo decine di migliaia di copie. “Le donne passano un sacco di tempo a rassicurare gli uomini che no, non li odiamo. E in cambio ogni cosa resta al suo posto”: Pauline Harmange, 26 anni, volontaria in un centro per il supporto alle vittime di stupro, sfoga tutta la sua rabbia contro quel genere maschile che giustifica, tacciando le femministe di estremismo e misandria, la totale assenza di azioni concrete in favore delle donne e volte allo smantellamento del privilegio maschile. Un saggio di poche pagine ma duro, durissimo, decisamente da leggere.


Gli uomini mi spiegano le cose. Riflessioni sulla sopraffazione maschile di Rebecca Solnit (2014): vivere una vita da donne può essere faticoso e complicato. E, come descrive Solnit in questo interessante saggio, può esserlo ancora di più quando a queste capita di incontrare uomini che spiegano loro ogni cosa, invece di ascoltare, riflettere e rispettare un punto di vista diverso. Uomini che adorano “fare la paternale” in presenza di una donna per ingigantire ancora di più, se possibile, il loro già enorme ego: “Alcuni uomini spiegano le cose, a me come ad altre donne, indipendentemente dal fatto che sappiano o no di cosa stanno parlando. Mi riferisco a quell’arroganza che, a volte, mette i bastoni tra le ruote a tutte le donne, in qualsiasi settore, che le trattiene dal far sentire la propria voce e che schiaccia le più giovani nel silenzio insegnando, così come fanno le molestie per strada, che questo mondo non appartiene a loro”.


Liberati della brava bambina. Otto storie per fiorire di Maura Gancitano e Andrea Colamedici (2019): in molte delle narrazioni del passato e del presente le “donne cattive“, quelle che non si sottomettono e che si autodeterminano, sono spesso mostrate come esempi negativi. Le stesse donne che nel suo famoso podcast Michela Murgia ha meravigliosamente definito “morgane“. In questo libro, Gancitano e Colamedici scelgono otto donne e le loro storie, Era, Medea, Daenerys, Morgana, Malefica, Difred, Elena, Dina, e decidono di rileggerle in chiave femminista. Un libro per capirsi e riscoprirsi libere e potenti.


Ragazza, donna, altro di Bernardine Evaristo (2019): uscito l’anno scorso, questo romanzo raccoglie le storie di 12 donne: nere e di sangue misto, alcune appartenenti alla comunità lgbtq+, di età ed estrazione sociale molto diverse. Ognuna di loro è legata all’altra grazie ad uno splendido intreccio narrativo, anche se i vari racconti possono essere letti singolarmente. Storie dolorose, di violenza e frustrazione, e allo stesso tempo storie di riscatto e di successo. “Io non sono una vittima, non trattarmi mai come una vittima, mia madre non mi ha cresciuta per farmi diventare una vittima”, dice una delle protagoniste e in queste poche righe sta il fil rouge del testo che tratta temi importanti e attuali, come quelli della misoginia, del razzismo, dell’omofobia, in una prospettiva intersezionalista fortemente politica ma mai pesante o retoricamente vuota. Evaristo ci offre spunti di riflessione per analizzare il passato ma, soprattutto, ripensare il futuro.

Eleonora Panseri

P.s. Tra i più bei testi femministi del 2019 c’è anche il libro di Caroline Criado Perez, Invisibili. Da leggere assolutamente, ne abbiamo parlato QUI.

Golden Globes, Chloé Zhao Miglior regista: è la seconda donna dal 1984

Dopo ben 37 anni, il Golden Globe come Miglior regista torna a vincerlo una donna. Chloé Zhao, pseudonimo della regista, sceneggiatrice, produttrice 38enne Zhao Ting, conquista il premio con Nomadland, già vincitore del Leone d’oro come Miglior film al Festival di Venezia 2020. E dopo queste due vittorie c’è chi ne parla come probabile favorito agli Oscar 2021. Protagonista della pellicola è Frances McDormand (Fargo, 1996, e Tre manifesti a Ebbing, Missouri, 2017). L’attrice interpreta Fern, donna di sessant’anni che, dopo la perdita del marito, decide di abbandonare la sua città e attraversare gli Stati Uniti occidentali a bordo di un furgone.

La Hollywood Foreign Press Association, criticata duramente negli anni passati per aver escluso le donne dalla categoria, quest’anno ha deciso di presentare tre nomi femminili su cinque candidature: Regina King, presentatasi con il suo One Night in Miami, Emerald Fennell con Promising Young Woman e Zhao. A competere contro di loro due giganti: David Fincher, regista di pellicole come Fight Club (1999) e The Social Network (2010), in gara con Mank, e Aaron Sorkin, sceneggiatore della fortunata serie West Wing (1999), candidato al premio con la produzione Netflix Il processo ai Chicago 7.

Nel 1984 era stata Barbra Streisand, regista, sceneggiatrice e attrice nella pellicola Yentl, a ricevere per prima il premio come Miglior regista. Il film raccontava la storia di una giovane ebrea polacca che nei primi anni del ‘900 decide di travestirsi da uomo per proseguire i suoi studi sul Talmud. Dopo questa vittoria, il nulla: per quasi 40 anni le nomination per la categoria, salvo poche eccezioni (Jane Campion candidata nel 1994, Sofia Coppola nel 2004, Kathryn Bigelow nel 2010 e 2013 e Ava DuVernay nel 2015), sono state appannaggio maschile. Quella di quest’anno potrebbe essere la svolta verso un mondo cinematografico più inclusivo e meritocratico, un precedente importante per il futuro dei Globes e di altri premi cinematografici.

Eleonora Panseri

Articolo originariamente pubblicato su Sestina, testata online della Scuola di giornalismo “Walter Tobagi”.

Mario Draghi e il rilancio del Paese: serve il «coinvolgimento delle donne»

Nel suo discorso al Senato il Presidente del Consiglio incaricato Mario Draghi ha dedicato grande spazio alla questione della parità di genere. La parola “donne” è stata infatti pronunciata ben 10 volte, superata solo da “cittadini” (11), “lavoro” (16), “pandemia” (18) e programma (19).

Draghi si è inizialmente soffermato sulle difficoltà che il genere femminile sta vivendo in conseguenza del Covid-19, sottolineando come a perdere il lavoro in questo anno di pandemia siano stati principalmente i giovani e le donne.

«La diffusione del virus ha comportato gravissime conseguenze anche sul tessuto economico e sociale del nostro Paese. Con rilevanti impatti sull’occupazione, specialmente quella dei giovani e delle donne. Un fenomeno destinato ad aggravarsi quando verrà meno il divieto di licenziamento».

Ma il Presidente ha anche sottolineato come gli squilibri nel nostro Paese siano un retaggio del passato. Una situazione che negli anni è migliorata ma sulla quale è ancora necessario fare interventi importanti e incisivi, soprattutto per quanto riguarda il gap salariale e le posizioni dirigenziali ricoperte in numero non rilevante dalle donne.

«La mobilitazione di tutte le energie del Paese nel suo rilancio non può prescindere dal coinvolgimento delle donne. Il divario di genere nei tassi di occupazione in Italia rimane tra i più alti di Europa: circa 18 punti su una media europea di 10. Dal dopoguerra ad oggi, la situazione è notevolmente migliorata, ma questo incremento non è andato di pari passo con un altrettanto evidente miglioramento delle condizioni di carriera delle donne. L’Italia presenta oggi uno dei peggiori gap salariali tra generi in Europa, oltre una cronica scarsità di donne in posizioni manageriali di rilievo».

Interventi sul pay gap ma anche riforme che consentano alle donne di ridurre le ore dedicate al lavoro domestico non retribuito (il 75% è a loro carico) e di non dover scegliere più tra soddisfazione professionale e vita familiare. Una critica decisamente poco velata alle quote rosae la promessa di un maggiore impegno nel garantire ad entrambi i generi le stesse possibilità e gli stessi oneri.

«Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge: richiede che siano garantite parità di condizioni competitive tra generi. Intendiamo lavorare in questo senso, puntando a un riequilibrio del gap salariale e un sistema di welfare che permetta alle donne di dedicare alla loro carriera le stesse energie dei loro colleghi uomini, superando la scelta tra famiglia o lavoro. Garantire parità di condizioni competitive significa anche assicurarsi che tutti abbiano eguale accesso alla formazione di quelle competenze chiave che sempre più permetteranno di fare carriera – digitali, tecnologiche e ambientali. Intendiamo quindi investire, economicamente ma soprattutto culturalmente, perché sempre più giovani donne scelgano di formarsi negli ambiti su cui intendiamo rilanciare il Paese. Solo in questo modo riusciremo a garantire che le migliori risorse siano coinvolte nello sviluppo del Paese».

E’ necessario fare sempre la solita premessa: le cose non cambieranno di certo da un giorno all’altro. Questo discorso però si inserisce in quell’ottica di “primi passi” che chi ci governa può e deve compiere in direzione di una maggiore inclusione del genere femminile negli interventi e nelle scelte della politica. Perché questo Paese non può essere davvero grande se esclude e limita la metà delle sue “migliori risorse”.

Possiamo dire che per l’Italia oggi è un bel giorno.

Eleonora Panseri

Qui trovate il testo integrale del discorso del Presidente.

Wikipedia Creative Commons

Ecco le donne che faranno la storia dei Globes

Nei 78 anni della loro storia, i Golden Globes sono sempre stati dominati da uomini. Solo cinque le donne nominate per la regia in tutti questi anni: Sofia Coppola, Jane Campion, Ava DuVernay, Kathryn Bigelow e Barbara Streisand (Bigelow e Streisand due volte). La cantante l’unica ad averlo vinto nel 1983.

Il 2021 invece entrerà nella storia del cinema: sui cinque candidati alla miglior regia, le donne sono più della metà. Ecco le tre cineaste in lizza per la vittoria:

Regina King non è nuova alle vittorie: già vincitrice di un Golden Globes e di un Oscar come interprete non protagonista, milita nel mondo del cinema praticamente da sempre. Ha debuttato come attrice nel 1985 a soli 14 anni per approdare sul grande schermo nel 1991. Al suo attivo ci sono più di 32 film, e quello che la vede occupare per la prima volta il posto di regista si intitola One night in Miami. Applaudita dalla critica alla mostra del cinema di Venezia, la pellicola è tratta da una pièce teatrale in cui i quattro protagonisti discutono di black power, emancipazione e lotta al razzismo.

Chloé Zhao è nata nel 1982 a Pechino, Cina. Da sempre affascinata dalla cultura occidentale, il suo sogno si realizza a 15 anni quando inizia a studiare in un collegio di Londra. Dopo aver lavorato anche come barista, si iscrive alla  Tisch School of the Arts di New York. Il suo primo impiego da regista è del 2008 e, nonostante diverse candidature nel corso degli anni, è riuscita ad aggiudicarsi solo il Leone d’oro nel 2020 con il film Nomadland. Non solo cinema indipendente: quest’anno è atteso un film sui supereroi della Marvel che porterà la sua firma.

Ultima, non per importanza, la sceneggiatrice Emerald Fennell. Britannica e laureata in letteratura a Oxford, è stata notata dal talent scout che ha scoperto anche Keira Knightley durante un’interpretazione teatrale organizzata all’università. Ultimamente è ricordata principalmente per aver interpretato Camilla Parker Bowles nella serie Tv The crown. Già regista della serie televisiva Killing Eve, debutta al cinema con Una donna promettente.

Chiara Barison

Tokyo 2021, le affermazioni sessiste del Presidente del Comitato olimpico giapponese

“Le riunioni cui partecipano troppe donne in genere vanno avanti più del necessario”.
Yoshiro Mori, 83 anni, ex primo ministro (dal 2000 al 2001) ed attuale presidente del Comitato olimpico nipponico (JOC), ha risposto così ad una domanda sulla scarsa presenza femminile nell’organo che presiede. Le donne sono infatti solo 5 su 23 membri. Per questo esiste una proposta di riforma del ministero dell’Istruzione giapponese che aumenterebbe dal 20 al 40% il numero di donne nel comitato direttivo dei Giochi.

Secondo Mori, se venisse effettivamente incrementata la percentuale di donne nel consiglio, sarebbe necessario “contenere la durata dei loro interventi”. Il motivo? “Altrimenti non smettono di parlare e la questione diventa problematica”.

I giornali giapponesi hanno riportato l’accaduto raccontando come l’affermazione abbia generato sul momento l’ilarità generale. Sui social e in altri contesti invece le parole del presidente hanno sollevato dure critiche.
La direttrice del Comitato Kaori Yamaguchi ha precisato che “la parità di genere e un maggior rispetto per le persone con disabilità sono valori fondamentali per gli organizzatori dei Giochi a Tokyo. È deplorevole che il presidente del comitato organizzatore faccia questi commenti”.

Nonostante alcuni le abbiano richieste ed altri se le aspettassero, le dimissioni di Mori sono state smentite dallo stesso. Il Presidente si è scusato, ritenendo il commento inappropriato e contrario allo spirito della competizione organizzata dal comitato: “Sono profondamente pentito. Vorrei ritirare la dichiarazione. Vorrei scusarmi per eventuali sentimenti spiacevoli”. Anche se, rispondendo ad un cronista che gli chiedeva se effettivamente le riunioni del comitato si protraessero a causa della verbosità delle donne, Mori avrebbe detto: “Non parlo tanto con loro, non so“.

Tralasciando quest’ultima affermazione, il passo indietro resta comunque gradito. Tuttavia, la mentalità misogina profondamente radicata nella società nipponica è tristemente nota. Il Giappone si trova infatti al 121esimo posto nel rapporto sul divario di genere del “World Economic Forum“, che di Paesi ne considera 152.

Quello del presidente Mori non è da considerarsi come un caso isolato.
Nel 2018 l’Università di Tokyo si trovò coinvolta in uno scandalo gravissimo: il quotidiano cinese Yomiuri Shimbun rivelò che dal 2011 i risultati dei test di ammissione delle donne candidate alla facoltà di medicina erano stati alterati affinché queste fossero il 30% in meno del totale. Gli uomini erano ritenuti infatti “più adatti” all’ambiente ospedaliero. Del giugno e novembre 2019 sono invece le proteste portate avanti dalle donne giapponesi contro le assurde imposizioni che sono costrette a subire sui luoghi di lavoro: tacchi alti obbligatori e occhiali vietati.

Una situazione che decisamente non si addice alla terza potenza economica mondiale.

Eleonora Panseri

Potrebbe essere una donna il nuovo presidente del Consiglio?

Autorevole e competente.
Emma Bonino, parlamentare di “Più Europa” ed ex Ministra degli Affari Esteri, pensa siano queste le caratteristiche di un premier.
E se queste le avesse una donna, sarebbe davvero così utopico?

In questi giorni di consultazioni si continuano a sentire nomi su nomi, nel bene e nel male. Ma non emerge mai una proposta femminile per la posizione centrale di Governo. Solo Emma Bonino ha sollevato la questione. È così impensabile che in Italia venga scelto un capo di Governo che non sia un uomo?

Un primo ministro dovrebbe essere autorevole e competente perché sta guidando una nazione, non sta giocando una partita a poker in una serata tra amici (mi permetto di aggiungere che chiunque entri in politica dovrebbe esserlo, ma in effetti così entriamo in un’utopia che rasenta la distopia). Ma in Italia preferiamo metter davanti il genere alla capacità
politica e governativa della persona. Non riconosciamo le donne come leader e in parte è anche responsabilità di noi donne.

Come al solito è tutto causa e conseguenza di una politica fatta da e per gli uomini. Basti pensare alla scena ridicola di Matteo Renzi in conferenza stampa che parla al posto delle Ministre dimissionarie del suo partito politico (le “ministre della discordia,” Bonetti e Bellanova). Hanno avuto entrambe degli spazi per esprimersi e credo siano emerse come personaggi competenti, ma sono state letteralmente fagocitate dall’egocentrismo di Renzi.

Oggi il personaggio politico femminile più di spicco nel Parlamento italiano è Giorgia Meloni, nota più per le sue affermazioni social alla “Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, etc.” e alle sue visioni conservatrici che effettivamente fanno poco paura al patriarcato (basti pensare che i suoi commenti sulla questione dell’aborto in Polonia sono quasi identici a quelli di Matteo Salvini).

In ogni caso, siamo sempre delle “Cenerentole”, cerchiamo, sì, di prenderci delle piccole quote di potere, ma quando si tratta di occupare la poltrona più importante non abbiamo neanche una candidata da proporre.
Nel 2018 un avvocato pugliese semisconosciuto con studio a Roma è stato scelto come “Presidente di garanzia”, tale Giuseppe Conte. Si è poi trovato a gestire una prima crisi nel 2019 (con Salvini direttamente da Riccione, e temo faccia già ridere così) e una seconda nel 2021 (Renzi, in piena emergenza pandemica, pur sollevando delle questioni rilevanti ha avuto indubbiamente un pessimo tempismo).
Non ho fatto nomi a caso, ho intenzionalmente scelto di sottolineare come, ancora una volta, a reggere le fila della politica italiana che conta siano gli uomini. E vi cito un paio di eventi recenti per parlare di
questi personaggi.
Matteo Salvini è il politico che preferisce evitare i prestiti del Recovery per usare solo finanziamenti di mercato a fondo perduto, geniale strategia che consentirebbe di pagare ben 25 miliardi in più nei prossimi 10 anni, visto che notoriamente navighiamo in buone acque (il professor Cottarelli gli ha anche gentilmente offerto una lezione di economia in televisione per insegnargli a fare i calcoli).
Matteo Renzi è invece quello che dopo aver aperto una crisi politica, ha preso un jet privato per andare ad intascare il denaro del “grande principe Mohammad bin Salman”, augurandosi un “nuovo rinascimento”
in Arabia Saudita (peccato che quando era al governo a noi italiani offriva in busta paga solo 80 euro di bonus, illuminato…).
Sono questi personaggi autorevoli e competenti? A voi l’ardua sentenza. Ma come italiani possiamo fare sicuramente di meglio.

E come italiane dovremmo fare di più per abbattere il famoso “glass ceiling“, il famoso “soffitto di cristallo”, e contribuire attivamente, di più e ancora meglio, al nostro paese. In fondo, non è un momento storico decisamente propizio per provarci?
Alla Casa Bianca, Kamala Harris ha dimostrato che si può fare.
In Estonia, Kersti Kaljulaid e Kaja Kallas ricoprono le cariche più alte dello Stato, rispettivamente Capo di Stato e Capo di Governo.
In Nuova Zelanda, Jacinda Ardern è stata internazionalmente riconosciuta come una delle migliori leader nella gestione della pandemia da coronavirus.

Quando toccherà a noi?

Eleonora Scialo

Aggiornamento: nella giornata di ieri, durante le Consultazioni, sembra sia stato fatto il nome della costituzionalista Marta Cartabia per il ruolo chiave di Palazzo Chigi.

Crisi di governo, le ministre della discordia: Teresa Bellanova

Insieme ad Elena Bonetti, ha lasciato il suo incarico al Governo anche Teresa Bellanova, deputata di Italia Viva, ex ministra delle politiche agricole alimentari e forestali. Bellanova viene scelta come sottosegretaria di Stato al lavoro nel 2014, viceministra dello sviluppo economico nel 2016 e ministra del Conte bis per il suo passato da bracciante (lascia la scuola subito dopo aver finito le medie per lavorare) e da sindacalista impegnata nella lotta al caporalato. Insomma, un curriculum di tutto rispetto. Questo però non è bastato ai detrattori del binomio “donne e politica”.


Nel 2019 infatti, subito dopo il giuramento al Colle, piovvero critiche feroci sull’aspetto della ministra e sul suo titolo di studio. Perché quando le donne entrano in politica non importa quante competenze ed esperienza abbiano accumulato nelle loro carriere: chi non accetta che sia una donna ad avere il potere, troverà sempre qualcosa a cui attaccarsi. Soprattutto con commenti che sviliscano quella tanto decantata “femminilità” che non deve essere assente, ma nemmeno troppo evidente. Perché, ormai lo sappiamo troppo bene, quando si attacca una donna non lo si fa mai sulla base delle azioni che questa compie, come capita ai colleghi uomini, ma proprio in quanto come rappresentante del genere femminile.

Ora, tornando alla crisi di governo, al leader di Italia Viva Matteo Renzi sono state rivolte pesanti accuse di sessismo perché, durante la conferenza in cui sono state annunciate le dimissioni, le due ministre Teresa Bellanova e Elena Bonetti hanno avuto la possibilità di intervenire soltanto dopo l’intervento del capo di partito.
Sì, esatto, sui social e non, si sono schierati tutti in difesa di Bonetti e della stessa Bellanova che soltanto qualche tempo fa veniva massacrata da insulti come «vai a lavorare, tricheco» o «balena blu» (perché l’abito scelto dalla ministra per il giuramento era blu elettrico). La parola data soltanto dopo alle due donne ha fatto insorgere alcuni “femministi d’occasione”, quelli che si battono per la parità di genere solo quando questa porta loro un vantaggio. Infatti, quando si tratta di attaccare il nemico, le donne vengono strumentalmente difese o distrutte, come successo a Bonetti e Bellanova o, di recente, a Melania Trump, chiamata “escort” da Alan Friedman durante una trasmissione di Rai1.

Quello che le donne dovrebbero fare in questi casi è non rimanere in silenzio. Come ha fatto qualche tempo fa Alexandria Ocasio-Cortez che ha pronunciato un lungo discorso rivolto al collega repubblicano della Florida Ted Yoho che le si era rivolto chiamandola “fucking bitch“.
“Io sono qui perché devo mostrare ai miei genitori che sono figlia loro e che non mi hanno cresciuta per accettare gli abusi degli uomini”, ha dichiarato fermamente la deputata. “Trattare le persone con dignità e rispetto è ciò che rende onesto un uomo. E quando un uomo onesto fa un errore, come tutti noi possiamo fare, cerca di fare del suo meglio per scusarsi. Non per salvare la faccia, non per avere un voto in più.  Si scusa genuinamente per riparare e riconoscere il male che ha fatto cosicché sia possibile superare la cosa tutti insieme”.

Bellanova e tutte le donne della politica di ieri e di oggi stanno ancora aspettando le scuse di quanti non hanno pensato due volte a massacrarle e che le hanno difese solo quando farlo era funzionale ai loro scopi. 

Eleonora Panseri


Questo pezzo si inserisce in un progetto condiviso con i compagni della Scuola di giornalismo “Walter Tobagi” di Milano e coordinato insieme ai colleghi di All’Ultimo Banco“. Di seguito trovate alcuni contributi sul tema, gli altri li potete trovare QUI.


Gli altri protagonisti della crisi

Ma chi sono gli altri protagonisti di questa crisi di governo?
Sicuramente, il già citato Matteo Renzi che ha attirato su di sé l’ira del Presidente del Consiglio dimissionario Giuseppe Conte.

La scontro tra i due leader per molti aspetti ha ricordato una partita di tennis o un match di pugilato, come l’incontro Tyson/Holyfield del 1997 .

Non sono mancati i colpi di scena, come il voto a sostegno della fiducia dell’onorevole Mariarosaria Rossi, visto dai compagni di partito (e da tutti gli altri) come un tradimento al fondatore di Forza Italia Silvio Berlusconi. E viene quasi spontaneo il paragone con altri e più famosi “cambi di maglia“.


Crisi del passato

66 governi in 75 anni di vita repubblicana: l’Italia sembra non essere mai riuscita a trovare una stabilità politica duratura. Colpa anche del mutare delle tanto famose quanto complesse leggi elettorali, fortemente condizionate dal momento politico in cui vengono approvate.

Tra le crisi più famose, è quella del 1876: con la caduta della Destra storica in Italia si aprì una nuova stagione politica dominata dalla sinistra e dalla figura di Agostino Depretis.


Molte altre “sono passate alla storia con espressioni tra il culinario e il goliardico, sorte toccata anche a diversi accordi e patti: dal famoso “patto della crostata” del ’94 a quello delle sardine del 1997 fino al più recente “patto delle tagliatelle” del 2018 con cui di fatto è nato il primo governo Conte”.

Per restare in tema, nei pressi di Montecitorio si trovano alcuni locali divenuti famosi per l’assidua frequentazione da parte delle diverse forze politiche che compongono il nostro variegato parlamento.


Il giornalismo e le donne al potere: cosa ne pensiamo

Da diversi anni, la riflessione sul modo in cui il mondo dell’informazione tratta il tema delle donne al potere è spesso al centro del dibattito. Può capitare che giornali e programmi televisivi/radiofonici promuovano, il più delle volte inavvertitamente, stereotipi e narrazioni sessiste. Sull’argomento siamo state intervistate dal fondatore di “30 Penne Bianche“, Filippo Menci.

Crisi di governo, le ministre della discordia: Elena Bonetti

«Le mie dimissioni sono lo spazio perché questo tavolo per riprogettare il Paese, sempre rimandato, finalmente si apra. Non si può più rimandare, proprio perché siamo in crisi bisogna agire, il tema non è Conte ma la risposta politica», con queste parole il 13 gennaio 2021 Elena Bonetti, ministra per le Pari opportunità e la Famiglia, ha rassegnato le sue dimissioni. Un gesto che di fatto ha dato inizio a un processo culminato con la rinuncia al Quirinale del presidente del Consiglio Giuseppe Conte.

Fare la ministra alle pari opportunità di un Paese fanalino di coda secondo i parametri del Gender Gap Index non dev’essere stata un’impresa facile. Oltretutto in piena pandemia.

In Italia è ancora prevalente la visione della donna solo madre o solo lavoratrice. Molte sono costrette a fare una scelta in un senso o nell’altro: non si fanno i figli per la carriera o la si abbandona per seguire i figli. In relazione a questo punto, il grande rammarico della ministra consiste nell’incapacità del governo di realizzare politiche sociali che riuscissero ad andare oltre la logica assistenziale.

Diversi sono stati i suoi interventi a proposito delle migliorie da apportare al congedo di paternità, esteso da sette a dieci giorni, e sulle misure di sostegno all’imprenditoria femminile. Da sempre dalla parte delle donne, ma buona volontà, preparazione e una squadra tutta al femminile non sono bastati all’ex ministra per fare davvero la differenza.

Elena Bonetti ha lasciato un governo che aveva in mano una bozza del Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza) in cui ci sono tante belle parole come empowerment femminile, inclusione sociale e parità di genere. Ma cosa serve per trasformare le parole in realtà?

I punti dai quali non si può prescindere per un vero passo avanti nella valorizzazione della popolazione femminile sono contenuti nella lettera indirizzata a Giuseppe Conte e sottoscritta dal collettivo di donne “Il giusto mezzo”.

Al primo posto troviamo il bisogno di servizi legati alla prima infanzia: investire sugli asili nido creerebbe un circolo virtuoso e portando alla realizzazione di un altro obiettivo, il rilancio dell’occupazione femminile. Ma avere un luogo in cui lasciare i propri figli non basta. Ed ecco che entrano in gioco le varie misure di supporto fiscale che potrebbero facilitare le donne nell’accesso nel mondo del lavoro. Secondo i dati Ocse, la metà delle donne non lavora. Questo significa che solo una donna su due è occupata o cerca lavoro, mentre l’altra metà non lo cerca neppure. Il dato negativo si ripercuote sul genere delle cariche dirigenziali: le donne quadro sono meno del 10 per cento.

E così si arriva al terzo punto illustrato da “Il giusto mezzo”: l’eliminazione del gender pay gap (disparità salariale fondata sul genere, ve ne abbiamo parlato qui).

Il filo conduttore di queste richieste è dato dal giustificato astio verso i bonus. Servono riforme strutturali e capillari su tutto il territorio nazionale. Tradotto: ristrutturazioni lungimiranti e solide sul lungo termine che, a quanto pare, alla politica italiana piacciono poco.

Chiara Barison


Questo pezzo si inserisce in un progetto condiviso con i nostri compagni della Scuola di giornalismo “Walter Tobagi” di Milano e coordinato insieme ai colleghi di All’Ultimo Banco“. Di seguito trovate alcuni contributi sul tema, gli altri li potete trovare QUI.


Le diverse prospettive della crisi

Montecitorio - Roma

Innanzitutto, per districarsi tra le trame ingarbugliate e un po’ ostiche, potrebbe essere utile conoscere l’etimologia della parola crisi. Per rendersi conto poi che la tempesta parlamentare si presta bene al racconto in atti. Su il sipario!


Se il teatro non fa per voi, niente paura: la politica italiana è tutto un cinema. Colpi di scena ed effetti speciali non mancano mai, nemmeno a sale chiuse.


Storia di tormenti e shakespeariani dilemmi: la democrazia in Italia.


Questioni piuttosto noiose, bisogna ammetterlo. Cambia tutto se si trova qualcosa di positivo. Le critiche costruttive al Recovery plan ne sono un esempio.


Una crisi può essere comica? Con le meme sicuramente una risata scappa.


Crisi pandemica e crisi di governo sono collegate? Tante risposte e nessuna certezza.


Da diversi anni, la riflessione sul modo in cui il mondo dell’informazione tratta il tema delle donne al potere è spesso al centro del dibattito. Può capitare che giornali e programmi televisivi/radiofonici promuovano, il più delle volte inavvertitamente, stereotipi e narrazioni sessiste. Sull’argomento siamo state intervistate dal fondatore di “30 Penne Bianche“.

Vivere da “Invisbili”

A chi crede che oggi il femminismo non abbia senso o che sia lesivo per la società e per le donne stesse bisognerebbe far leggere questo libro. Non è un testo semplice ma deve essere annoverato tra gli “essenziali” per capire come molte rivendicazioni del movimento femminista non siano semplicemente frutto del delirio collettivo di una massa informe di pazze.
Caroline Criado Perez, scrittrice, giornalista e attivista, ha pubblicato “Invisibili” l’anno scorso, una riflessione che di astratto non ha nulla. Nelle oltre 400 pagine di questo saggio, forse uno dei migliori del 2020, l’autrice parla di dati. O, meglio, di dati raccolti che non vengono presi in considerazione. In una realtà come quella in cui viviamo oggi i data sono strumenti essenziali e lo sono sempre stati perché è proprio sulla base di queste informazioni che costruiamo il mondo che ci circonda.

Cosa c’entra tutto questo con il femminismo?
La risposta ce la dà direttamente Criado Perez nella sua Prefazione:

“La storia dell’umanità, così come ci è tramandata, è un enorme vuoto di dati”.

L’autrice parla di quel fenomeno, il gender data gap, la mancanza di dati di genere, che impedisce alle donne di vedersi realmente rappresentate nelle società in cui vivono e operano. E se, come si legge nel libro, doversi vestire pesante anche in estate perché l’aria condizionata è regolata in base alla media della temperatura dei corpi maschili o dover compire uno sforzo per raggiungere i prodotti posti su scaffali che per un uomo sono di un’altezza adatta ma troppo alti per le donne possono sembrare cose “stupide”, paranoie femminili, decisamente più grave è “avere un incidente su un’auto con dispositivi di sicurezza che non tengono conto delle misure femminili” o “avere un attacco di cuore che non viene diagnosticato perché i sintomi sono considerati “atipici”.

Questa assenza di dati il più delle volte non è intenzionale, ci mancherebbe. Ma negare cocciutamente che questa disparità non esista è pura follia.

“La mia tesi è che il vuoto dei dati di genere sia al tempo stesso causa ed effetto di quella sorta di non-pensiero che concepisce l’umanità come quasi soltanto maschile”,

dice Criado Perez. E chi sostiene il contrario si troverà in difficoltà di fronte alla mole di dati raccolti dall’autrice e divisi per temi. Dalla vita quotidiana a quella pubblica e nei luoghi di lavoro, dalla salute alla rappresentazione femminile, la realtà viene filtrata attraverso quei numeri che spesso continuano a non essere considerati e che potrebbero invece aiutare ad avvicinarci di più ad un mondo paritario.

Leggete questo libro, parlatene, continuate a lottare se credete che ci siano ingiustizie che non possono e non devono continuare ad esistere. Questo libro Caroline Criado Perez lo dedica a tutte noi:

Per le donne che non mollano: siate sempre maledettamente difficili”.

Eleonora Panseri

Abortire in Italia

L’aborto o Ivg (interruzione volontaria di gravidanza) in Italia è stato depenalizzato solo nel 1978 con l’introduzione della legge n. 194. Fino a quel momento era possibile trovarlo nel codice penale tra i “reati contro l’integrità e la sanità della stirpe”. In poche parole, era più importante garantire un seguito al popolo italiano che tutelare la vita e la salute delle donne.

Questi concetti, letti con la sensibilità di oggi, possono sembrare anacronistici e superati. Bisogna però considerare che il reato di procurato aborto si inseriva nel codice penale entrato in vigore nel 1930, in pieno ventennio fascista, un periodo che dava moltissima importanza alla questione della razza. Oggi troviamo ancora l’aborto come reato se procurato senza il consenso della donna oppure causato da una condotta colposa.

Dopo anni di lotte e morti a causa del ricorso a pratiche clandestine, la legge 194 del 1978 registra il cambio di passo. Le donne non vogliono più essere madri a tutti i costi, ma si fa strada il concetto di maternità come scelta. Soprattutto tra le classi più povere, le donne non potevano permettersi di avere troppi figli perché questo avrebbe impedito loro di lavorare.

Ma cosa prevede di preciso la legge?

Innanzitutto, il principio cardine è la tutela della salute fisica e psichica della donna, di conseguenza la gravidanza può sempre essere interrotta in caso di grave pericolo per la vita della gestante o del feto. Significa che nel caso in cui venissero diagnosticate patologie incompatibili con la vita, oppure malformazioni che potrebbero rendere rischioso portare a termine la gestazione, è possibile ricorrere all’Ivg in qualsiasi momento.

In assenza di fattori di rischio, il diritto di interrompere la gravidanza è garantito entro e non oltre i primi 90 giorni dall’inizio della gravidanza che decorrono dall’ultima mestruazione.

Oltre alla possibilità di abortire chirurgicamente, nel 2009 è stato introdotto il cosiddetto aborto farmacologico attraverso l’assunzione della pillola Ru486. La pillola abortiva non deve essere confusa con la pillola del giorno dopo. La seconda è infatti un contraccettivo d’emergenza ed è possibile acquistarla in farmacia senza ricetta medica. Deve essere assunta possibilmente entro le 24 ore dopo il rapporto a rischio e impedisce la fecondazione.

Al contrario, la pillola abortiva Ru486 può essere somministrata solo in caso di accertato stato di gravidanza e costituisce una valida alternativa all’aborto chirurgico. I dati che emergono dall’ultima relazione del Ministero della salute sono però sconfortanti: solo il 21% delle donne italiane ricorre all’Ivg farmacologica contro una percentuale che sfiora il 100% in Finlandia.

Tenuto conto dei minori rischi per la salute della donna, anche solo in termini d’invasività della procedura, la bassissima percentuale si spiega tenendo conto di due fattori. In primo luogo, la maggior parte delle Regioni prevede un regime di ricovero ordinario fino all’espulsione del prodotto del concepimento. Inoltre, a differenza degli altri Paesi europei, fino a poco tempo fa in Italia era possibile ricorrere alla RU486 solo entro le 7 settimane invece di 9. Le linee guida del Ministero della salute sono state aggiornate in tal senso solo nel mese di agosto 2020.

Quanto ai luoghi, la legge prevede che ogni donna possa abortire rivolgendosi alle strutture sanitarie pubbliche: in pratica, non è così. Visto l’altissimo numero di ginecologi obiettori di coscienza, in alcune zone d’Italia la 194 è quasi lettera morta. Secondo quanto riportato dall’associazione Luca Coscioni, fino al 2017 in Lombardia gli obiettori di coscienza erano circa il 66 per cento. Questa situazione porta le donne a rivolgersi a medici che praticano l’aborto privatamente, costringendole a sostenere un costo che per alcune può essere un deterrente.

Le stime parlano di un dato che oscilla tra le 10 e le 13 mila donne l’anno che evitano le strutture ospedaliere per interrompere una gravidanza. Insomma, in Italia l’Ivg non è per tutte e in alcuni casi comporta una selezione su base censitaria.

Chiara Barison

Marisa Rodano, un secolo di lotte

Le donne italiane espressero il loro primo voto nel 1946 e Marisa, che in quell’anno aveva solo 25 anni, per il suffragio femminile ha combattuto in prima linea. Lo ha fatto insieme all’UDI, l’Unione donne italiane: il movimento, nato ufficialmente nel settembre del 1944 a Roma sotto l’ala del Partito Comunista Italiano, l’8 marzo 1946 sceglierà su sua iniziativa la mimosa come fiore-simbolo della Giornata Internazionale della Donna. Marisa presiederà l’UDI dal 1956 al 1960.

Quella per il voto però non è stata l’unica lotta per questa donna che oggi compie 100 anni e che è un esempio di infaticabile impegno nella lunga strada per il riconoscimento dei diritti delle donne.

Maria Lisa Cinciari Rodano, nata a Roma il 21 gennaio 1921, nel maggio del 1943 viene arrestata per attività contro il fascismo e detenuta per qualche tempo nel carcere delle Mantellate. Subito dopo la caduta del fascismo entra a far parte dei Gruppi di difesa della donna, diventando una partigiana. Partecipa a una “resistenza senza armi”, come la definisce nelle sue “Memorie di una che c’era“:

“Non ho mai preso un’arma in mano se non per trasportarla e ho fatto soltanto quello che centinaia di donne hanno fatto in quei mesi”.

Alla fine della guerra è nel consiglio comunale di Roma, nel 1948 entra alla Camera (di cui sarà vicepresidente dal 1963, la prima donna nella storia repubblicana a ricoprirne la carica). Cinque anni dopo arriva anche al Senato. Dal 1979 è all’Europarlamento e vi resta per dieci anni: dal 1981 al 1984 in qualità di presidente e relatrice generale della Commissione d’inchiesta del Parlamento Europeo sulla “Situazione della donna in Europa”, dall”84 come vicepresidente della Commissione dei diritti delle donne del Parlamento Europeo.

Marisa ha speso e continua a spendere la sua esistenza per il riconoscimento della parità di genere, un traguardo che è ancora lontano dall’essere raggiunto. Ma i passi avanti fatti sono tanti e tante sono le donne che si rendono conto che le cose vanno cambiate.

“Un consiglio da dare? Il primo è: fare squadra, non isolarsi, non avere sempre l’atteggiamento di vendersi al meglio sul mercato individualmente. Il secondo è di studiare e di leggere. E nel rapporto con gli uomini cercare un rapporto che sia possibilmente paritario e non di subordinazione”.


E se lo dice una persona come Marisa Rodano, che ha contribuito concretamente a fare l’Italia, possiamo davvero fidarci.
Buon compleanno!

Eleonora Panseri

Note: QUI potete trovare una recente splendida intervista di Marisa Rodano.

La libertà di essere (o non essere) madre

Ieri sera il Senato ha confermato con 156 voti favorevoli la fiducia al governo Conte bis. Anche se la maggioranza relativa non renderà le cose facili all’esecutivo, l’Italia tira un sospiro di sollievo. Quello che però colpisce, in un’ottica femminile e femminista, sono le parole pronunciate dal leader della Lega Matteo Salvini. Durante il suo intervento, l’ex ministro ha tuonato: “il nostro modello sono i centri d’aiuto alla vita, non le pillole abortive regalate per strada a chiunque”.
Così poche parole, così tante cose sbagliate.

La maternità è da sempre “croce e delizia” delle donne di tutti i tempi e di ogni parte del mondo. Croce perché la storia le ha relegate (e spesso ancora le relega) al ruolo esclusivo di genitrici, privandole della possibilità di occuparne di diversi, etichettando quelle che non riuscivano o non volevano avere figli come delle disgraziate, come angeli ribelli in un paradiso dove la norma doveva essere “donna = madre e basta”. Delizia perché le donne che vogliono e scelgono di diventare madri accettano questo ruolo con una dedizione infinita, bellissima ma spesso al limite del martirio, viste le difficoltà che devono affrontare, cose che paradossalmente spesso non riguardano anche i padri (nonostante, bisogna dirlo, un figlio si faccia IN DUE).

Le parole del ex ministro dell’Interno non solo insultano la libertà delle donne di scegliere il destino dei loro corpi, una libertà sacrosanta, ma allo stesso tempo proseguono la lunga tradizione della “caccia alle streghe” sul tema dell’interruzione di gravidanza.
L’aborto in Italia non è reato, se eseguito nei modi e nei tempi stabiliti dalla legge. E la pillola abortiva non viene “regalata per strada”. Nel nostro paese e in tutto il mondo sono morte milioni di donne, prima che l’interruzione di gravidanza fosse legale. Questa veniva praticata (e in alcuni paesi è ancora così) con ferri da calza e altri oggetti che provocavano emorragie letali o problemi di salute per tante (troppe) donne. La legge 194 ha impedito ad altre di fare la stessa orribile fine. Perché, no, le donne non vogliono e NON DEVONO per forza essere madri. Le donne che decidono di abortire non sono mostri ma semplici esseri umani che come tutti hanno il diritto di autodeterminarsi in quanto individui nella società in cui vivono.  

Le donne che scelgono la maternità devono essere allo stesso modo rispettate e aiutate. Lo Stato dovrebbe dare loro tutto quello di cui hanno bisogno per sostentare i loro figli, dovrebbe non costringerle a scegliere tra una carriera e il loro ruolo di madri, dovrebbe educare tutti alla parità di genere e al rispetto di chi assume su di sé, uomini e donne, l’immenso compito di educare una generazione futura (a questo proposito, trovate QUI la petizione lanciata da “Il giusto mezzo”, il gruppo di donne che ha avanzato la proposta di destinare il 50% dei fondi del “Next Generation EU”, in Italia meglio conosciuto come “Recovery Fund“, a politiche a favore dell’occupazione femminile, della lotta alla disparità di genere e della creazione di servizi sulla cura della persona, dall’infanzia alla terza età, ).

È molto facile fare politica, urlare slogan “in favore delle donne e della vita”, quando si è uomini. E soprattutto quando si vive in un paese dove il corpo delle donne è continuamente strumentalizzato e sessualizzato ma la sessualità femminile è un tabù. Non si parla di educazione sessuale nelle scuole e quella all’affettività non si sa nemmeno cosa sia. Però abortire non si può e non si deve fare. Perché? Perché lo ha deciso Matteo Salvini? L’ex ministro è mai stato una donna? Sa cosa significa esserlo oggi?

Un’opinione è tale quando non lede la libertà di chi la pensa diversamente e le parole pronunciate ieri sono l’ennesimo attacco a chi difende rispettosamente la propria. Essere prochoice non significa disprezzare la vita ma affermare il diritto all’aborto legale e sicuro e riconoscere che la maternità non può essere imposta a chi, per mille motivi, non può o non se la sente di portare avanti una gravidanza. E, allo stesso tempo, lottare affinché chi vuole essere madre lo sia senza incontrare enormi difficoltà sul proprio cammino.

Non è ancora ben chiaro come in un paese che si definisce civile queste due cose siano incompatibili.  

Eleonora Panseri

Regola numero uno del lockdown: non guardare vecchie serie tv

È di questi giorni la conferma dell’uscita di un sequel di Sex and the City, telefilm cult degli anni 2000: si chiamerà “And just like that…” e seguirà la vita di 3 delle quattro protagoniste della serie originaria.

Ora, qui scatta una grande domanda, e non si tratta di valutare se bannare Trump dai social media sia giusto o sia una lesione della libertà di espressione. La questione è: ci serve davvero l’ennesima serie fintamente femminista nel 2021? Non ho la soluzione universale al problema, ma di sicuro mi sono fatta un’idea, e da donna voglio condividere il mio rapporto di amore e (più recentemente) odio con questa serie per rispondere.

Ho 15 anni e sono iscritta al liceo Classico di una cittadina di provincia del Piemonte orientale che mi sta terribilmente stretta. Ho mille sogni nel cassetto e altrettante ambizioni rinchiuse nell’armadio. I fighetti vanno in giro con degli improbabili jeans Richmond con l’inequivocabile scritta RICH stampata sul sedere (non negatelo, è come la mutanda con l’elastico logato di Calvin Klein… l’abbiamo fatto tutt*.)

Il mio telefilm preferito è Sex and the City (non era ancora uscito Lost, non giudicatemi). Carrie Bradshaw, la protagonista, 30enne bionda magrissima, scrive un editoriale su “The New York Star” dove parla di sesso, cuori spezzati et similia, vive a Manhattan, ha più scarpe che fidanzati e va in giro con le stesse borse firmate che ogni tanto vedo anche nell’armadio di mia madre (e che puntualmente le rubo, scusa mamma).

Insomma il dream factor di questa serie colpisce e rapisce quell’adolescente un po’ superficiale e illusa che è in me.

Ho 31 anni, è un pomeriggio di metà novembre, affronto l’ennesimo momento di lockdown dell’anno e, tra lo scocciata e l’annoiata, accendo la tv. La rivelazione: su Sky Atlantic trovo Sex and the city, la serie completa. Emozionata, decido di iniziare una maratona della serie che ha segnato la mia adolescenza. Seleziono la prima puntata della prima serie e incomincio.

In un secondo torno nel 1998, il pilot esce il 6 giugno* ed è una serie rivoluzionaria perché per la prima volta sul piccolo schermo compare, signori e signori…la donna single! Anzi, ancora meglio.

La donna single indipendente, con un buon lavoro, che le permette addirittura di mantenersi da sola accumulando baguette di Fendi e vestiti disegnati da John Galliano. La donna single che in macchina da sola, allo sportello del drive-in, chiede “un cheeseburger, patatine grandi e un Cosmopolitan”. La donna single che osa addirittura parlare di sesso in modo disinibito, di uscire con un uomo una mezza sera, che se lo porta a letto e il mattino dopo lo restituisce al mondo, o dove l’ha trovato, dimenticandoselo per sempre. La donna che nella secolare diatriba “donna riproduttrice / produttrice” sceglie di ignorare gli istinti materni per dedicarsi alla carriera.

Tra l’altro Carrie Bradshaw è talmente moderna che lavora da casa (nel suo piccolo ma meraviglioso bilocale nel West Village, ça va sans dire) con quella bomba del suo Macbook, quando noi eravamo ancora i fedelissimi di quei pc squadrati, pesanti, brutti, di quell’orripilante grigio antracite ed è quindi antesignana dello “smartworky contiano”, passatemi il neologismo.

Ora, dimentichiamoci per un attimo di alcune incoerenze devastanti che riporterò con la stessa brutalità con cui gli autori ce le hanno sbattute in faccia all’epoca: Carrie scrive quattro righe al mese su un giornale, ma vive a Manhattan, compra scarpe da 400$ a paio (quattrocento dollari, nei primi anni 2000), frequenta locali e feste esclusive e concediamoglielo, ogni tanto ammette di avere il conto in rosso (guarda un po’!) ma continua imperterrita la sua vita scintillante, e beata lei!, mi permetto di aggiungere.

Torniamo a noi. Dicevamo: vent’anni fa è una serie innovativa. Oggi…no. Quindi il punto è: cosa non funziona oggi della serie e perché io, che mi sento fortissimamente donna, sento l’esigenza di condividere alcune questioni che mi hanno scosso.

Il problema fondamentalmente è a monte, ed è molto semplice: è scritta da un uomo, Darren Starr, e di conseguenza il punto di vista è maschile.

Le protagoniste sono tratteggiate secondo i soliti cliché: Carrie e le sue amiche sono quattro gnocche (scusate il francesismo) super perfette in tutto. Io sono una normalissima single che non cambia pettinatura ad ogni stagione (i miei capelli sono lunghi e spettinati dal 1989), che deve rinunciare all’ennesimo paio di scarpe firmate perché una persona che si mantiene da sola non si può permettere di vedere il conto in rosso, che apprezza anche le relazioni complicate per non annoiarsi troppo ma si stufa comunque di un uomo in 30 ore massimo, e che nonostante vada a correre per km da anni, inizia a intravedere i primi segni di cellulite.

Alle certezze granitiche che Carrie poeticamente scrive sul suo spazio media contrappongo insicurezze quotidiane e indovinate un po’? Neanche un terzo delle mie problematiche è dovuto agli uomini (come diceva Jay Z, “I got 99 problems but the man ain’t one”. No, forse non faceva così ma comunque…).

E ho tantissime amiche che stanno costruendo carriere grandiose senza l’aiuto di nessuno, che si risolvono i loro problemi da sole, rimboccandosi le maniche, e che vivono benissimo con o senza un uomo (pazzesco, no?). E farò nomi perché è arrivato il momento di supportarci e valorizzarci, sempre: Giulia, Sofia… forse non ve lo dico mai, mea culpa!, ma a voi va il mio più grande moto di stima.

Ma torniamo a Carrie e al suo mondo dorato. Non esiste ancora il movimento Me too, ma siamo nel 1998 (il 1968 è passato da trent’anni ma la situazione rimane questa), e la posizione sociale della donna ce la vuole raccontare…un uomo. Per citare Rebecca Solnit, che scrive meglio di me, sintetizzerei il tutto con…”gli uomini che spiegano le cose”. Con la prospettiva di oggi parleremmo di mansplaining, o il “minchiarimento” di murgiana memoria. Il Post lo definisce come “l’atteggiamento paternalistico di alcuni uomini (ma non solo) quando spiegano a una donna qualcosa di ovvio, oppure qualcosa di cui lei è esperta, perché pensano di saperne sempre e comunque più di lei oppure che lei non capisca davvero.” Qui l’articolo in cui se ne parla, e qui potete trovare un “bell’esempio” recente: il caso “Parrella-Augias” che ha coinvolto la scrittrice Valeria Parrella, Giorgio Zanchini e Corrado Augias. Gli ultimi due sono giornalisti, a mio parere, validi e indubbiamente competenti ma sulla questione femminista hanno fatto obiettivamente un fin troppo evidente scivolone. E, non senza una certa arroganza, in questi momenti dovremmo rispondere: “Scendi dal piedistallo, tu sei un uomo e, quindi, questa questione vorrei spiegartela io”. Visto che abbiamo subito il patriarcato per secoli, se una volta ogni tanto vi spieghiamo noi qualcosa, miei cari uomini, va bene così.

Il punto è: gli uomini possono parlare di femminismo? Si, certo. Devono. Vogliamo sapere il loro punto di vista. E abbiamo bisogno di uomini femministi. Ma devono abbandonare quell’atteggiamento saccente che si portano dietro dalla notte dei tempi, perchè sulla questione non ne sanno più di noi. Esempio pratico: io, donna bianca e privilegiata, dall’altro della mia fortuna, posso parlare di “Black Life Matters”? Probabilmente si e sinceramente mi sento in dovere di supportare questo movimento. Ma posso mai permettermi di spiegarlo ad una donna di colore che subisce il suo destino da millenni? Assolutamente no.

Un’altra tematica che ho sempre sottovalutato, ma questa volta non mi sono fatta sfuggire: il rapporto tra donne. La narrazione è fortemente stereotipata, per usare un eufemismo. Le 4 amiche si supportano tra loro, hanno un rapporto così perfetto che può esistere solo ed esclusivamente nella finzione cinematografica: il tipo di rapporto che forse alcune di noi vorrebbero avere con le loro amiche. Ma la cosa che mi colpisce di più (in negativo, sia chiaro) è la cattiveria con cui scagliano giudizi nei confronti delle altre donne, avvalorando quel tremendo cliché che vede le altre donne come le più temili nemiche delle donne. Se non fai parte del mio ristretto gruppo sociale, sei la nemica. Terribile.

E infine, quello che ha definitivamente distrutto il mito: la realtà è che, tra alti e bassi, cuori più o meno spezzati, relazioni più o meno lunghe e più o meno significative, tutte e quattro le protagoniste cercano, per ben sei stagioni e due film, il grande amore della loro vita e si sposano. Se questa cosa non vi ricorda niente, vi dico io con una parola sola che cosa ricorda a me. Patriarcato.

L’obiettivo della donna, anche se indipendente, è quello: accasarsi. Vogliamo veramente tutte solo questo? Il grande amore da sposare un giorno?

Tra l’altro Carrie, la super esperta di sentimenti, alla fine sceglie proprio lui, “Mr Big”, il gran figo che mette sempre davanti il suo lavoro a tutto il resto, quello che la prende e la lascia mille volte, quello che ogni tanto è così inebetito e indifferente che viene lasciato perché non ha neanche voglia di lasciare, quello che alla fine le chiede di sposarla e la abbandona all’altare senza nessuna ragione (se non quella narrativa di riempire due ore di film, voglio sperare).

E no, questa non è una relazione romantica, non è un amore struggente, M.r Big non è Heathcliff, e Carrie non è “una di noi“. Questo è proprio un messaggio sbagliato (del resto mi piace ricordarlo di nuovo, la serie l’ha ideata un uomo). E ragazze: se un uomo vi tratta così, per favore, non accettate questo tipo di comportamento. Il mio consiglio è di riportarlo dove molto probabilmente l’avete trovato: nel cassonetto del non riciclabile.

Ho passato l’adolescenza a sognare Carrie, le sue amiche, le sue gambe perfette, il suo guardaroba, la sua Saddle di Dior, il suo Mac, il suo lavoro, New York, i Cosmo, i taxi che si fermano con uno schiocco delle dita, i discorsi osé di Samantha, Mr. Big, Hayden, la fuga d’amore a Parigi…

Oggi a pensarci impallidisco. Sono sicura che, se la donna che sono diventata oggi avesse visto Sex and the city quindici anni fa, probabilmente avrebbe abbandonato tutto alla seconda puntata. Sicuramente chi sostiene la tesi secondo la quale questa serie sia femminista risponderebbe a qualsiasi mio commento con una frase del genere: “Ricordiamoci che è una serie del 1998.”

Vero. Ma vorrei comunque ribattere, e lo farò nel seguente modo.

1929, Virginia Woolf pubblica “Una stanza tutta per sé”.

Era femminista quando è stato pubblicato? Si.

Lo si può considerare tale anche oggi? SI.

1949, Simone de Beauvoir pubblica “Il secondo sesso”.

Era femminista allora? Si.

Lo è ancora oggi? SI.

Leggere per credere. Non capisco se la serie sia anacronistica, se siamo cambiate, se il mondo è diverso da 15 anni fa e la dinamica femminista negli ultimi anni si è fortunatamente evoluta. Forse, come canta Mia Martini “quando la moda cambia, la gente cambia”. E io, che sono indubbiamente cambiata, non sono più tanto sicura che una serie così faccia bene a noi donne. Quindi reiterare questi messaggi attraverso una serie sequel forse non è una scelta femminista. Anzi. E tu, mia cara Carrie Bradshaw, perdonami, ma sei esattamente il tipo di donna che io oggi non voglio essere.

*(una nota: in Italia, la nazione in cui si arriva sempre in ritardo su ogni cosa, va in onda il 10 marzo 2000, non ridiamo).

Estonia, Kaja Kallas prima donna a capo del Paese

Kaja Kallas può essere l’ultima ad unirsi all’appello di donne a capo dei governi del nord: dalla Scandinavia al Baltico, troviamo ben sei prime ministre su otto totali. Fanno eccezione solo Svezia e Lettonia.

Quarantatré anni, avvocata specializzata in antitrust e già a capo del partito riformista, nonché figlia dell’ex premier Sim Kallas, prenderà il posto del dimissionario Juri Ratas. A proposito della bufera sulla sospetta corruzione del governo ha detto: «Chiunque sia coinvolto in questo scandalo deve pagare le conseguenze – e ha proseguito – siamo in una fase di emergenza per la pandemia e abbiamo bisogno di un governo attivo in grado di prendere decisioni».

Chiara Barison

Capitol Hill, le donne che si oppongono a Donald Trump

Durante l’assalto a Capitol Hill la partecipazione femminile è stata nutrita. Nonostante la tutt’altro che segreta misoginia di Donald Trump, ci sono donne che hanno sostenuto e continuano a sostenere il 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America. Ma dopo i fatti del 6 gennaio non sono mancate le voci di quante si sono mostrate apertamente contrarie alla politica del tycoon sin dai tempi della campagna elettorale e, a sorpresa, anche di coloro che hanno fatto parte del suo entourage e partecipato attivamente al suo esecutivo.

Tra le prime ad aver espresso con decisione il proprio dissenso, c’è la presidentessa della camera dei rappresentanti degli Stati Uniti d’America, Nancy Pelosi. Durante l’attacco ha richiesto l’intervento della Guardia Nazionale e subito dopo l’attacco ha invocato il 25esimo emendamento della Costituzione americana che consentirebbe al vicepresidente, Mike Pence, e alla maggioranza dei membri del governo di rimuovere il presidente se per qualche ragione non fosse più in grado di ricoprire il proprio ruolo. Pence assumerebbe così a tutti gli effetti il ruolo di presidente nei pochi giorni che restano prima dell’effettiva entrata in carica di Joe Biden. Non è la prima volta che Pelosi contesta l’operato di Trump. Già qualche tempo, a settembre del 2019, la procedura di impeachment era stata avviata dalla presidentessa a seguito

A favore della rimozione si sono espresse anche le due deputate Ilhan Omar e Alexandria Ocasio-Cortez. Omar la sera stessa della violenta incursione all’interno del Campidoglio ha scritto un lungo tweet, sostenendo l’idea che la rimozione del presidente sia necessaria per “preservare la repubblica” e per “rispettare il nostro giuramento”. Ocasio-Cortez è stata decisamente più sintetica: “Impeach”.

Un fatto così grave non ha scosso solamente le avversarie di “The Donald”.
“I disordini mi hanno profondamente turbato” ha dichiarato Elaine Chao, l’ormai ex ministra dei Trasporti. Seguita da Betsy DeVos, tra i più strenui difensori dell’operato del presidente e ministra dell’Istruzione dimissionaria. Nella lettera con cui ha lasciato il suo incarico, ha duramente criticato quanto accaduto, definendo “inconcepibili” le azioni dei sostenitori di Trump e ha indicato come indubbia causa scatenante dei fatti la retorica aggressiva del presidente uscente. E la senatrice repubblicana Lisa Murkowski, intervistata dall’Anchorage Daily News e dall’Alaska Public Media, non ha usato mezzi termini: “”Non posso più tacere, voglio che Trump si dimetta. Lo voglio fuori. Ha causato abbastanza danni”.

A queste si aggiungono Stephanie Grisham, capo dello staff di Melania Trump, Rickie Niceta, segretaria della First Lady Melania Trump per gli affari sociali, e Sarah Matthews, vice addetta stampa di “The Donald”, definitasi “profondamente turbata da ciò che ho visto oggi”, che hanno deciso di abbandonare i propri ruoli per prendere le distanze da quanto successo.

Nel 1920 le donne americane hanno ottenuto il diritto di votare i propri rappresentanti e nel 2020 una donna, Kamala Harris, è stata eletta vicepresidente per la prima volta nella storia degli Stati Uniti. In 100 anni sono stati raggiunti tanti traguardi e, anche se la strada per raggiungere la parità è ancora lunga, di sicuro le donne non hanno più paura di dire forte e chiaro “I dissent”. E non sono disposte ad accettare un “No, you can’t” come risposta.

Eleonora Panseri

Questo articolo si inserisce in un progetto condiviso con i colleghi della scuola Walter Tobagi di Milanoqui trovate tutte le riflessioni ispirate dall’assalto di Capitol Hill.

Capitol Hill, le donne radicali e violente di Trump

Che Donald Trump amasse le donne lo sapevamo già: appassionato di concorsi di bellezza, è stato sposato tre volte, per un totale di cinque figli. Che sia un buon marito invece è tutto da vedere.

Anche prima di arrivare alla Casa Bianca, il tycoon non ha mai perso occasione di bersagliare le donne: offensivo, allusivo, inneggiante allo stupro.

Eppure loro stesse non hanno mai smesso di sostenerlo: alle elezioni del 2016 prima, per sventare l’impeachment poi, durante l’assalto di Capitol Hill alla fine (sarà davvero la fine?).

Durante l’assalto del 6 gennaio la partecipazione delle donne non è stata marginale. Sebbene i Proud Boys, uno dei principali gruppi di estrema destra che sostengono Trump, sia composto esclusivamente da uomini, la risposta femminile non è stata da meno. Le registe dei tafferugli sarebbero infatti le fondatrici del movimento “Women for America first”, Kylie Jane Kremer e sua madre Amy. Proprio quest’ultima è una repubblicana ultra conservatrice di ferro, attivista e esponente di punta del gruppo “Tea Party” dal 2009.

Per non farsi mancare nulla, nel 2020 hanno deciso di dare vita al gruppo Facebook “Stop the steal”, convinte che i brogli elettorali a danno di Trump siano realtà, poi chiuso dalla stessa piattaforma perché accusato di diffondere informazioni false e fuorvianti. Ma la perseveranza di Kylie l’ha portata a riaprire lo stesso gruppo su Twitter, e sarebbe proprio qui che è stata organizzata la marcia verso la sede del Congresso Usa. Ad una prima analisi, lei e la madre non avrebbero partecipato materialmente agli scontri, ma è opera di Kilye il video del discorso che circola in rete in cui Trump istiga la folla.

E poi c’è QAnon, la teoria del complotto di estrema destra. Il leader più rappresentativo è sicuramente Jake Angeli (al secolo Jacob Anthony Chasley), sciamano dal copricapo di pelliccia e le corna vichinghe. Però, inaspettatamente, la maggioranza dei seguaci del gruppo è donna. Una delle cinque vittime dell’assalto infatti è Ashli Elizabeth Babbitt, veterana dell’Air Force e adepta di QAnon. L’altra è Rosanne Boyland. Erano entrambe giovani, entrambe convinte che il mondo sia governato da una cricca di pericolosi pedofili ostacolati unicamente dall’ex re dei concorsi di bellezza.

Molti degli atti di violenza perpetrati in nome di QAnon hanno una firma femminile: a maggio Jessica Prim è stata arrestata per aver trasmesso in diretta social la sua spedizione verso New York per rimuovere Biden, il tutto in possesso di decine di coltelli. Poco più tardi, ad agosto, in Texas un’altra sostenitrice di QAnon è stata accusata di aver aggredito delle persone che credeva coinvolte nel rapimento di un bambino.

Ma perchè QAnon ha così presa sulla psiche femminile? Per parlare del valore delle donne si fa sempre riferimento alla loro innata capacità di essere empatiche, materne e comprensive con tutti. Doti che da un lato possono incrementare le capacità di leadership, dall’altro portare a gesti estremi. Come lo Stato Islamico, QAnon ha capito che per coinvolgere le donne e renderle pericolose è necessario fare leva sul loro altruismo e sull’istinto protettivo nei confronti degli indifesi.

Quindi, se il motto “salviamo la razza bianca” ha più effetto su maschi giovani e disillusi dalla realtà, “salviamo i bambini dai pedofili e dal traffico di esseri umani” ha un impatto fortissimo sulle donne.

Gli stereotipi che aleggiano intorno alla donna radicalizzata possono essere molto pericolosi. Infatti, ha molte meno probabilità di essere arrestata nel corso di una manifestazione violenta proprio perché la si ritiene meno convincente in “vesti militari”. Tutto questo per dire che sì, le donne sono più impressionabili se si parla di reati a danno dei bambini, ma no, non sono mediamente più buone ed equilibrate degli uomini. La crudeltà è una questione di potere e, fino ad ora, è stato sempre in mano maschile.

Se volete scoprire chi sono le donne che hanno contrastato Trump cliccate qui!

Chiara Barison

Questo articolo si inserisce in un progetto condiviso con i colleghi della scuola Walter Tobagi di Milano, qui trovate tutte le riflessioni ispirate dall’assalto di Capitol Hill.

“Lucky” o l’apologia della brava ragazza

«Molti di noi hanno uno scopo che non scelgono, ma che al contrario va a stanarli con l’ostinazione tipica di questo genere di fenomeni. Sottrarsi a questo non era possibile, per il mio bene e per quello di tutte le vittime ridotte al silenzio dalla vergogna o da imperativi familiari o culturali».

Alice Sebold aveva solo 18 anni quando, diretta verso la residenza universitaria di Syracuse in cui alloggiava, è stata aggredita e violentata da uno sconosciuto. Nel suo libro c’è tutto il dolore dell’evento in sé, compresa la tragicità del riviverlo per farne una testimonianza che sia di aiuto per gli altri.

“Lucky”, fortunata, così è stata definita dal poliziotto che raccolse la sua deposizione quella notte del 1981. Nello stesso luogo un’altra ragazza prima di lei fu uccisa. «Uno stupratore può violentare non solo il corpo ma anche la mente – spiega Sebold – se potessi avere una gomma magica e cancellare quella notte lo farei in un batter d’occhio».

Nonostante tutto, Sebold riesce a scorgere l’abbozzo di una benedizione: l’autrice si sofferma ad analizzare il ruolo che l’estrazione sociale delle parti in causa ha avuto nel processo. Lei infatti è bianca, benestante, istruita e all’epoca dello stupro fu accertato che fosse ancora vergine.

Al contrario, il suo aggressore era povero, nero e con precedenti penali. Anche se sembra assurdo, la verginità e il suo abbigliamento pudico giocarono un fondamentale ruolo a suo favore.

Detto questo, il processo fu tutt’altro che una passeggiata. Emotivamente devastante, le conseguenze hanno prodotto strascichi in tutte le pieghe dell’esistenza di Sebold: alcol, eroina, relazioni tossiche, sindrome da stress post traumatico. Nonostante la condanna del suo violentatore, parla della vittoria come «una condizione fuggevole, balena per un attimo e poi si spegne».

E provoca i lettori: «Prendete lo stesso identico caso e provate a invertire i ruoli. Esempio: lo stupratore è un professionista bianco appartenente alla classe media o alta e proviene da una famiglia rispettabile. Violenta una prostituta filippina transessuale in una camera d’albergo. Il delitto è esattamente lo stesso, ma le possibilità che l’imputato venga condannato? Nemmeno lontanamente paragonabili».

P.s.: vale la pena di leggere anche “Amabili resti”, altro capolavoro di Sebold. Nel 2009 ne è stato tratto un film con Saoirse Ronan nei panni della protagonista.

Chiara Barison

Non uno stigma, non un lusso e nemmeno una scelta: parliamo di mestruazioni

Regolare o irregolare, lungo o breve, con flusso abbondante o scarso, preciso come un orologio svizzero o in preoccupante ritardo: il ciclo mestruale può avere più d’una di queste caratteristiche e nell’arco di 40 anni, una donna avrà circa 520 cicli. Fino all’arrivo della menopausa, una volta al mese, dovrà dare il benvenuto alle non sempre gradite (dipende dai casi) mestruazioni, che l’accompagneranno per diversi giorni. Si tratta, in primis, di un evento fisiologico, una cosa naturale, un “fenomeno ciclico, tipico delle femmine dei mammiferi placentali”, per usare una definizione più “tecnica”. Ma per molte donne queste sono una seccatura non indifferente, principalmente per due ragioni.

La prima è lo stigma che lo circonda. Fateci caso, difficilmente questo viene chiamato con il proprio nome: dal classico “sei diventata una signorina!” agli irritanti “ma hai le tue cose?!?” e “per caso, sei “indisposta”?”, il termine “mestruazioni” sembra essere una cosa che ad alta voce non si può dire. È capitato a tante donne, almeno una volta nella vita, di trovarsi sprovviste di assorbente al primo giorno di ciclo ed essere costrette a chiederlo ad amiche e conoscenti (anche a sconosciute, se la situazione lo richiede!). Quante hanno mantenuto e mantengono un tono di voce normale nel formulare questa richiesta? Quelle che possono rispondere affermativamente alla domanda sono davvero poche. Perché?
Nella maggior parte dei casi, per non incorrere nella derisione o nel disgusto di una buona parte della controparte maschile che costringe le donne a vivere questo naturale momento della vita come qualcosa di imbarazzante o sconveniente per mancanza di attenzione e sensibilità riguardo l’argomento. Dal menarca alla menopausa, il terrore di macchiare in pubblico vestiti o superfici su cui si è sedute è costante per tutta la durata delle mestruazioni. Perché non basta l’aver macchiato, a volte irrimediabilmente, un bel paio di pantaloni ma a questo bisogna aggiungere le occhiate o, peggio, le battute di amici e conoscenti.
Purtroppo, non si tratta di casi isolati ma di una mentalità che interessa tutta la società. Nel 2015 Rupi Kaur, giovane poetessa, scrittrice e illustratrice canadese di origine indiana, si è vista cancellare una delle foto pubblicate sul suo profilo Instagram perché questa violava le linee guida del social. La ragazza era semplicemente ritratta sdraiata e di spalle, con i pantaloni e le lenzuola del letto macchiate di sangue mestruale. Una foto censurata perché ancora oggi le mestruazioni vanno tenute nascoste, come se fossero una sorta di colpa, qualcosa di cui vergognarsi quando, in realtà, potrebbero essere considerate come un malanno stagionale o una gravidanza, a parità di “naturalità”. Ma perché, se quando una donna è incinta lo si grida ai quattro venti, è invece così strano e assurdo parlare liberamente di e avere le mestruazioni?

Il secondo punto che rende problematica la convivenza con queste “simpatiche” amiche è la questione “Tampon Tax, ovvero la tassazione sui prodotti per l’igiene intima femminile. Sono all’incirca 12.000 gli assorbenti che una donna consuma nell’arco della propria vita. E questa spenderà all’anno mediamente 126 euro, visto che il prezzo per una confezione si aggira intorno ai 4 euro. Di questi, 22,88 andranno allo Stato come imposta sul valore aggiunto perché nel nostro paese questo tipo di prodotti non sono considerati un bene di prima necessità e vengono tassati con un’aliquota al 22%, alla stessa stregua di beni di lusso, bevande, abbigliamento, prodotti di tecnologia o per la casa e automobili. A stabilire la classificazione dei prodotti in commercio in Italia suddivisa per fasce di imposta è un decreto del Presidente della Repubblica del 1972: tra i beni con un’Iva inferiore al 10%, e quindi considerati necessari, ci sono carne, birra, cioccolato, tartufo, merendine, francobolli da collezione, oggetti di antiquariato. Basilico e rosmarino sono tassati al 5%; latte e ortaggi, occhiali o protesi per l’udito al 4%, insieme con volantini e manifesti elettorali. Una domanda sorge spontanea: se le mestruazioni sono qualcosa di inevitabile, può una donna fare a meno degli assorbenti?
In Italia, secondo i dati Istat sulla povertà del 2019, “sono quasi 1,7 milioni le famiglie in condizione di povertà assoluta con una incidenza pari al 6,4% (7,0% nel 2018), per un numero complessivo di quasi 4,6 milioni di individui (7,7% del totale, 8,4% nel 2018)”. Ciò significa che mantenere le tasse sugli assorbenti così alte è qualcosa di profondamente ingiusto, una pratica che incentiva la cosiddetta “period poverty” ed è lesiva del diritto alla salute delle donne che faticano ad affrontare le spese per il loro sostentamento, per le quali gli assorbenti non possono e non devono essere un lusso.

In Europa sono diversi i paesi virtuosi in materia di “Tampon Tax“: nel primo mese del 2021 il Regno Unito ha rinunciato alla tassa sugli assorbenti, unendosi all’Irlanda e alla Scozia che durante l’anno appena conclusosi ha deciso di rendere universale e gratuito l’accesso ai prodotti per l’igiene intima femminile.
In Italia sono molte le associazioni che tentano di sensibilizzare sul tema, anche attraverso i social network. “No Tampon Tax Italia“, per esempio, si occupa interamente di questo argomento (su Instagram e su Facebook) e qualche anno fa l’associazione “Onde Rosa“, insieme a “Weworld”, ha lanciato una petizione, “Stop Tampon Tax, il ciclo non è un lusso!” che ad oggi conta quasi 500.000 firme (fai la cosa giusta, clicca qui e firmala anche tu ;)). Le associazioni studentesche dell’Università La Statale di Milano sono riuscite, per la prima volta in Italia, a far installare distributori di assorbenti a prezzi calmierati (20 centesimi l’uno) all’interno delle sedi di città Studi, via Festa del Perdono e via Conservatorio.
In più, dal novembre 2019, l’Iva è stata ridotta al 5% sugli assorbenti biodegradabili e compostabili. Tuttavia, questi rappresentano solo l’1% dei prodotti in commercio e sono poche le donne che vi fanno ricorso.

Nei primi giorni del mese di gennaio in Italia ha visto la luce la nuova legge di bilancio nella quale la tassazione sugli assorbenti è rimasta purtroppo invariata.
Si può continuare a fare finta che il problema non esista? O che per le donne le mestruazioni siano una scelta?
La risposta è soltanto una: assolutamente no.

Eleonora Panseri

*Per saperne di più sull’argomento:
Dataroom di Milena Gabanelli: “Il tartufo è un bene primario, gli assorbenti no“;
European Data Journalism Network: “Iva sugli assorbenti femminili: la metà dei Paesi Ue li tratta al pari di sigarette e alcolici”;
Qualcosa di Buono:Assorbenti a basso costo alla Statale di Milano: quand’è che aboliamo la Tampon Tax?

“Donna non si nasce, lo si diventa”

Il 9 gennaio 1908 nasce Simone Lucie Ernestine Marie Bertrand de Beauvoir, scrittrice, saggista, filosofa esistenzialista, professoressa, massima esponente del femminismo emancipazionista e autrice del testo cardine, e indiscusso capolavoro, della seconda ondata: “Il secondo sesso”.

Figlia di Françoise Brasseur e Georges Bertrand de Beauvoir e sorella di Henriette – Hélène, di due anni più giovane, trascorrerà un’infanzia difficile, a seguito delle ristrettezze economiche affrontate dalla famiglia e causate dalla bancarotta del nonno materno Gustave Brasseur.
Studiosa appassionata fin dalla giovinezza, nel 1926 decide di iscriversi alla facoltà di Filosofia della Sorbona, fatto insolito per una donna in quegli anni. Il destino delle sue coetanee era all’epoca quello di trovarsi un marito e mettere su famiglia al più presto. Ma proprio a causa della difficile situazione economica familiare, e della conseguente assenza di dote, sia Simone che Henriette si rimboccheranno le maniche per trovare un impiego (cosa che il padre Geroges vivrà come un fallimento). Laureatasi con una tesi su Leibniz, nel 1929 ottiene la cosiddetta “agrégation“, ovvero l’idoneità all’insegnamento riservata ai migliori allievi francesi. Diventa così, a soli 21 anni, la più giovane insegnante di filosofia di Francia, classificandosi seconda all’esame di idoneità (superando Paul Nizan e Jean Hyppolite e perdendo di poco contro Jean-Paul Sartre, bocciato l’anno precedente). Sartre sarà l’uomo che accompagnerà De Beauvoir per tutta la vita: i due tuttavia non si sposeranno mai e imposteranno una relazione aperta che permetterà loro di frequentare altre persone. In alcuni casi, la libertà sentimentale e sessuale della scrittrice e filosofa le causerà non pochi problemi.  

Nel 1943, infatti, De Beauvoir verrà allontanata dall’insegnamento, a causa della storia avuta qualche anno prima con una studentessa che, all’epoca dei fatti, non aveva ancora raggiunto i 15 anni, l’età del consenso fissata ai tempi in Francia. Da questo momento in poi, la donna potrà dedicarsi interamente alla scrittura. Esce in quell’anno il primo romanzo, “L’invitata”, che racconta, appunto, il rapporto intercorso tra De Beauvoir, Sartre e Olga Kosakievicz, l’ex allieva. Tra il 1943 e il 1946 scrive “Pirro e Cinea”, un trattato di etica, i romanzi “Il sangue degli altri” e “Tutti gli uomini sono mortali” e la sua unica opera teatrale, “Le bocche inutili”. Partecipa, seppur marginalmente, alla Resistenza francese con il partito Socialismo e Libertà.

Nel dopoguerra, e precisamente nel 1949, pubblicherà “Il secondo sesso”. Il testo propone a chi legge un lungo excursus, storico, sociale e politico, nel quale la filosofa analizza la creazione del mito della femminilità e le conseguenze concrete che questa mitologia ha avuto, aveva in quegli anni e, sfortunatamente, tutt’oggi ha sulla vita delle donne.

Donna non si nasce, lo si diventa

Da “Il secondo sesso” è tratta questa frase, ancora oggi famosissima e spesso fraintesa, che si riferisce proprio all’identità femminile la cui costruzione non è mai stata appannaggio esclusivo delle dirette interessate. Secondo De Beauvoir, l’emancipazione del “secondo sesso” poteva avvenire solo e soltanto attraverso l’accesso al lavoro e l’indipendenza economica, ed il conseguente riconoscimento dei diritti civili e politici. Tra i tanti temi, l’incapacità delle donne di riconoscersi come un “noi”, conseguenza della subordinazione economica che le avvicina agli uomini piuttosto che a quante subiscono lo stesso destino, ma anche il rifiuto dell’inferiorità “naturale” della donna e della maternità come suo destino fisiologico.

Da questo momento in poi De Beauvoir si mobiliterà attivamente per le battaglie femministe della seconda ondata e verrà annoverata tra le iniziatrici di questa fase del movimento. Nel 1971 sottoscrive “Il Manifesto delle 343”, pubblicato sulla rivista Nouvel Observateur, nel quale 343 donne dichiaravano di aver abortito, esponendosi alle conseguenze penali, visto che in quegli anni la pratica era ancora illegale, e rivendicando il loro diritto a farlo. Non mancarono le durissime critiche e, a partire da una vignetta della rivista Charlie Hebdo, il documento fu soprannominato “Il Manifesto delle puttane”. Nonostante tutto, “Il Manifesto” rimane comunque tra i contributi che in maniera significativa portarono all’approvazione della “legge Veil“: nel gennaio del 1975 la Francia riconosceva alle donne il diritto di abortire. Nel 1977 fonda la rivista Questions féministes, insieme a Christine Delphy, Colette Capitan, Colette Guillaumin, Emmanuèle de Lesseps, Nicole-Claude Mathieu, Monique Plaza e successivamente anche Monique Wittig.

Nel 1980 muore Jean Paul Sartre, De Beauvoir commenterà così la dipartita del compagno di vita:

La sua morte ci separa. La mia morte non ci riunirà.
È così; è già bello che le nostre vite abbiano potuto essere in sintonia così a lungo”

Lei lo seguirà sei anni dopo, il 14 aprile 1986, e oggi i due riposano, l’una accanto all’altro, nel cimitero di Montparnasse.

Il contributo di De Beauvoir continua ad essere d’ispirazione per il mondo della filosofia e per le donne, femministe e non, di ogni epoca e paese.
La sua figura resta una delle più importanti e affascinanti del ‘900.

Eleonora Panseri

Fonti:
Carlotta Cossutta, “Profilo di Simone De Beauvoir“, APhEx 17, 2018 (ed. Vera Tripodi).

Le profonde radici della misoginia

Da Eva che mangia il frutto proibito, Pandora che apre il vaso con tutti i mali del mondo, fino allo stoicismo nemico dei piaceri (quindi delle donne): la lista delle persecuzioni a danno del genere femminile è parecchio nutrita. «Nessun gruppo al mondo è mai stato attaccato così a lungo e in maniera così feroce», parola di Guy Betchel, storico francese che prima espone dettagliatamente la demonizzazione della donna che precede l’epoca dei roghi, salvo poi affermare che d’altronde si bruciavano vivi anche gli uomini. Giungendo alla conclusione che no, la caccia alle streghe non è una manifestazione di misoginia.

La giornalista svizzera Mona Chollet, nel suo “Streghe. Storie di donne indomabili dai roghi medioevali al #MeToo”, rivela invece tutto il contrario: «La strega incarna la donna libera da ogni dominio, da ogni limitazione; è un ideale cui tendere, e ci indica il cammino». In questa frase c’è tutto ciò contro cui combattono le donne da sempre. Il dominio maschile, che pretende di controllare tutti gli aspetti della realtà. E le limitazioni, conseguenza della minaccia all’ordine precostituito dal maschio. Tra le oppressioni più cruente troviamo proprio la caccia alle streghe.

Iniziata in Europa tra il XVI e il XVII secolo ad opera dei tribunali civili, ha dato vita a strampalati quanto agghiaccianti processi. I patti con il diavolo costituivano l’accusa più comune e della quale era praticamente impossibile dimostrare il contrario. Così facendo, l’85 per cento delle sentenze erano di condanna, a morte ovviamente. Dopo giorni di torture, il rogo arrivava quasi come una liberazione.

Ma se parlare di streghe nel 2021 può sembrare anacronistico, Chollet spiega come il loro martirio abbia influito sulla visione del mondo che abbiamo ancora oggi.

Tra le accusate di stregoneria troviamo principalmente nubili e vedove, quindi donne considerate pericolose in quanto non più subordinate ad un uomo. Nessuna differenza con lo stigma associato alla donna single.

Per non parlare della criminalizzazione dell’aborto e della contraccezione. Proprio le streghe venivano etichettate come “antimadri” e accusate di cibarsi di bambini durante i loro riti malefici.

«La vecchiaia delle donne resta, in un modo o nell’altro, brutta, vergognosa, minacciosa, diabolica», prosegue Chollet. Per le donne anche invecchiare è una colpa: il prototipo della strega infatti è anziana, ricurva su se stessa, dalle mani nodose e deformi. Per evitare questo impietoso destino, i trattamenti anti-età offerti dal mercato sono infiniti, per non parlare del business che ruota intorno alla chirurgia estetica. Invece gli uomini invecchiando migliorano, e se stanno con una ragazza molto più giovane tanto meglio…

Si arriva fino alle illustri streghe che hanno avuto l’ardire di entrare in politica: prima Margaret Thatcher, alla cui morte non si è persa occasione per intonare “Ding dong, the witch is dead!” del Mago di Oz, poi Hillary Clinton, che durante la campagna elettorale del 2016 è stata spesso paragonata a un’arpia.

«La forza degli stereotipi e dei pregiudizi può avere in sé qualcosa di profondamente demoralizzante; ma è anche una possibilità per tracciare nuovi percorsi. È un’occasione per assaporare le gioie dell’insolenza, dell’avventura e della scoperta», in queste parole di Chollet un’esortazione da cogliere al volo, ancora meglio se a cavallo di una scopa.

Chiara Barison