A partire dal 15 agosto la Scozia è diventata il primo paese al mondo a fornire gratuitamente alle donne assorbenti e prodotti per il ciclo mestruale. Alcuni giorni fa infatti è entrata in vigore una legge, il PeriodProductsAct, presentata nel 2019 dalla parlamentare Monica Lennon e approvata nel novembre 2020 per combattere la “povertà mestruale” (in inglese period poverty).
Secondo i numeri, in Scozia una donna spende fino a otto sterline al mese in assorbenti e prodotti vari per il ciclo. Per questo, per permettere a ragazze e donne in stato di indigenza di poter avere gli assorbenti quando hanno le mestruazioni, questi prodotti verranno distribuiti gratuitamente in strutture pubbliche come farmacie o centri di aggregazione giovanili, così come scuole e università.
Varando questo provvedimento la Scozia diventa il primo paese al mondo a introdurre una misura del genere per le donne. Anche se, come scrive Monica Lennon su Twitter, nella comunità scozzese già c’era una particolare attenzione al tema e i prodotti mestruali venivano distribuiti anche prima della legge entrata in vigore il 15 agosto.
🩸Women, girls and people who menstruate should never face the indignity of period poverty.
🏴Proud that we are making period dignity for all a reality.
✅Free period products have been widely available in communities ahead of the Act taking full legal effect tomorrow. https://t.co/8Kx3o543cZ
Il tema del costo dei prodotti mestruali viene discusso da tempo e di recente diversi Stati hanno iniziato a muoversi: la Nuova Zelanda, per esempio, distribuisce gratuitamente i prodotti mestruali alle studentesse, mentre in Canada e Regno Unito è stata eliminata l’Iva sugli assorbenti. Anche l’Italia, con l’ultima legge di bilancio, ha ridotto l’imposta sui prodotti mestruali dal 22 al 10 per cento. Ma resta ancora tra i Paesi fanalino di coda nel contrasto alla povertà mestruale.
Papa Francesco ha nominato tre donne al Dicastero per i vescovi: sono suor Raffaella Petrini, suor Yvonne Reungoat e Maria Lia Zervino.
Il Dicastero per i vescovi è l’organo vaticano che si occupa del processo di selezione dei pastori che andranno a guidare le diocesi, proponendo al Pontefice per ogni sede una terna di candidati (che il Papa è però libero di rifiutare).
Suor RaffaellaPetrini è dal 2021 la segretaria generale (e quindi numero due) del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, l’organo di potere esecutivo della città-stato. Suor YvonneReungoat è stata superiora generale delle Figlie di Maria Ausiliatrice, mentre MariaLiaZervino è presidente dell’Unione Mondiale delle Organizzazioni Femminili Cattoliche. La loro nomina fra i membri, fino ad oggi tutti uomini, del Dicastero guidato dal cardinale Marc Ouellet era stata anticipata dal Pontefice nel corso di un’intervista alla Reuters.
La presenza di donne in Vaticano
«Io sono aperto che si dia l’occasione», ha affermato il Papa rispondendo a una domanda del giornalista Philip Pullella sulla presenza femminile in Vaticano. «Oggi il Governatorato ha una vice governatrice», ha aggiunto, facendo riferimento proprio a suor Petrini. «Adesso, nella Congregazione dei Vescovi, nella commissione per eleggere i vescovi, andranno due donne per la prima volta. Un po’ si apre in questo modo».
Negli ultimi anni, Bergoglio ha nominato diverse donne in ruoli di governo e responsabilità, che spesso in precedenza erano stati ricoperti solo da uomini. Oltre a Petrini, anche altre religiose occupano posti importanti in dicasteri vaticani: l’economista suor AlessandraSmerilli è segretaria, e quindi numero due, del Dicastero per lo sviluppo umano integrale, mentre suor CarmenRosNortes è sottosegretaria al Dicastero per i religiosi. E la francese suor NathalieBecquart è sottosegretaria del Sinodo dei vescovi: un ruolo che da regolamento la porterebbe ad essere la prima donna a poter votare sul documento conclusivo del Sinodo, l’assemblea che raduna vescovi da tutto il mondo ogni tre anni per discutere di questioni importanti per la vita della Chiesa universale.
Durante il pontificato di Francesco è anche aumentata la presenza di donnelaiche all’interno delle istituzioni vaticane: ci sono ad esempio FrancescaDiGiovanni, sottosegretaria per il Settore multilaterale della Sezione per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato e le Organizzazioni Internazionali o le sottosegretarie al Dicastero per i laici, famiglia e vita LindaGhisoni e GabriellaGambino. Ma anche la direttrice dei Musei Vaticani BarbaraJatta, la professoressa EmilceCuda che è segretaria della Pontificia commissione per l’America Latina, la direttrice della Direzione teologico-pastorale del Dicastero per la comunicazione NatašaGovekar e CristianeMurray, vicedirettrice della Sala Stampa della Santa Sede.
Praedicate Evangelium e il ruolo delle donne
Dal 5 giugno è in vigore la nuovaCostituzione apostolica sulla Curia romana PraedicateEvangelium, punto di arrivo del lavoro di riforma degli organismi della Santa Sede. Uno dei principi fondamentali contenuti in PraedicateEvangelium è il coinvolgimento anche di laici e laiche nei ruoli di governo della Curia romana. Rispondendo su questo punto specifico a una domanda di Pullella, il Papa ha sottolineato che in futuro come prefetti di alcuni dicasteri (che di solito sono guidati da cardinali) potrebbero essere nominati uomini o donne laiche e ha fatto come esempi quello del Dicastero per i laici, famiglia e vita o quello per la cultura e l’educazione.
Le reazioni delle donne cattoliche
«È una cosa importante e ne sono felice», è stato il commento della teologa e femminista americana NataliaImperatori-Lee sulla futura nomina al Dicastero dei vescovi. «Ma – ha aggiunto – rimane scoraggiante la sensazione di dover celebrare il minimo cenno alla nostra partecipazione paritaria in questa chiesa. Due donne. Due». (Nell’intervista a Reuters il Papa aveva parlato di due donne e non tre, ndr).
Sul fronteitaliano, l’associazione Donne per la chiesa ha accolto la notizia in maniera meno calorosa: «Non sono le nomine di singole donne a scardinare un sistema clericale maschile».
Francesco si è più volte detto contrario alla possibilità di ammettere le donne al sacerdozio. Nel 2020 il Papa ha costituito una seconda commissione di studio sul diaconato femminile: i lavori di una primacommissione, incaricata di studiare le forme in cui le donne ricoprivano questo ministero oggi riservato agli uomini nella Chiesa primitiva, avevano secondo il Pontefice portato a un “risultatoparziale”. Mentre nel 2021, Francesco ha aperto le porte dei ministeri laicali – dunque non parte dell’Ordine sacro, come è invece il diaconato – del lettorato e dell’accolitato.
Dopo la revoca del diritto all’aborto negli Stati Uniti, le morti legate alle gravidanze sono sicuramente destinate ad aumentare, specialmente tra le persone appartenenti alle minoranze, secondo gli esperti, che raccomandano azioni urgenti per proteggere i diritti riproduttivi e la salute delle pazienti nel Paese.
Come riportato dal Guardian, che ha intervistato Rachel Hardeman, professoressa di salute riproduttiva egualitaria e ricercatrice alla University of Minnesota School of Public Health, ci saranno molte più persone che verranno costrette a portare a termine una gravidanza, e questo significa che aumenterà anche il numero di quelle a rischio. “Più gravidanze significano anche più mortimaterne“, ha osservato la professoressa.
I divietistatali che verranno approvati nelle prossime settimane faranno registrare un aumento di 75.000 parti all’anno. E questi avranno effetto in maniera sproporzionata soprattutto sulle persone più giovani, più povere, su quante hanno già dei figli e sulle donne appartenenti a minoranze.
Ma gli StatiUniti è un paese dove è estremamente difficile essere una donna incinta, con il più alto tasso di mortalità tra i Paesi sviluppati, che negli ultimi anni è anche rapidamente aumentato. Per ogni 100.000 nascite, quasi 24 persone sono morte a causa della gravidanza o per altre complicanze legate al parto nel 2020, per un totale di 861 donne, secondo il US Centres for Disease Control and Prevention (CDC).
A seguito della decisione della Corte Suprema di ribaltare la “Roe v. Wade“, c’è anche chi, come l’ex vicepresidente USA Mike Pence, un divieto a livello nazionale, ma questo determinerebbe un aumento del 21% della mortalità legata alle gravidanze in tutto il Paese, ma sarebbe ancora peggiore per le donne nere, indigene e latine: il dato che le riguarda salirebbe al 33%, secondo uno studio condotto dall’University of Colorado Boulder.
Secondo la professoressa Hardeman, infatti, “il fatto che le donne delle comunità nere, indigene e latine saranno maggiormente colpite dal mancato accesso all’aborto farà crescere ancora di più il gap razziale nella mortalità materna che già esiste negli Stati Uniti”. Le personeincinte appartenenti alle minoranze sono state a lungo marginalizzate e trascurate dal sistema sanitario, e hanno spesso sperimentato razzismo e discriminazione a tutti i livelli.
Gli stati che hanno vietato o applicato restrizioni registrano alcuni dei più alti tassi di mortalità legati a gravidanza e parto, così come i più alti tassi di mortalitàinfantile. Il Mississippi, per esempio, dove ha avuto origine il caso Roe versus Wade, ha un tasso di mortalità materna due volte superiore a quello del resto del Paese e il più alto tasso di mortalità infantile.
E mentre la metà del Paese è in procinto di vietare l’aborto, altri Stati e città hanno lavorato per garantire questo diritto, anche alle pazienti non residenti. Ma restano comunque limitazioni importanti per raggiungere questi luoghi sicuri. Molte persone delle comunità marginalizzate che devono ogni giorno affrontare barriere sistemiche per avere accesso al sistema sanitario potrebbero non avere gli strumenti, le risorse, il denaro e il tempo per poter abbandonare il lavoro o la cura di casa e figli per viaggiare in un altro Stato e ricevere le cure di cui avrebbe bisogno.
Articolo originariamente pubblicato su theguardian.com Traduzione di Eleonora Panseri
Da alcune ore continuo a ricevere mail da parte di associazionipro-choice e pro-abortostatunitensi che chiedono aiuto. È un’enorme macchina, quella che le attiviste del Paese in poche ore hanno messo in moto, ma già mesi fa stavano pensando a come organizzarsi nel caso in cui la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America avesse deciso di ribaltare la “Roe v. Wade“, la sentenza del 1973 che quasi 50 anni fa aveva riconosciuto l’aborto come dirittofederale, basandosi su un’interpretazione del XIV emendamento della Costituzione. Non solo a maggio, quando era stata diffusa la bozza di sentenza, ma anche in momenti precedenti le attiviste avevano pensato a tutte le possibili soluzioni che contenessero i danni di questa catastrofegiuridica.
Negli scorsi mesi, una sentenza così sembrava un’eventualità, seppur terribile, che ancora si poteva evitare. Oggi, purtroppo, è divenuta una tristerealtà. Da questo momento ai singoli Stati spetterà legiferare in materia di aborto e molti di questi, mesi fa, hanno approvato le tristemente note “triggerlaws“, ovvero leggi che sarebbero entrate in vigore soltanto se la Corte avesse deciso come poi ha effettivamente fatto. Leggi che ostacoleranno in tutti i modi chi avrà la necessità di interrompere una gravidanza e che criminalizzeranno l’aborto, facendo rischiare a chi cercherà di aiutare queste donne multe e anni di prigione. Tra quelli che già erano pronti a negare questo diritto e quelli che lo faranno a breve dovrebbero essere circa 25 su 50 gli Stati, quasi tutti a trazionerepubblicana, che renderanno l’aborto illegale. In alcuni, abortire diventerà impossibile anche in caso di stupro o incesto.
Molti governatori dei restanti 25, soprattutto democratici, hanno già fatto sapere che si muoveranno per tutelare ulteriormente il diritto all’aborto nelle loro giurisdizioni. Ma la decisione della Corte Suprema penalizzerà inevitabilmente, anche se non esclusivamente, le donne che risiedono negli Stati dove sarà illegale interrompere una gravidanza, soprattutto quelle che non hanno le possibilitàeconomiche per recarsi laddove invece i loro diritti verrebbero rispettati. Il rischio che dilaghino gli abortiillegali c’è, questa potrebbe essere l’alba di unastrage perché, come mi ha detto un’attivista statunitense che ho intervistato qualche tempo fa, “chi avrà bisogno di abortire, non smetterà mai di cercare un modo per farlo”. La depenalizzazione dell’interruzione di gravidanza, al contrario, garantisce non solo il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione delle donne, ma anche del rispettodellalorosaluteriproduttiva.
Dagli anni ’70 a oggi la vita di molte donne è cambiata, possiamo dire in meglio. Ci sono tante, troppe cose che ancora non vanno, dobbiamo però riconoscere che alcuni traguardi sono stati raggiunti. Ma la grande lezione che abbiamo da imparare dalla sentenza “Dobbs v. Jackson” è che purtroppo non possiamo e non dobbiamo darli per scontati. Non possiamo e non dobbiamo dimenticare che prima di noi qualcun* ha lottato, e in alcuni casi è anche mort*, per consentirci oggi di fare cose che per queste persone erano impensabili, immorali o illegali. Non possiamo e non dobbiamo dimenticare che in molte parti del mondo c’è ancora chi combatte per andare a scuola e lavorare o per non doversi coprire integralmente, come sta succedendo alle nostresorelleinAfghanistan, che il mondo sembra aver dimenticato. Non possiamo e non dobbiamo dimenticare che ci sarà sempre qualcuno che vorrà negarci dei diritti, perché una societàpatriarcale si nutre di violenza, di esclusione, di prevaricazione, di ingiustizia e prospera solo in presenza di queste.
Credo fermamente nella possibilità di ogni individuo di autodeterminarsi: di cambiareidea, di trovare una soluzione a eventuali errori commessi, di non dover subire quelli fatti da altri. Dobbiamo lasciare alle persone il dirittodi scegliere, a patto che questo non leda il resto della comunità. Io non so se mai abortirò e probabilmente avrei la risposta solo trovandomi nella condizione di doverlo fare o meno. Ma a oggi non posso pensare che una democrazia costringa un individuo vivente a dover compiere un passo, quello della maternità, che per tante ragioni non è pronto o non vuole fare. Non posso pensare che uno Stato intenda tutelare una potenziale vita, distruggendone milioni di altre.
Ho letto diversi tweet in queste settimane sull’argomento “donneemolestie”. Come sempre ci sono quelli che attaccano le femministe, sostenendo che non diano lo stesso peso alle molestie degli Alpini rispetto a quelle degli “immigrati” sul treno a Riva del Garda. In particolare, mi hanno scossa due tweet che cito:
1. “Se continuiamo con questa narrazione che prevede che tutto sia molestia, arriveremo al punto che gli uomini avranno paura anche a prendere un ascensore da soli con una donna”; 2. “Arriveremo al punto che le donne dovranno supplicare gli uomini per essere considerate sessualmente, perché i maschi giustamente ci penseranno due volte”.
Purtroppo, non è facile spiegare la delicatezza e il rispetto che una donna vorrebbe dal momento in cui un uomo decide di approcciarla. Non mi stancherò mai di ripetere che non si tratta della questione in sé ma del modo in cui vengono proposte le attenzioni.
Tempo fa ero con un ragazzo (a me molto caro e vicino), un ragazzo rispettoso, e un suo amico, che chiameremo Super Mario. Davanti a noi passarono un gruppo di ragazze, con degli abitiniestivi, e Super Mario, con un tono poco consono a voce alta si rivolge a loro con un: “Gonna corta, cortissima!”. Una delle ragazze lo sente, lo ignora, ma si abbassa comunque la gonna. Di quella serata mi è rimasta solo la sensazione di impotenza per non aver reagito, per paura di sembrare pesante, quando invece sarebbe stato corretto il mio intervento. E, soprattutto, nell’immagine della ragazza che ha dovuto tirare giù la gonna per il commento di un idiota.
Mi rivolgo specialmente alle figuremaschili, se mai leggeranno questa riflessione. Vedo sempre qualche “like” sporadico su vari canali social come sostegno all’indignazione di queste continue molestie che le donne ricevono, ma mai più di questo. Nessun tipo di condivisione o parerepersonale postato sui propri social, come invece spesso accade quando condividono altre notizie (attualità, sport, moda, viaggi e meme).
Mi viene naturale quindi domandarmi come mai una figura maschile, con una sua opinione ben precisa sull’argomento, non senta la necessità di dar voce a quello che succede, nonostante appoggi la causa. Ora che ci penso, conto sulle dita di una mano il numero di figure maschili che, nel proprio piccolo, cercano di condannare la condizione precaria delle donne nel mondo. Per esempio, sui salari, l‘Iva sugli assorbenti, il diritto ad abortire, la violenzaverbaleefisica. Non parliamo di sostenere le femministe (se considerate estremiste), ma giustecause per cui stiamo lottando da anni.
Alla fine siete tutti fidanzati, amici, fratelli, cugini di qualche soggetto femminile che avete a cuore, quindi perché una qualsiasi altra notizia sì, e qualcosa per il “loro” bene, che poi sarebbe il bene di una societàpiùmoderna, che offre pariopportunità, no? Cosa vi porta a pensare che una notizia sia più importante di un’altra? E’ bellissimo quando le donne si fanno portavoce dei loro diritti, della loro intraprendenza e intelligenza. Del loro lato più sicuro e sfacciato. Aggiungo, però, che è sublime quando a farlo è un uomo. Abbiamo la necessità di avere al nostro fianco chi ci aiuti ad avere un futuro alla pari come compagne di vita, per davvero. Imparare a condividere e a correggere il necessario, perché è necessario.
Ai tweet che ho letto sulla crocifissione degli alpini e il placido dissenso nei confronti delle molestie da parte di uomini (non di immigrati, perché in questo caso solo di uomini si tratta) sul Garda rispondo che non esistono molestie di tipo A o di tipo Z. Non esistono molestie più gravi e meno gravi perché esiste solamente il trauma che lasciano dentro ciascuna vittima, perché di traumi e vittime parliamo, non esistono i mezzi termini. Ho lavorato in un luogo squallido in cui le ragazze venivano chiamate solo con nomignoli e vezzeggiativi: “amore, tesoro, stellina, zucchero, bambolina”. Mi sono sfogata su questo fatto e nessuno ha capito quanto mi facesse male, quanto è brutto essere demolite e sentirsi piccole tanto da non avere un nome.
“Ma lasciali stare, che schifo, lascia questo posto”, nessuno che avesse capito che la reale domanda da pormi era: ma tu come stai? Perché sono stata male, stiamo male, ognuna di noi ha i propri confini. Tutte le altre persone, di qualsiasi sesso, dovrebbero imparare a non superarli perché chiediamo rispetto, non facciamo la morale. Ognuno dovrebbe sapere quando sta superando il limite, quando si prendono spazi e libertà che non gli appartengono.
Non parliamo di messaggi sui social o un singolo fischio di qualche soggetto. Di cosa sto parlando lo sappiamo davvero tutt* anche quell* a cui non è mai capitato di essere vittima o carnefice. E siamo ancora qui a filosofeggiare sui “cambia lavoro, bloccalo sui social, rispondigli la prossima volta, se cammini da sola ti faccio compagnia al telefono”. Mentre continua la lotta tra le donne che pensano: “ il catcalling è bello” e quelle che invece lo condannano come gesto. Un palcoscenico di discussioni sterili dove un uomo medio ci osserva senza prendere una realeposizione e si gode la scena come fossimo nude sotto la doccia. Cosa ci scanniamo, ancora, tra donne? Smettiamola di dire cosa è molestia e cosa non lo è, lasciamoci il diritto di scegliere cosa per un soggetto sia molestia e cosa non lo sia, di non aver sbagliato a non denunciare subito uno stupro, di aver avuto paura a opporsi, il diritto di star male per aver subito molestie.
Dobbiamo ripartire dalla base, quindi capire prima di tutto che siamo differenti, siamo quello che siamo. Perché se non lo capiamo tra di noi, se non ci appoggiamo e non ci prendiamo i nostri diritti non lo farà mai nessuno: siamosole. E allora, sì, mi sta bene che attrici dopo anni dichiarino di aver subito molestie, di non averlo detto subito e di aver aspettato di avere una fama a proteggerle, se questo può aiutare chi ha subito a sentirsi meno sola. Soprattutto a continuare a lottare insieme per la libertà di essere donne.
D’ora in avanti i figli porteranno entrambi i cognomi dei genitori (a meno che siano gli stessi, di comune accordo, a decidere il contrario). Lo ha deciso il 27 aprile la CorteCostituzionale con una sentenza storica, dove si legge che la regola che attribuisce automaticamente il cognome del padre è “discriminatoria e lesiva dell’identità del figlio”.
Più nello specifico, la Corte si è pronunciata sulla norma che non consentiva ai genitori, di comune accordo, di attribuire al figlio il solocognomedellamadre e su quella che, in mancanza di accordo, imponeva il solo cognome del padre, anziché quello di entrambi i genitori.
L’Ufficio comunicazione e stampa della Consulta ha fatto sapere, in attesa del deposito della sentenza, che le norme censurate sono state dichiarate illegittime per contrasto con gli articoli 2, 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli articoli 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
A portare la questione davanti alla Consulta sono stati due avvocati, DomenicoPittella e GiampaoloBrienza. “La storia parte da lontano”, ha spiegato Pittella a Skytg14. “La coppia (protagonista del caso, ndr), ancora non sposata, ha due figli riconosciuti solo successivamente dal padre e che quindi portano il solo cognome della madre. Dopo alcuni anni i due decidono di sposarsi, il papà riconosce i figli ma la coppia chiede di non aggiungere ai ragazzi, oramai cresciuti, il cognome del padre”. La situazione si fa problematica con l’arrivo del terzo figlio: “I genitori chiedono, per un principio di armonia e omogeneità, di poter dare il solo cognome materno”, prosegue Pittella, “una richiesta fino ad oggi non consentita dalla legge“.
I due però non si sono dati per vinti e, grazie alla loro determinazione, si è arrivati alla decisione della Consulta. “Una grandesoddisfazione. La coppia che ha intrapreso questo complesso e faticoso iter giudiziario mi ha chiamato poco fa: sono commossi e consapevoli di avere scritto una paginastorica, loro ci hanno sempre creduto”, ha detto Pittella all’ANSA, dopo aver appreso la notizia.
La decisione, che ha ricevuto il plauso della classe politica e della società civile, arriva però inritardo rispetto a quasi tutti gli altri Paesi europei. Le leggi degli altri Stati, infatti, in forme diverse, riconoscono la libertà ai genitori di attribuire ai propri figli il cognomepaterno, materno o quello di entrambi.
In Francia e in Belgio, ad esempio, senza un accordo tra i genitori, si assegnano entrambi i cognomi in ordine alfabetico, mentre in Portogallo i genitori sono liberi di scegliere quale e quanti cognomi mettere, fino a un massimo di quattro. Nel RegnoUnito, un caso curioso, i genitori possono attribuire anche un cognome diverso dai propri. Ma il caso più virtuoso è sicuramente quello della Spagna, dove esiste l’obbligatorietà nell’attribuzione di entrambi i cognomi. I genitori sono liberi soltanto di scegliere in quale ordine vadano posti.
È passata ormai qualche settimana dalla 94esima edizione degli Oscar e dopo il susseguirsi di commenti a caldo sui vincitori e le polemiche a seguito dell’accaduto durante la serata, cosa ci rimane di questi Academy Awards 2022?
Una serata all’insegna del lusso, dello sfarzo e del politicamentecorretto, una patina che ha reso questa edizione estemporanea, dato il momento storico che stiamo vivendo – neanche un cenno agli avvenimenti in Ucraina, se non per qualche sporadica spilla azzurro-gialla appuntata su qualche bavero della giacca, per non parlare della totaleassenza di mascherina (è proprio vero: il Covid, come dicono in molti, è finito, malgrado la risalita di contagi e la scoperta di nuovevarianti).
Ma veniamo al dunque, ciò che ha fatto più discutere in queste settimane: Will Smith, in lizza per il premio Best Actor in a Leading Role, sale sul palco e di fronte a una platea a metà tra il divertito e lo sbigottito dà uno schiaffo all’attore comicoChrisRock, dopo che quest’ultimo ha fatto una battuta sull’aspetto fisico della moglie di Smith, Pinkett Smith, paragonandola alla protagonista di GI Jane (per chi non avesse visto il film, la protagonista interpretata da Demi Moore si rasa i capelli). Aspetto fisico che a dire di Chris Rock dovrebbe essere similare a quello di Pinkett Smith, affetta da alopecia.
In molti si sono schierati a favore del gesto di Smith, definendolo “obbligato” per difendere la moglie dal commento offensivo di Rock. Smith stesso durante il discorso di ringraziamento, dopo aver ritirato il premio per miglior attore, si scusa dicendo: “Love makes you do crazy things”. L’amore fa fare pazzie, appunto. Ma è forse proprio questo il punto? Si può considerare un atto di violenza come un dettato dall’amore, per l’amore? Molte parole sono state spese in suo favore. Secondo molti stava semplicemente difendendo la moglie e, in fondo, Chris Rock se l’è meritato. Ma è proprio così? Lo schiaffo che è stato dato non è forse, invece, espressione di una cultura patriarcale e machista?
Innanzitutto, il gesto di Smith è simbolo di come ancora oggi la violenza sia strettamente correlata al concetto di uomo e di essere uomo: un uomo deve essere forte, fisicamente e non solo a parole, per sapersi e saper difendere. Che cosa? Il proprio onore, l’onore della propria moglie e della propria famiglia – sì, suona proprio come un detto di altri tempi, eppure eccoci qui a parlarne. Come se Pinkett Smith non fosse perfettamente in grado di sapersi difendere dalle paroleignorantieottuse di un altro uomo, che pensa di poter fare della sua condizione – e di tante altre persone – oggetto di ridicolo. Pinkett Smith è stata così privata della possibilità di difendersi e di esprimere sé stessa in una situazione che la riguardava direttamente. Non solo, nella propria dimostrazione di mascolinità tossica, Smith si è totalmente dimenticato di voltarsi verso sua moglie e chiederle come stesse in quel momento. Una totale mancanza di empatia verso una persona che viene derisa per la propria condizione fisica, e che si suppone sia da te amata e rispettata.
A questo, possiamo aggiungere la correlazione tra atto violento e amore: lo schiaffo come dimostrazione dell’amore che Smith prova per la moglie. Una giustificazione che troppo spesso ormai sentiamo e vediamo quasi ogni giorno sui titoli di giornali e telegiornali. Un uomo che pazzo d’amore agisce in modo violento. Giustificarelo schiaffo a Chris Rock come una pazzia dettata dall’amore non fa altro che avvallare una cultura patriarcale e machista, dove si giustifica la violenza – per fortuna questa volta non nei confronti di una donna, ma scusanti di questo tipo utilizzate nei titoli di giornali e nei commenti di molti che la pensano così se ne potrebbero elencare a bizzeffe.
Soffermiamoci, però, anche sulla battuta “comica” di Chris Rock: paragonare Pinkett Smith, affetta da alopecia, alla protagonista di GI Jane non è altro che la dimostrazione di come, ancora, la nostra società sia fortemente condizionata dal patriarcato. Una persona che per fare della comicità deride pubblicamente la condizione fisica – ma potrebbe anche essere la razza, la condizionesociale, l’orientamento sessuale, e via dicendo – di un’altra, sminuendola di fronte ad altri e sottolineando la condizione di “diversità” rispetto alla massa. Non è forse la cara e vecchia retorica del “prendersela con il più debole”?
Cosa ci rimane, quindi, di questi Academy Awards? Un senso di amaro in bocca e il pensiero che molto ci sia ancora da fare. Specialmente in un mondo, quello del cinema e dello spettacolo, dove sono ancora gli uomini a farla da padrone. Basta considerare che, escluse le categorie per cui sono nominati solo gli uomini (ad esempio miglior attore), le donne rappresentano in media il 14% delle nomination in tutte le altre categorie aperte a entrambi i sessi. Un altro esempio: il premio per miglior regista, il più prestigioso, quest’anno è andato a Jane Campion per Il potere del cane, una “mosca bianca” se consideriamo che la categoria è aperta ad entrambi i sessi e dal 1929 ad oggi, delle 449 nomination per miglior regista, solo due premi sono stati consegnati a delle donne – Kathryn Bigelow nel 2010 per il film The Hurt Locker e Chloé Zhao nel 2021 per il film Nomadland. Nella storia degli Academy Awards solo altre quattrodonne sono state nominate per questa categoria: Lina Wertmüller, la prima donna ad essere nominata a miglior regista nel 1977 per SevenBeauties; Sofia Coppola per Lost in Translation; Greta Gerwig per Lady Bird e Emerald Fennell con Promising Young Woman chiudono la (più che) breve lista. Ancora più evidente è la differenza di genere se consideriamo la categoria Miglior fotografia, dove l’unica donna ad essere mai stata nominata è stata Rachel Morrison nel 2018 per il suo lavoro su Mudbound.
Disparità di genere che non è limitata solo al cinema d’oltreoceano, ma anzi, è ben presente anche nel Vecchio Continente: un recente studio attesta che nel settore audiovisivo europeo la percentuale di donne registe si attesta solo al 23%. Tra il 2016 e il 2020 la percentuale di donne direttrici della fotografia è al 10%, mentre quella delle compositrici solo al 9%, afferma l’Osservatorio audiovisivo europeo. Nello stesso periodo, solo il 33% di donne è tra i produttori e un 17% tra gli sceneggiatori. Dati che uniti alle considerazioni fatte in precedenza, fanno pensare a come il mondo dell’audiovisivo sia pervaso da una cultura fortemente improntata al patriarcato – come dimenticare anche il caso HarveyWeinstein – e dove la disparità di genere è all’ordine del giorno.
Verrebbe da domandarsi: cosa sarebbe successo se a fare la battuta comica fosse stata una donna riferendosi a un uomo?. Ne sarebbe scaturito uno schiaffo? Probabilmente no, forse non saremmo qui a parlarne. La strada da percorrere è sicuramente lunga, per ora possiamo perlomeno fare i complimenti a Jane Campion.
Il 7 aprile 2022 la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ha condannato l’Italia per non aver protetto Annalisa Landi e i suoi due bambini dalle violenzedomestiche subite dal compagno, poi condannato a 20 anni di carcere, anche per l’omicidio di uno dei figli. Le autoritàitaliane, “con la loro inazione”, avrebbero infatti permesso all’uomo di agire indisturbato, nonostante il “grave rischio di maltrattamenti”.
Di indizi, per la Corte, ce ne erano fin troppi. Niccolò Patriarchi soffriva di un disturbo bipolare caratterizzato da comportamentiviolenti. In passato, gli era già stato disposto il divietodiavvicinamento verso l’ex partner. E negli attacchi tra novembre 2015 e settembre 2018, tre prima dell’ultimo, quello dell’uccisione del figlio, era sempre intervenuta la polizia di Scarperia (Firenze). Landi aveva anche esposto una serie di denunce, poi ritirate, nei confronti dell’uomo, su cui le autorità stavano indagando per violenze domestiche.
Secondo la CEDU, l’Italia avrebbe violato l’articolo 2 della Convenzione Europea dei Diritti umani, che prevede il diritto alla vita. Come riporta la sentenza, “le autorità nazionali hanno fallito nel compito di condurre una valutazione immediata e proattiva del rischio di reiterazione degli atti violenti commessi” e “nell’adottare misurepreventive”. Per la Corte inoltre non avrebbero reagito “né immediatamente, come richiesto per i casi di violenza domestica, né in qualsiasi altro momento”. Per questo, l’Italia dovrà risarcire Landi di 32milaeuro.
Un’altra Giornata internazionale dei diritti delle donne è passata e come ogni anno necessita forse di qualche momento di riflessione. Purtroppo, anche l’8 marzo2022 è stato viziato dalla solita zuccherosaretorica “rosa”, ormai trita e ritrita. In occasione di questa ricorrenza, così importante per alcun* e così redditizia per altr*, viene profuso un impegno incredibile nel produrre un florilegio di spot, manifesti, iniziative e simili che posizionano le donne su un piedistallo dal quale vengono automaticamente spinte giù nei restanti 364 giorni dell’anno.
Come avviene anche per il 25novembre, Giornatainternazionaleper l’eliminazione della violenza contro le donne (ricordiamo che dall’inizio del 2022 ne sono state uccise 13, l’anno scorso sono state 119), i toni usati prevalentemente sono quelli, da un lato, della “specieprotettadadifendere” (le donne, per esempio, si trasformano in fiori da curare), dall’altro, delle “wonderwoman” invincibili. A queste, e qui cito, “magnifiche creature” viene ricordato il loro ruolo di madri, sorelle, compagne e amiche e ci si chiede: “Che mondo sarebbe senza le donne?“.
Non abbiamo la risposta a questa domanda. Invece sappiamo bene qual è la situazione di un mondo dove le donne esistono. Secondo Eurostat, nel 2021 la retribuzione oraria delle donne europee è stata del 13% inferiore rispetto a quella dei colleghi uomini. E nello stesso anno, come si legge in un articolo de La Stampa, in Italia è stata uccisa una donna ogni 72 ore. Nel 2020 invece, secondo un’indagine condotta da Save the Children su adolescenti tra i 14 e i 18 anni, il 70% delle ragazze intervistate dichiarava di aver subito molestie nei luoghi pubblici e apprezzamenti sessuali e il 64% raccontava di essersi sentita a disagio per commenti o avance da parte di un adulto di riferimento. Nel Rapporto Donne Manageritalia 2020, poi, si legge che le donne in posizione dirigenziale erano, solo due anni fa, il 18,3% del totale, poco meno di 1 su 5. Un dato che, tuttavia, non stupisce se, nello stesso anno, le donne italiane svolgevano 5 ore e 5 minuti di lavoro non retribuito di assistenza e cura al giorno (gli uomini un’ora e 8 minuti), il 74% del totale. Ed è forse anche per questo che il 21% delle donne in età lavorativa dichiarava di non essere disponibile o di non ricercare lavoro attivamente proprio a causa dell’impegno totalizzante che la cura della casa, di bambini e anziani richiede loro.
Di fronte a questo quadro decisamente desolante (meno male che siamo nel XXI secolo, dicono alcuni), celebrare i successidelledonne non è forse così sbagliato, anzi. Farlo regalando la mimosa, poi, è senza dubbio un gesto da apprezzare. Sarebbe però ancora più bello se chi ne fa dono conoscesse anche la storia di questo simbolo. Il fiore venne scelto nel secondo dopoguerra su proposta di TeresaMattei, ex partigiana e dirigente del Partito Comunista Italiano (PCI), in prima linea per tanti anni nella lotta per i dirittidelledonne. Insieme a RitaMontagnana e TeresaNoce, scelse un fiore economico, facile da trovare anche in natura, per permettere a tutte le donne di riceverlo. «La mimosa era il fiore che i partigiani regalavano alle staffette. Mi ricordava la lotta sulle montagne e poteva essere raccolto a mazzi e gratuitamente», raccontò Mattei, morta nel 2013 a 92 anni, in un’intervista. «Quando nel giorno della festa della donna vedo le ragazze con un mazzolino di mimosa penso che tutto il nostro impegno non è stato vano».
È proprio dall’impegno di Mattei e delle donne di tutto il mondo che il Women’sDay nacque molti anni prima rispetto ai fatti raccontati poco sopra.Celebrata per la prima volta negli Stati Uniti del 1909, la Giornatadelladonna fu all’epoca un’occasione per rivendicare il dirittodivotofemminile, che in quegli anni veniva negato, e maggiori tutelesindacali. La società dei consumi l’ha poi trasformata nella festacommerciale che conosciamo oggi ma in molt* è ancora forte la consapevolezza che si tratta invece di una giornatadiriflessione su quanto è stato fatto o che ancora c’è da fare, una giornata che ha un profondo significatopolitico.
Equosalario e riforme per una più giusta divisione tra i due sessi del lavoro di cura, tutela della maternità e, allo stesso tempo, del diritto all’aborto, sono solo alcuni dei temi sui quali anche le società occidentali più “avanzate” devono ancora fare passi avanti. E se pensiamo che nel mondo le donne sono ancora vittimediviolenzefisiche, psicologiche, economiche, è davvero così strano o poco lecito chiedersi a cosa servono i grandi proclami che vengono fatti in queste occasioni?
Le mimose le accettiamo volentieri, ma anche alcuni diritti in più non sarebbero male.
Appassionato ma titubante. Potremmo descrivere così l’atteggiamento delle ragazze italiane nei confronti delle materie scientifiche e tecnologiche. Secondo l’ultima ricerca realizzata da Ipsos per Save the Children, in occasione della Giornata internazionale per le donne e le ragazze nella scienza, il 54% ne è incuriosita, anche se le ritiene “poco adatte“.
L’obiettivo della giornata è quello di incentivare la partecipazione delle ragazze al mondo scientifico, non solo in qualità di beneficiarie, ma anche come agenti di cambiamento per il perseguimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile previsti dall’Agenda 2030 dell’Onu.
Nel 2021 le immatricolazioni universitarie hanno registrato un aumento delle donne iscritte alle facoltà Stem (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica), in particolare in informatica e tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Itc) con un +15,74%. Ma quelle che scelgono corsi scientifici sono il 22% sul totale delle iscritte. Le intervistate da Ipsos pensano di poter dare un contributo concreto, per esempio, nella produzione di energia sostenibile (31%) e la diminuzione delle emissioni inquinanti dei mezzi di trasporto (27%).
Foto Pexels
La direttrice dei programmi Italia-Europa di Save the Children, Raffaela Milano, ha sottolineato come stia crescendo “tra le bambine e le ragazze, in Italia e nel mondo, la consapevolezza del loro valore e del contributo che possono dare in ambito scientifico. L’acquisizione di una piena ‘cittadinanza scientifica’ è considerata oggi da molte come un diritto fondamentale per rispondere alle sfide ambientali e della salute. Tuttavia il divario di genere è molto presente e si radica, sin dai primi cicli di istruzione, negli stereotipi, ancora oggi diffusi, che vorrebbero le ragazze poco portate verso le materie scientifiche e che bloccano sul nascere i loro talenti”.
Il rapporto tra ragazze e mondo della scienza e della tecnologia verrà approfondito venerdì 11 febbraio alle 17 in una diretta sul canale Instagram di Save the Children, alla quale parteciperanno, tra gli altri, Antonella Inverno, Responsabile politiche Infanzia e Adolescenza dell’Organizzazione e l’attrice e testimonial di Save the Children Caterina Guzzanti.
Sarà Daniela Olivieri, in arte Sissi, a realizzare per Milano la statua dedicata a Margherita Hack. A giugno 2022, in occasione del centenario della nascita della celebre astrofisica, sarà installata in Largo Richini, nel giardino che fronteggia l’ingresso dell’Università degli Studi “La Statale”.
Si tratta del secondo monumento che il capoluogo meneghino dedica a una figura femminile: a settembre 2021 è stato inaugurato ufficialmente quello dell’intellettuale Cristina Trivulzio diBelgioioso, attiva patriota durante il Risorgimento. Ma quella dedicata ad Hack sarà la prima a raffigurare una scenziata sul suolo pubblico in Italia.
L’opera si intitola “Sguardo fisico” e rappresenta Margherita Hack intenta a osservare le stelle mentre emerge da un vortice raffigurante una galassia.
Foto ANSA
DanielaOlivieri, che realizzerà il monumento in bronzo, è nata nel 1977 a Bologna, insegna attualmente all’Accademia delle Belle Arti di Firenze ed è vincitrice di diversi riconoscimenti nazionali e internazionale (ricordiamo il Premio Alinovi, il GothamPrize, il New York Prize).
Ad annunciare la decisione il 9 febbraio, sono stati Fondazione Deloitte, Casa degli Artisti e Comune di Milano, i tre enti che qualche mese fa hanno indetto il concorso di idee per scegliere l’artista a cui affidare l’incarico. Al bando avevano aderito 8 artiste italiane e internazionali: insieme con Olivieri, Chiara Camoni, GiuliaCenci, ZhannaKadyrova, Paola Margherita, MarziaMigliora, LilianaMoro e SilviaVendramel.
I testi, i disegni, i rendering e le maquette dei progetti presentati saranno in mostra fino al 20 febbraio nello spazio espositivo di Casa degli Artisti.
«Porto il mio numero con grande onore perché è la vergogna di chi lo ha fatto. Persone odiate per la colpa di essere nate e che non avevano più diritto al loro nome diventano un numero. Il numero serve, in quella numerazione, per sapere quanti pezzi c’erano. Io sono stata un pezzo». In una delle sue ultime apparizioni pubbliche, un’intervista rilasciata a Massimo Gramellini del novembre 2019 (un anno dopo si è ritirata a vita privata), la senatrice della Repubblica italiana Liliana Segre raccontava così l’esperienza dell’Olocausto. Segre, 91 anni, è tra le ultime testimoni sopravvissute agli orrori dei campi di sterminio nazisti: in occasione della Giornata della memoria, ripercorriamo la sua storia.
Un’infanzia felice
Milano, 1930: Liliana Segre nasce il 10 settembre e cresce in corso Magenta 55, dove oggi sono posate le pietre d’inciampo dedicate al padre Alberto e ai nonni paterni, Giuseppe Segre e Olga Lövvy. La madre Lucia muore 25enne di cancro, quando sua figlia ha solo un anno di vita. Quella di Liliana Segre è tuttavia un’infanzia felice: il padre, che perde la moglie giovanissimo, ha solo 31 anni, decide di dedicarsi totalmente alla bambina, la vizia e la ama profondamente. I Segre vivono una vita agiata.
Liliana sperimenta una prima grande sofferenza a 8 anni quando, per le sue origini ebraiche, viene espulsa da scuola: è il 1938 e in Italia entrano in vigore le leggi razziali. «Mi restò per anni la sensazione di essere stata cacciata per aver commesso qualcosa di terribile, che in seguito tradussi dentro di me come “la colpa di essere nata”; perché altre colpe certo non ne avevo: ero una ragazzina come tutte le altre», ha raccontato in diverse occasioni la senatrice.
Il tentativo di fuga in Svizzera e il carcere
L’8 settembre 1943 cade il fascismo, il centro e il sud Italia vengono liberati dagli Alleati. Ma il nord del Paese rimane in mano ai fascisti e ai tedeschi. Alberto Segre capisce il pericolo che corrono gli ebrei e tenta la fuga inSvizzera con Liliana: «La storia di questa fuga grottesca la racconto sempre, quando vado a testimoniare nelle scuole, perché sulle prime mi sentivo un’eroina, sui valichi dietro Varese. Era inverno e attraversavamo i boschi, io e mio papà: passavamo il confine come clandestini, come animali sulle montagne. Eravamo liberi, pieni di speranza. Ma arrivati di là, un ufficiale svizzero tedesco ci trattò come degli imbroglioni, come delle cose orribili che capitavano proprio a lui, e ci respinse, ci consegnò agli italiani, condannandoci a morte».
I due vengono arrestati a Varese, portati nel carcere di Como, infine trasferiti in quello milanese di San Vittore. Restano per 40 giorni nel V raggio, sezione che i fascisti avevano destinato ai detenuti ebrei. Segre, all’epoca 13enne, e suo padre lasciano il carcere e Milano il 30 gennaio 1944, insieme a più di seicento persone, tra cui quaranta bambini. Dal binario 21 della Stazione Centrale inizia «il viaggio verso il nulla durato una settimana» in un vagone sprangato. Il viaggio verso Auschwitz.
Il campo di concentramento e la perdita del padre Alberto
«Ad Auschwitz un passo avanti o indietro poteva cambiare il destino. Sono anziana, ma non sono mai uscita davvero dalla me stessa di allora. E ogni anno che passa, mi chiedo “Ma come ho fatto, ma come ho fatto, ma come ho fatto?”. Potrei andare avanti all’infinito ma non ho la risposta. Uomini di qua, donne di là: quando scendemmo dal treno e ci separammo, mio padre mi disse di restare con una nostra conoscente, la signora Morais. Eppure quando la guardia mi chiese se fossi sola, ebbi l’istinto di dire di sì. Finii in una fila, la signora Morais in un’altra, e andò al gas». Liliana Segre raggiunge il campo di concentramento il 6 febbraio 1944. Arrivano ad Auschwitz 605 persone, ma in poche ore 500 ne vengono uccise con il gas. La ragazza perde in quel momento suo padre Alberto, che non rivedrà mai più: «Mi ha amato e io lo ho amato con tutta me stessa. Resta il grande nodo irrisolto della mia vita. Il dolore più grande del mondo ce lo siamo dati reciprocamente: io per la sua perdita, lui perché quando ha lasciato la mia mano sulla rampa di Auschwitz-Birkenau, non credo pensasse che ce l’avrei mai fatta». La stessa sorte sarebbe toccata nel maggio dello stesso anno anche ai nonni paterni Giuseppe e Olga, arrestati 6 mesi dopo Alberto e Liliana, e ai suoi cugini.
Liliana Segre invece vede la sua vita risparmiata ed è costretta a lavorare in una fabbrica, la “Union”, che produce munizioni, diventa 75190. Un numero diverso per ogni sopravvissuto ma per tutti il simbolo dello sterminio di 17 milioni di persone: ebrei, disabili, zingari, omosessuali, prigionieri politici. Tra le esperienze più strazianti che la senatrice ha raccontato in questi anni, c’è quella di Janine: una ragazza, ebrea francese di 12 anni, internata con Liliana Segre ad Auschwitz. Una mattina la ragazzina viene ritenuta non idonea per continuare a lavorare e destinata alla camera a gas. Soltanto perché aveva perso due dita. Resta uno dei rimpianti di Segre, quello di non averla salutata, di non averle mostrato un ultimo gesto di affetto e umanità: «Lei non serviva più, andava al gas. E io, che ero appena passata e che tutti i giorni lavoravo con lei, sono stata orribile, così ero diventata. Non mi sono voltata, non accettavo più distacchi. Ma non ci fu mai più un tempo in cui non mi ricordai di Janine».
Dopo circa un anno di lavori forzati e la chiusura del campo, Segre viene trasferita in Polonia, poi in Germania, nei campi di Ravensbrück e Malchow. È il 1° maggio del 1945 quando viene liberata dai russi. Tornerà a Milano nel 1946, fra i 25 sopravvissuti di età inferiore ai 14 anni.
Nel 1948 conosce a Pesaro, durante una vacanza al mare, Alfredo Belli Paci, il suo futuro marito. Anche lui deportato in diversi campi di concentramento nazisti per non aver aderito alla Repubblica di Salò, Alfredo conquista Liliana, colpita dalla sua somiglianza fisica e caratteriale con il padre Alberto. I due si sposano con rito cattolico nel 1951 e dalla loro unione nasceranno Alberto, Luciano e Federica.
La testimonianza per le generazioni future e l’impegno politico
Solamente nei primi anni ’90 Liliana Segre decide di rompere il silenzio in cui si era rifugiata e di diventare testimone vivente della sua prigionia. Per molti anni parla con gli studenti di varie scuole, un’attività alla quale, come lei, tanti altri sopravvissuti alla Shoah si sono dedicati con l’intenzione di educarele generazioni future, affinché cose come queste non avvengano mai più.
Il riconoscimento non è solo civile, ma anche politico: nominata primaCommendatore della Repubblica Italiana sotto il governo Ciampi, poi senatricea vita, nel 2018, dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, “per aver illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo sociale“. Nel 2004 una medaglia d’oro dalla città di Milano e nel 2008 e 2010 due lauree ad honorem, in Legge dall’Università di Trieste, e nel 2010 in Scienze pedagogiche dall’Università di Verona. E in diversi altri momenti la cittadinanza onoraria in diverse città, tra cui Lecco, Palermo e Varese.
Nel 2020 è invitata al Parlamento europeo dal recentemente scomparso Presidente David Sassoli. Davanti ai più alti rappresentanti delle istituzioni di tutta Europa ripercorre gli orrori vissuti, meritando l’applauso commosso di tutta l’assemblea: «La forza della vita è straordinaria, è questo che bisogna trasmettere ai giovani, che sono mortificati dalla mancanza di lavoro, mortificati dai vizi che ricevono dai loro genitori molli per cui tutto è concesso Mentre la vita non è così, è una marcia. Noi non volevamo morire, eravamo pazzamente attaccati alla vita, qualunque fosse».
Qualche tempo dopo l’Università di Roma “La Sapienza” le conferisce un dottorato honoris causa in storia dell’Europa che Segre dedica al padre Alberto,“ucciso per la colpa di essere nato”. Nell’ottobre dello stesso anno l’ultimo discorso pubblico, prima di ritirarsi a vita privata. A Rondine, in provincia di Arezzo, inaugura idealmente il progetto dell’ “Arena di Janine”, dedicata alla ragazza “scartata”, la compagna di Auschwitz. In quell’occasione ha detto: «Non perdono e non dimentico, ma non odio».
Rispettando i suoi compiti da senatrice a vita, nel 2021 ha votato la fiducia al Governo Conte II e la mozione di conferimento della cittadinanza italiana onoraria al ricercatore egiziano dell’Università di Bologna Patrick Zaki, liberato l’8 dicembre scorso dopo due anni di detenzione nel carcere del Cairo. Ha partecipato anche all’elezione del futuro Presidente della Repubblica italiana nel gennaio 2022.
«C’è una bambina, tra quelli del campo di Terezin, poi deportati e uccisi ad Auschwitz per la sola colpa di essere nati, che ha disegnato una farfalla gialla che vola sopra i fili spinati. […] Questo è un semplicissimo messaggio da nonna che vorrei lasciare ai miei futuri nipoti ideali: che riescano sempre a fare una scelta, che con la loro responsabilità e coscienza siano in grado di essere sempre quella farfalla gialla che vola sopra i fili spinati», Liliana Segre.
Da qualche giorno circola il nome diElisabetta Belloni, la donna a capo dei servizi segreti italiani, come possibile figura terza che metta d’accordo le diverse forze politiche chiamate a eleggere, il 24 gennaio, il nuovo Presidente della Repubblica italiana. Se Belloni dovesse effettivamente salire al Colle, sarebbe la prima donna a farlo (come già lo è stata, nel ricoprire la carica che attualmente riveste). Anche se il suo non è l’unico nome femminile apparso nella lunga storia delle elezioni al Quirinale.
Camilla Cederna, Elena Moro e Ines Boffardi
Le prime candidate al ruolo apparvero in sede di scrutinio soltanto 30 anni dopo l’istituzione del ruolo presidenziale. Nel 1978 venne poi eletto SandroPertini (1896-1990), prima partigiano, poi politico e giornalista, uno dei più amati presidenti della Repubblica di sempre (il settimo). Ma durante lo scrutinio vennero fatti anche i nomi di Camilla Cederna (1911-1997), giornalista famosa per l’inchiesta realizzata per l’Espresso che costrinse il predecessore di Pertini, Giovanni Leone, a dimettersi; quello di Eleonora Moro (1915-2010), moglie dell’ex presidente del Consiglio assassinato lo stesso anno, Aldo Moro; e il nome di Ines Boffardi (1919-2014), partigiana attiva nelle Sap, le Squadre di azione patriottica, durante gli anni della guerra. Le tre ottennero rispettivamente quattro, tre e due voti. Il futuro presidente Pertini, in qualità di presidente della Camera durante le votazioni di quell’anno, dovette richiamare i colleghi che di fronte ai voti di Boffardi scoppiarono a ridere: «Colleghi, non c’è nulla da ridere, anche una donna può essere eletta!».
Camilla Cederna (Photo by Fototeca Gilardi/Getty Images)
Nilde Iotti
Il nome di Cederna apparve anche nell’elezione successiva, quella del 1985, insieme a quello della partigiana Tina Anselmi (1927-2016), prima donna eletta ministro della Repubblica nel 1976. Anselmi venne candidata anche alle votazioni del 1992, dove ottenne 19 voti. Ma quell’anno fu Nilde Iotti (1920-1999), partigiana e per 13 anni (dal ’78 al ’92) prima donna a ricoprire l’incarico di presidente della Camera, a ottenere un ottimo risultato. Proposta dal partito democratico della sinistra come candidata di bandiera, conquistò 256 preferenze. Molte, se pensiamo a quelle delle colleghe, ma non sufficienti per superare il quorum e venire eletta.
Nilde Iotti (Photo WikimediaCommons)
Emma Bonino
Emma Bonino (1948-), storica leader del Partito radicale e senatrice della Repubblica, è stata nominata per la prima volta alle elezioni del 1999, insieme a Rosa Russo Iervolino (1936-), parlamentare dal ’79 al 2001 ed ex sindaca di Napoli. In quell’occasione le due ottennero rispettivamente 15 e 16 preferenze. Il nome di Bonino è poi tornato in tutte le successive elezioni: nel 2006, insieme a quelli di Anna Finocchiaro, Franca Rame e Lidia Menapace; nel 2013 ancora con Finocchiaro, Rosy Bindi, Paola Severino, Alessandra Mussolini, Daniela Santanchèe Annamaria Cancellieri, nel 2015 insieme al nome di Luciana Castellini. Anche per la votazione del 2022 alcuni avevano parlato di lei, ma in un’intervista a Repubblica, Bonino ha detto: «Ringrazio tutti quelli che pensano a me, da Roberto Saviano a Carlo Calenda a tutti i militanti che mi scrivono. Ma credo proprio che il mio momento fosse anni fa».
Emma Bonino con il Presidente Sandro Pertini (Photo by WikimediaCommons)
Il “caso Gabanelli”
Una situazione particolare si verificò nel 2013, quando venne fatto il nome della giornalista Milena Gabanelli (1954-). La fondatrice ed ex voce narrante di Report, il noto programma d’inchiesta di Rai 3, fu infatti la più votata alle “quirinarie“: un sondaggio organizzato dal Movimento cinque stelle sul proprio blog per scegliere il candidato che il partito avrebbe poi presentato. Gabanelli ottenne il voto online di 6000 persone ma declinò l’invito: «Credo che per ricoprire un ruolo così alto ci voglia una competenza politica che io non credo di avere».
Milena Gabanelli (Photo by WikiCommons)
I nomi del 2022
Oltre a Belloni e Bonino, quali altre donne sono state indicate per il “toto nomi” del 2022? È tornato quello di Rosy Bindi (1951-), ministra della Repubblica e presidente della Commissione parlamentare antimafia dal 2013 al 2018, tra le “papabili” del 2006. Per l’elezione di quest’anno sono state proposte anche Letizia Moratti (1949-), ex sindaca di Milano e da gennaio 2021 vicepresidente e assessore al Welfare della Regione Lombardia, ed Elisabetta Alberti Casellati (1946-), eletta presidente del Senato nel 2018 su proposta del centrodestra, ma ritenuta valida da tutte le parti politiche. Ugualmente gradita potrebbe essere Marta Cartabia (1963-), prima donna presidente della Corte costituzionale (dal 13 settembre 2011 al 13 settembre 2020) e attuale ministra della Giustizia nel Governo del premier Mario Draghi.
Marta Cartabia (Photo by WikiCommons)
Quelle che “ce l’hanno fatta”
Come abbiamo già detto, la prima a sfondare l’ormai ben noto “soffitto di cristallo” delle istituzioni italiane è stata Nilde Iotti, prima presidente della Camera dei deputati, dal 1979 al 1992. Solo altre due, però, hanno avuto l’occasione di seguirla: Irene Pivetti nel 1994 e Laura Boldrini nel 2013, 19 anni dopo. Per non parlare del fatto che soltanto nel 2018 è stata eletta la prima (e, di conseguenza, l’unica) presidente del Senato donna, ancora in carica: Maria Elisabetta Alberti Casellati. Belloni potrebbe davvero farcela? Come ha detto qualche tempo fa il nostro Presidente della Repubblica uscente, Sergio Mattarella, sarebbe “un sogno, forse una favola”.
Gabriel Boric, il nuovo presidente cileno, candidato leader della sinistra progressista eletto a dicembre 2022, ha presentato la squadra di Governo. I ministri che si insedieranno ufficialmente a marzo sono 24. Ma la grande novità, il chiaro segnale di rottura con il passato che Boric ha voluto mandare, sono le 14 ministre che, in numero maggiore, occupano importanti ministeri. Due dei quali, Difesa e Interni, per la prima volta nella storia del Paese sono affidati a figure femminili: Maya Fernández e Izkia Siches.
Maya Fernández: la nipote di Allende alla Difesa
La guida del ministero della Difesa è stata affidata a Maya Fernández, 50 anni, figlia di Beatriz Allende e nipote del defunto presidenteSalvadorAllende, vittima del colpo di Stato ordito dal generale Augusto Pinochet. Nata nel 1970, un anno dopo l’elezione del governo di Unità Popolare, guidato dal nonno, ha vissuto in esilio all’Avana (Cuba) dal 1973 al 1990. Membro del Partito socialista cileno, Fernández ha avuto il primo incarico politico nel 2002, durante l’amministrazione del presidente Ricardo Lagos. Eletta deputata nel 2017, ha assunto il ruolo di presidente della Camera due anni dopo. È stata una delle prime figure del suo partito ad appoggiare pubblicamente la candidatura di Boric, quando la proposta dei vertici socialisti era stata la democristiana Yasna Provoste.
Il ministero dell’Interno e della Sicurezza pubblica va alla 35enne Izkia Siches
Boric sceglie la 35enne Izkia Siches, di professione medico, per il ministero degli Interni e della Sicurezza pubblica. Con un passato di militante nella gioventù comunista, Siches si è poi impegnata come indipendente nelle organizzazioni universitarie. Ha deciso di dimettersi dalla presidenza del Collegio dei medici del Cile, ottenuta nel 2017 (è stata la più giovane nella storia dell’istituzione) per aiutare Boric, durante il ballottaggio presidenziale del 19 dicembre 2021, a recuperare lo svantaggio del primo turno nei confronti del candidato della destra, José Antonio Kast. Il suo ruolo nella pandemia la trasformata in una figura nazionale. Infatti, sono partite da lei alcune proposte importante per la lotta al coronavirus: la richiesta di affidarsi agli esperti e agli specialisti del settore sanitario, di rafforzare le restrizioni alla mobilità delle persone e di intensificare le attività di screening.
Juana Cecilia Hazana Loayza aveva già denunciato Mirko Genco, 24 anni, l’ex compagno che le ha tolto la vita il 19novembre. Era stato arrestato il 5 settembre per atti persecutori e il giorno dopo scarcerato e sottoposto alla misura cautelare del divieto di avvicinamento. Ma il 10 settembre Genco era stato arrestato di nuovo per violazione della misura, violazione di domicilio e ulteriori atti vessatori, riuscendo a ottenere i domiciliari con un patteggiamento a due anni. Anche VanessaZappalà, 26 anni, uccisa lo scorso agosto ad Acitrezza (Catania) a colpi di pistola, aveva denunciato per stalking l’ex compagno 37enne AntonioSciuto. L’arresto dell’uomo, però, non era mai stato convalidato. Nella relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidi, presieduta dalla senatrice Valeria Valente, viene riportato che solo una donna su sette uccisa tra il 2017 e il 2018 aveva denunciato il proprio assassino. Ma quelle che denunciano non vengono tutelate: lo dimostrano alcune delle storie delle 109donneassassinate dall’inizio del 2021. A questo si aggiunge il mancato sovvenzionamento dei centriantiviolenza e un ritardo culturale che non viene colmato dal sistema educativo. Dopo ogni femminicidio il solito commento è: “Qualcosa non ha funzionato”. Ma in Italia c’è più di “qualcosa” che non funziona.
“C’è un grande problema: l’assenza di professionalità tra magistrati e forze dell’ordine”, ha dichiarato il giudice FabioRoia, presidente vicario del tribunale di Milano e componente dell’Osservatorio sulla violenza contro le donne, in un’intervista a Repubblica pubblicata martedì 23 novembre. Avviene spesso che le denunce non vengano prese in considerazione con la necessaria serietà: alcune vittime di violenza raccontano di essere state invitate dalle stesse forze dell’ordine a pensarci due volte prima di formalizzare le accuse. In più, su 118 processi arrivati a sentenza per femminicidio considerati dalla Commissione d’inchiesta istituita sul tema, solo 98 si sono conclusi con una condanna. “È necessario che chi si occupa di questa materia sia formato su scienze complementari, dalla psicologia all’esperienza quotidiana degli operatori dei centri antiviolenza. Occirre essere in grado di comprendere il ruolo della donna nel ciclo della violenza. Le leggi che abbiamo sono buone ma non vengono applicate con competenza”, prosegue Roia. E conclude: “Dobbiamo essere in grado di proteggere le donne senza limitare la loro libertà. Le donne stanno sei mesi chiuse nelle case rifugio in attesa che i giudici decidano eventuali misure cautelari nei confronti degli uomini che le minacciano. Ma non dobbiamo sradicare dalle loro case e dal loro quotidiano, sono gli uomini che dobbiamo togliere dalla circolazione”.
Non ci sono i soldi per le attività dei centri antiviolenza. Anzi, bisognerebbe dire piuttosto che i fondi ci sono ma non arrivano a destinazione. Lo ha denunciato qualche giorno fa l’ong ActionAid nel dossier “Cronache di un’occasione mancata”, un documento che monitora il movimento dei fondi antiviolenza sul territorio nazionale. Di quelli stanziati per il 2020 solo il 2% del totale è stato effettivamente consegnato a centri e case per donne vittime di abusi (e in sole due regioni: Liguria e Umbria). A marzo 2020, su iniziativa della ministra per le Pari Opportunità Elena Bonetti, la cifra totale ammontava a 3 milioni di euro, ma solo poco più di 25mila sono effettivamente arrivati ai centri (meno dell’1%). Il mese successivo, con un bando d’emergenza per gli enti che gestiscono il sistema antiviolenza, la ministra aveva chiesto 5,5 milioni di euro: soltanto 142 hanno potuto farne richiesta perché i soldi venivano distribuiti a quanti erano in grado di offrire una garanzia pari all’80% dell’importo. A maggio poi è stato istituito il “reddito di libertà“, misura pensata per permettere alle donne vittime di violenza di essere economicamente indipendenti con un contributo massimo di 400 euro al mese per 12 mesi. L’Inps ha pubblicato la circolare per definire le modalità e i requisiti di accesso al fondo l’8 novembre. Da maggio a oggi, quindi, nemmeno un euro dei 3 milioni complessivi stanziati a Centri e Case è stato consegnato. In più, secondo un gruppo di 84 associazioni di donne che gestiscono circa 150 realtà del sistema antiviolenza (la rete D.i.Re), per sostenere tutte le donne che avrebbero bisogno del “reddito di libertà” servirebbero almeno 48 milioni.
In una nota Istat sull’andamento del mercato del lavoro nel primo trimestre del 2021 si leggeva che il 59,3% delle donne fra i 15 e i 34 anni, cioè 6 su 10, non lavora e non cerca lavoro e che le donne inattive per motivi familiari sono più di quelle inattive per studio. Quando si tratta di indipendenza economica femminile spesso si sottovaluta l’importanza che questa assume in contestifamiliariviolenti. Promuovere politiche che favoriscano l’assunzione delle donne, la giusta retribuzione e servizi che consentano di ridurre il carico del lavoro di cura, da sempre ritenuto appannaggio quasi esclusivo del genere femminile, permetterebbe a buona parte delle donne di abbandonare compagni e mariti violenti dai quali però, purtroppo, sono costrette a dipendere in assenza di impiego. Situazione che si fa ancora più complessa quando sono coinvolti anche eventuali figli minorenni. La necessità di rendere le donne sempre più autonome economicamente diventa stringente se si osserva l’ultimo report della Direzione centrale anticrimine della polizia: il 36% dei femminicidi è stato commesso da mariti o conviventi delle vittime.
Il fallimento del sistema che dovrebbe prevenire le violenze deriva, forse non del tutto ma sicuramente in parte, da una prolungata assenza della società su questi temi. Dal linguaggio sessista che riempie le pagine dei giornali e i programmi televisivi, all’assenza di progetti educativi capillari negli istituti scolastici che formino i giovani sul tema. Anche nella comunicazione delle iniziative volte a sensibilizzare la popolazione si osservano carenze non indifferenti: la nuova campagna contro la violenza di genere della polizia di Catania si chiama “Aiutiamo le donne a difendersi”, come se il problema riguardasse solo le vittime e non un sistema, una mentalità che da secoli limita l‘autodeterminazionefemminile. Come se la causa di questa enorme problematica sociale non fossero gli uomini che le massacrano di botte o le uccidono.
Lavorare sugli uomini sarebbe la cosa più logica da fare e a dirlo sono le statistiche. Per esempio, a Milano è stato sperimentato il “protocollo Zeus” che obbliga gli uomini segnalati per violenze a fare percorsi terapeutici e che ha portato nel capoluogo a una riduzione dei casirecidivi del 90%. Dal 2006 è attivo il numero di pubblica utilità 1522, tra i pochi strumenti che le donne hanno per denunciare le violenze e il reato di stalking, introdotto nel 2013. Operatrici volontarie rispondono 24h su 24, tutti i giorni dell’anno, sull’intero territorio nazionale e forniscono un primo supporto a quante ne hanno bisogno, offrendo informazioni e indirizzando le vittime, quando necessario, verso i centri antiviolenza. Il numero garantisce l’assoluto anonimato e nel secondo trimestre 2020, a causa del lockdown, l’Istat ha registrato un picco: 12.942 chiamate valide e 5.606 vittime. Uno strumento sicuramente utile ma non risolutivo. Negli ultimi anni si è parlato con maggiorefrequenza di violenza sulle donne ma spesso lo si fa male e non in maniera continuativa e trasversale, quasi a voler dedicare a un tema importante ma complesso solo un giorno, il 25 novembre. Riducendo al silenzio le vittime passate, presenti e future per il resto dell’anno.
Francia, anno domini 1386. Due uomini si sfidano a duello. Uno per difendersi da un’accusa di stupro, l’altro invece si batte per il proprio onore di marito offeso. Al centro dell’arena, posta in alto rispetto ai duellanti, una donna, Marguerite de Carrouges, osserva la scena. Inizia così il nuovo film di Ridley Scott, “The Last Duel“, uscito nelle sale italiane il 14 ottobre e tratto dall’omonimo romanzo del 2004, scritto da Eric Jager. Il noto regista de “Il gladiatore” (vincitore di ben 5 premi Oscar) non poteva che proporre al suo pubblico un film ben fatto, consigliato a chi ama quelli di genere storico-drammatico. Tuttavia, al di là delle belle riprese e della sceneggiatura avvincente, chi ha gli strumenti per notarlo si accorgerà che il vero cuore del film non è il duello riportato nel titolo, ma quella donna che, tremante e incatenata, prega che il marito Jean de Carrouges, trionfi sullo sfidante ed ex amico Jacques Le Gris. Parlare della trama potrebbe in qualche modo portare a spoiler involontari. Quindi, in questo contesto, l’analisi verrà limitata alle tematiche femministe che, più o meno volontariamente, non ci è dato sapere, Scott ha inserito nel suo film.
Dal XIV secolo a oggi possiamo dire che, fortunatamente, la condizione della donna sia migliorata. Ma tra le qualità del regista capace sta quella di saper parlare, attraverso il passato, del presente. Il film racconta la storia di una donna stuprata nel Medioevo ma che ricorda molto da vicino quella dellesurvivors di tutte le epoche. Infatti, Marguerite, che trova il coraggio di denunciare il suo stupratore, finisce per affrontare tutte le prove che anche una vittima di stupro contemporanea vive sulla propria pelle.
In primis, l’atteggiamento del marito che sfida a duello l’ex amico e compagno d’armi non per un affetto sincero nei confronti della moglie, ma semplicemente per senso di rivalsa e di orgoglio maschile ferito. Marguerite è per Jean un oggetto di sua proprietà sul quale lo stupratore ha impresso un marchio d’infamia: solo il duello all’ultimo sangue potrà cancellarlo e restituire all’uomo la dignità perduta per colpa della consorte. A de Carrouges non interessa la sorte della donna che, nel caso lui perdesse il duello, verrebbe bruciata viva per aver mentito, o l’impatto che questo evento traumatico può aver avuto su di lei. L’uomo vive il fatto in virtù della propria visione del mondo e di come l’evento ha influenzato la sua, di vita.
Qui si passa a un altro interessante esperimento fatto dal regista: la divisione del film in tre parti, ognuna dedicata a uno dei protagonisti, intitolata “La versione di…”. Con questa divisione Scott enfatizza il diverso modo con cui prima Jean, poi Jacques e, per ultima, Marguerite, vivono quello che accade. In ogni versionenotiamo particolari che in quella precedente o successiva non erano presenti o sfuggiti allo spettatore perché trascurati dal personaggio al centro di quel momento del film. Ne “La versione di Jacques Le Gris“, l’uomo accusato di stupro pronuncia una frase con la quale fa intendere che le resistenze della donna di fronte a un rapporto sessuale non consenziente per lui fanno parte del rituale della seduzione. Il consensonon è contemplato nella scala di valori di un uomo del Medioevo ma sembra che, in ogni secolo, anche quello attuale, non lo sia nemmeno per molti nostri contemporanei. Almeno questo è quello che emerge spesso dalle storie di donne sopravvissute ad una violenza sessuale. Ogni volta la responsabilità di uno stupro risiede nell’abbigliamento della vittima o nel fatto che fosse ubriaca o drogata e solo dopo nel comportamento criminale dell’uomo.
Le prime che fanno questo tipo di allusioni spesso sono altre donne. E’ ciò che accade anche in “The Last Duel”. Dopo la denuncia di Marguerite, le poche che lei considerava amiche le voltano le spalle, sostenendo in tribunale che, quello stupro, la donna lo desiderava perché una volta aveva riconosciuto a Les Gris di essere un bell’uomo. Il “se l’è cercata” aleggia prepotentemente in ogni scena post-denuncia.
Tra le detrattrici di Marguerite, anche la madre di suo marito che racconta alla nuora di essere stata stuprata a sua volta in gioventù. Ma questo non basta a farla empatizzare con la vittima del nuovo crimine: l’anziana donna la svilisce dicendo che lei, al contrario della ragazza, ha semplicemente scelto di stringere i denti, dimenticare il fatto e continuare con la sua vita. E da questo episodio si può trarre l’insegnamento più bello della pellicola: trovare la forza per denunciare un fatto, per non rimanere in silenzio di fronte a qualcosa che, sì, la società condanna, ma per il quale ti ritiene in parte colpevole pur non essendoci da parte tua alcuna responsabilità, non è facile. Ma alzare la testa e reagire consente non solo di cambiare il proprio destino, anche se tutti credono che sia già scritto, ma pure la sorte delle donne che verranno dopo.
Un film crudo, che lascia allo spettatore sensibile a questi fatti tanti temi su cui riflettere per giorni.
Le bambine che nei prossimi anni dovrebbero frequentare la scuola primaria ma che probabilmente non vi accederanno mai sono 9 milioni. Un numero tre volte superiore rispetto a quello dei coetanei maschi. A dirlo è Save the Children in un report uscito in questo mese che offre un’analisi completa delle conseguenze della pandemia di Covid-19 sull’istruzione nel mondo e in Italia. La prolungata chiusura degli istituti e le difficoltà nell’accedere alla rete Internet per seguire le lezioni a distanza potrebbe far crescere nei prossimi anni i tassi di analfabetismo e l’abbandono scolastico. Le persone analfabete nel mondo sono quasi 800 milioni, due terzi di queste sono donne. I paesi più penalizzati sono quelli dell’Asia meridionale e dell’Africa subsahariana. Un esempio: in Sud Sudan il tasso di scolarizzazione e di alfabetizzazione delle ragazze è il più basso del mondo, ogni cento maschi, solo 75 femmine sono iscritte alla scuola elementare, e meno dell’1 per cento la conclude.
La principale causa di esclusione di bambine e ragazze dal contesto scolastico è la discriminazione di genere. Nei paesi più poveri le difficoltà per accedere all’istruzione interessano in maniera indiscriminata maschi e femmine, ma se una famiglia ha la possibilità di investire sul futuro dei propri figli la scelta ricadrà sempre sui maschi. Appena raggiungono la giusta età per farlo, alle figlie femmine si impone la cura della casa e dei fratelli più piccoli. In molte realtà del mondo, infatti, specialmente in quei paesi dove gli stereotipi sessisti sono più forti, l’unico futuro possibile per le bambine è quello di mogli e madri. Quelle poche studentesse che riescono a frequentare la scuola non trovano personale docente femminile che possa in qualche modo costituire un modello per loro e la mancanza di servizi igienici adeguati le costringe a dover rinunciare alle lezioni per tutto il periodo delle mestruazioni. Anche le strade poco sicure da percorrere per tornare a casa sono un grave problema perché, se non avviene già all’interno della famiglia, le bambine rischiano di essere vittime di violenze e abusi. A tutti questi problemi spesso si aggiunge quello della guerra. Secondo il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef), nei paesi interessati da conflitti armati “le bambine hanno una probabilità doppia di interrompere le lezioni rispetto alle coetanee negli Stati politicamente stabili”.
In un’indagine pubblicata l’8 marzo sempre dall’Unicef, è stato segnalato il pericolo di un aumento esponenziale a causa del Covid dei matrimoni forzati tra ragazze minorenni e uomini adulti. Si legge nel rapporto che prima della pandemia si prevedeva che le bambine costrette a sposarsi prima dei 18 anni sarebbero state più di 100 milioni in 10 anni. Oggi a queste potrebbero aggiungersene altri 10 milioni. Molte famiglie, a seguito della recessione economica, si sono trovate senza i mezzi per sostentare l’intera famiglia. Per questo, il matrimonio di una figlia, anche se minorenne, a molti sembra la scelta migliore. Per non parlare del fatto che con la chiusura delle scuole e la sospensione di molti servizi di assistenza alle famiglie le ragazze sono tornate a occuparsi, insieme alle madri, di tutta una serie di mansioni di cui gli uomini non sono in grado di occuparsi o rifiutano di farlo. A tutto questo si aggiunge, in molti paesi dove a mancare sono anche l’acqua potabile o la corrente elettrica, l’assenza della rete Internet e dei dispositivi necessari per seguire eventuali lezioni da remoto.
Impedire a una ragazza di frequentare la scuola è, in primis, la negazione di un diritto fondamentale della persona. Infatti, come si legge nel primo comma dell’articolo 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo approvata dall’ONU nel 1948, “ogni individuo ha diritto all’istruzione. L’istruzione deve essere gratuita almeno per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali. L’istruzione elementare deve essere obbligatoria. L’istruzione tecnica e professionale deve essere messa alla portata di tutti e l’istruzione superiore deve essere egualmente accessibile a tutti sulla base del merito”. In più, la promozione delle pari opportunità in ambito scolastico permetterebbe alla società di crescere e progredire nel suo insieme. Consentire alle bambine di avviare un percorso di studi che gli permetta di inserirsi in futuro nel mondo del lavoro porterebbe a un aumento della produttività, del reddito delle famiglie e, di conseguenze, alla crescita economica di un paese. L’Unicef ha anche sottolineato come spesso le donne istruite siano più attente e informate riguardo alla propria salute e a quella dei propri figli. Nei paesi dove alle ragazze è consentito studiare si è verificata una diminuzione significativa di violenze, sfruttamento, gravidanze precoci o indesiderate e di malattie come l’infezione da HIV.
“Le differenze di genere hanno un impatto sull’incidenza dell’infezione da SARS-CoV-2 e della mortalità da COVID-19. In più, tali differenze influenzano la frequenza e la severità di possibili effetti collaterali dati dai farmaci”.
Si apre così lo studio Mancata considerazione delle differenze di genere negli studi clinici sul Covid-19, uscito il 6 luglio sulla rivista scientifica “Nature communications“. L’obiettivo della pubblicazione: sottolineare come nei recenti studi clinici sul Covid-19 il diverso impatto della malattia su uomini e donne sia un fattore spesso trascurato.
Partendo dall’analisi del sito PubMed, uno dei più grandi archivi per la ricerca online, gli autori della pubblicazione hanno scoperto che dei 4,420 studi sulla SARS-CoV-2 e sul COVID-19, 935 (21.2%) si occupano del genere solo nel contesto della selezione dei volontari, 237 (5.4%) pianificano campionamenti basati sul sesso o enfatizzano il tema del genere e solo 178 (4%) riportano esplicitamente un piano per includere il genere o il sesso biologico come variabile analitica. Solamente 8 (17.8%) dei 45 test clinici pubblicati su riviste scientifiche fino al 15 dicembre 2020 riferiscono risultati divisi per sesso o analisi in sottogruppi.
Un’assenza di dati che, come sottolineato anche dalla giornalista e attivista britannica Caroline Criado-Perez nel libro Invisibili pubblicato nel 2019, investe molti aspetti della vita delle donne, non soltanto quello sanitario, e questo determina un effettivo peggioramento della qualità della vita del genere femminile.
E anche se le donne sono state tra le categorie più penalizzate dalla pandemia (a causa del lockdown che ha aumentato il numero delleviolenze e in ambito lavorativo), l’anno scorso sono state protagoniste facendosi promotrici attive dicambiamenti epocali importanti e necessari.
L’attrice statunitense MJ Rodriguez entra nella storia come prima attrice transgender a essere candidata agli Emmy Awards nella categoria di migliore attrice protagonista. Al secolo Michaela Antonia Jaé Rodrig, deve la nomination al prestigioso premio televisivo a Pose, serie in cui interpreta Blanca Evangelista. Il personaggio incarna quello di una donna transgender che si porta sulle spalle un passato drammatico, segnato dal rifiuto della sua famiglia proprio a causa della sua identità di genere.
Nata il 7 gennaio 1991 a Newark (Usa), ha capito di sentirsi donna a 7 sette anni. Da sempre appassionata di canto, ballo e recitazione, debutta inizialmente a teatro, per esordire poi sul piccolo schermo nel 2012 in un episodio della serie Nurse Jackie – Terapia d’urto.
Dovrà concorrere con attrici di altissimo livello: le altre candidate sono Uzo Aduba, Olivia Colman, Emma Corrin, Elisabeth Moss e Jurnee Smollett.
Tre giorni dedicati ai temi dell’occupazione femminile e del divario salariale, alle strategie per il contrasto alla violenza di genere. A Roma si apre oggi Women20, il gruppo di discussione del G20 sulla parità di genere. A guidare i lavori Linda Laura Sabbadini, specializzata in statistiche di genere e presidentessa del Women20.
“Saranno presenti scienziate, economiste, donne che lottano per i diritti della propria terra, una rappresentanza ampia”, ha detto Sabbadini parlando delle ospiti che si riuniranno per “rimettere le donne al centro del cambiamento“.
In un momento storico in cui le donne sono state tra le categorie più penalizzate (la pandemia ha aumentato il carico di lavoro non retribuito e il numero di licenziamenti, ne abbiamo parlato qui), il Women20 si tiene con l’obiettivo di costruire strategie utili per il futuro che favoriscano l’imprenditoria e la leadership femminile, l’abbattimento degli stereotipi di genere e un cambiamento culturale.
Ph. Polina Zimmerman
Secondo Sabbadini, “la parità, l’empowerment femminili sono degli obiettivi strategici di fondo, l’interazione tra la politica e la società civile è centrale per raggiungerli. Abbiamo l’opportunità di realizzare ilpieno potenziale delle donne. Non solo aumenterà la crescita sostenibile, ma sarà anche un imperativo per l’esistenza di società creative e inclusive, sostenute da una cittadinanza attiva. L’uguaglianza è una grande sfida che si può vincere”.
Dopo tre anni di pena scontata in carcere per violenza sessuale aggravata, Bill Cosby è un uomo libero. La mattina di mercoledì 30 giugno, l’attore, che compirà 84 anni il prossimo luglio, è rientrato nella sua casa di Elkins Park nel sobborgo nord di Philadelphia, accompagnato dai suoi legali e da alcuni familiari. Lo ha deciso la Corte Suprema della Pennsylvania – ultima istanza a livello statale – che ha annullato la condanna in appello a dieci anni dello scorso 26 aprile 2018. La decisione dei giudici non è entrata nel merito della sentenza e non riabilita la figura di Cosby, accusato di stupro da 36 donne. La scarcerazione è stata ordinata per due motivi di natura procedurale. Il primo: riaprire il processo nonostante un precedente accordo stragiudiziale tra imputato e magistrati è stata una violazione che ha reso il processo non equo. Il secondo: la testimonianza di numerose vittime estranee alla vicenda processuale ha condizionato la decisione della giuria, che avrebbe dovuto attenersi ai fatti del 2004, quelli denunciati da Andrea Constand.
La vicenda – I guai giudiziari per l’attore, musicista, e sceneggiatore americano – che aveva raggiunto la fama planetaria recitando il ruolo del buon padre di famiglia nella sitcom “I Robinson” – erano iniziati nel 2004, dopo la denuncia di Andrea Constand, allora impiegata della Temple University di Philadelphia. Subito dopo l’incontro tra i due, avvenuto nella residenza di Cosby, la donna sporse denuncia alla polizia, riferendo di essere stata intrappolata, drogata e abusata sessualmente dall’attore. Sentito dagli inquirenti, Cosby fece mettere a verbale che sì, ci fu «un rapporto sessuale, ma con il pieno consenso» della donna, allora trentunenne. Le parti raggiunsero un accordo stragiudiziale e gli inquirenti garantirono alla star di Hollywood che non sarebbe stato perseguito. Così è stato per dieci anni. Con lo scoppio dello scandalo Weinstein, nel 2014, il sostituto procuratore Kevin Steele accoglie la richiesta dei nuovi legali di Andrea Constand di riaprire il caso. Il verbale trapela e nel 2015 finisce in prima pagina sul New York Times. È in quel momento, storico, che 35 donne prendono coraggio e si uniscono alle accuse della Constand, abbattendo un muro di silenzio decennale. Il processo riparte e si conclude con la prima condanna, proprio quella di Bill Cosby, nell’ambito dello movimento #MeToo
Le ragioni della Corte Suprema – Bill Cosby si è sempre dichiarato innocente. Con determinazione ha rifiutato di pentirsi e prendere parte a programmi di recupero che gli avrebbero garantito sconti di pena. Ma la decisione della suprema Corte di Philadelphia di annullare la condanna per violenza sessuale aggravata non entra nel merito e nei contenuti della sentenza d’appello. Accogliendo il ricorso dei legali di Cosby, i giudici hanno ritenuto fondati due vizi procedurali che hanno reso il processo non equo. Il primo: la decisone del procuratore Kevin Steele di riaprire il caso nel 2015 è stata una violazione dell’accordo stragiudiziale tra l’imputato e altri magistrati avvenuto nel 2004. Perseguire Cosby a dieci anni di distanza è stato illecito. In secondo luogo, il coinvolgimento di altre, numerose testimoni, tra cui la top model Janice Dickinson, avrebbe contribuito a tratteggiare il profilo di predatore seriale dell’attore, influenzando la decisione della giuria che avrebbe invece dovuto attenersi ai fatti relativi alla denuncia di Constand, e non al quadro più ampio emerso nel corso del dibattimento.
Le reazioni – Numerosissime le reazioni da Hollywood e dal mondo dello spettacolo che esprimendo sdegno per la decisione della Corte Suprema di Philadelphia, hanno espresso la propria solidarietà alle vittime di Cosby via Twitter.
«Non disponiamo di dati precisi, ma si parla di circa 5mila persone che si prostituiscono indoor (in appartamenti, ndr) e circa 600 su strada, di cui il 50 per cento è transessuale», racconta Vincenzo Cristiano, presidente dell’associazione Ala Onlus. Il territorio meneghino è diventato così in particolare il centro della prostituzione transessuale di origine sudamericana in Italia. Perché proprio il capoluogo lombardo? «È la città con la maggiore dimensione internazionale», dichiara Cristiano, «c’è un grande via vai di uomini d’affari e turisti».
«Scappano da Paesi machisti in cui la loro sessualità non è accettata e per questo non riescono a lavorare», afferma Antonia Monopoli, attivista e responsabile dello sportello di Ala. «Lasciano la famiglia e vedono nella prostituzione l’unica via possibile di fuga». «Ricordo però anche il racconto di una ragazza trans che faceva la parrucchiera: tutte le sere si presentavano uomini che pretendevano di fare sesso con lei. Se non si fosse concessa le avrebbero distrutto il locale». La vendita del proprio corpo come scelta quasi obbligata, ma non significa che il sex work sia necessariamente sinonimo di sfruttamento. «Spesso sono persone che arrivano nel nostro Paese consapevoli di esercitare questa professione», chiarisce Cristiano.
Ph. Ted Eytan
A causa delle misure relative a distanziamento sociale e coprifuoco, sulle strade non si sono più viste le ragazze che erano solite lavorare outdoor. L’assenza di entrate ha reso loro difficile provvedere al sostentamento: «Per due mesi abbiamo aiutato 54 ragazzetransgender con pacchi alimentari». Chi lavora in appartamento ha visto solo diminuire i propri clienti, i quali hanno continuato a rivolgersi alle sex worker nonostante l’emergenza sanitaria. «Il cliente tipo va dai 30 ai 50 anni, tendenzialmente con famiglia, per compensare una vita sessuale poco soddisfacente tra le mura domestiche», dice il presidente, «tutte le estrazioni sociali sono coinvolte, dall’operaio al manager affermato».
Inevitabili i contagi. «Un paio di sex worker sono decedute, ma a causa di patologie pregresse», chiarisce Cristiano, «paradossalmente sieropositive e tossicodipendenti non sono state più colpite della media della popolazione. Molte hanno pensato di avere una banale influenza». Magari non emarginate, ma sicuramente poco tutelate giuridicamente anche in questa situazione. Nel 1958, la senatrice Lina Merlin ha proposto e fatto approvare la legge che ha chiuso le case di tolleranza e introdotto i reatidi sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione. Di ispirazione abolizionista, la normativa aveva l’obiettivo di tutelare le donne, ma di fatto impedisce il riconoscimento del sex work quale professione, «escludendo dall’erogazione di bonus e ammortizzatori sociali quelle che sono lavoratrici a tutti gli effetti. Noi di Ala Onlus ci battiamo affinché la prostituzione ottenga un riconoscimento legislativo», sostiene Cristiano.
Da sfatare il binomio fra transessualità e prostituzione: «Quando trovano un lavoro decidono di lasciare perché è un mondo in cui non si sentono serene», rivela ancora Monopoli, «in strada non mancano le violenze da parte dei clienti». E non solo. «Riceviamo moltissime telefonate di genitori i cui figli vogliono intraprendere la transizione. Una volta la famiglia li rifiutava», aggiunge Vincenzo Cristiano, «da questo punto di vista la realtà milanese è molto più progredita di altre città». «Possiamo definire l’Italia un Paese accogliente, ma c’è ancora molto da fare», conclude Antonia Monopoli, «non mancano gli episodi di mobbing a danno delle ragazze trans che trovano un lavoro».
La fine della dittatura fascista rappresentò per l’Italia l’inizio di una nuova fase politica.
75 anni fa nasceva la Repubblica italiana ma questa non fu l’unica novità portata da quel 2 giugno.
Per la prima volta in una votazione nazionale venne chiesto anche alle donne di esprimere una preferenza. Le italiane esercitarono il diritto di voto per cui tante avevano lottato (tra loro, la partigiana Marisa Rodano).
Con l’introduzione del suffragio femminile in Italia (il 10 marzo in occasione delle elezioni amministrative) alle donne venne riconosciuto lo status di cittadine a tutti gli effetti, quello fu il primo passo verso una parità che purtroppo non è stata ancora raggiunta.
Tuttavia, le rivendicazioni che vennero dopo, per il diritto all’aborto, il divorzio, la paritàsalariale, e quelle che verranno partono anche da quel 10 marzo e da quel 2 giugno.
Quando, per la prima volta, le donne uscirono di casa e dissero: “Oggi vado a votare”.
“È stato un momento gioioso ed emozionante. Non dimenticherò mai quella chiamata”. Laurence des Cars ha accolto così la nomina a direttrice del Musée du Louvre da parte del presidente Macron in persona. Succede allo storico e archeologo Jean-Luc Martinez, che lascia dopo otto anni di direzione.
La storica dell’arte però non è nuova al mondo delle gallerie. Laureata alla prestigiosa Sorbona di Parigi e specializzata all’Ècole du Louvre, dopo essere entrata a far parte dell’École nationale du patrimoine. Ha iniziato la sua carriera nel 1994 come curatrice del Musée D’Orsay, dove è poi tornata nel 2017 per la sua prima esperienza da direttrice. Da quel momento in poi solo i vertici: prima all’agenzia France-Muséums, operatore francese responsabile dello sviluppo del Louvre di Abu Dhabi, nel 2014 al Musée de l’Orangerie e poi nel 2017 al Musée d’Orsay.
"Se Parigi rompe il soffitto di cristallo con la nomina di #LaurenceDesCars al #Louvre, l'Italia è arrivata prima. E oggi Colosseo, Galleria Borghese, Musei Civici di Venezia, solo per citarne alcuni, sono guidati da donne, così come i Musei Vaticani." (V.Rigoli) #parole_di_donne
Tra le varie dichiarazioni rilasciate dopo aver appreso della nomina, quella sulla star del museo ha messo in chiaro le cose: la Gioconda di Leonardo Da Vinci non sarà prestata a nessun’altra galleria, è troppo fragile per essere trasportata. E poi, bisogna ammettere che i più di 10 milioni di visitatori l’anno che fa registrare la Monna Lisa sono necessari per risollevare il museo dopo le chiusure pandemiche.
Le donne della famiglia imperiale giapponese sono escluse dalla linea di successione. Ma in un futuro forse non troppo lontano le cose potrebbero cambiare.
Nel dicembre 2018 il 125esimo imperatore del Giappone Akihito annunciò la decisione di abdicare, concretizzatasi qualche mese dopo, il 30 aprile 2019. Un evento che nella storia del Paese si era verificato in precedenza solo una volta, 202 anni prima, con l’imperatore Kokaku. La notizia aveva destato scalpore mediatico e creato un problema costituzionale. In più, all’epoca era stata sollevata una questione che dopo due anni resta ancora irrisolta, quella di una possibile successione femminile.
Al trono non è mai salita un’imperatrice e i conservatori continuano a sperare che questo non accada. Tutto però fa pensare che prima o poi sarà necessario prendere in considerazione questa eventualità. Perché?
La famiglia imperiale giapponese.
Dei 18 membri che compongono attualmente la famiglia imperiale, 13 sono donne. In più, l’erede diretto in linea di successione è una ragazza: Aiko, figlia dell’attuale imperatore Naruhito, successore del “dimissionario”. Dopo di lei verrebbero le sue cugine, figlie del fratello di Naruhito, Akishino: Mako e Kako. Così, eliminate le dirette discendenti per questioni di genere, resta solo Hisahito, il terzogenito 14enne che salirebbe al trono dopo lo zio e il padre. Tuttavia, se il futuro imperatore non avesse figli maschi, il problema si ripresenterebbe.
A tutto ciò si aggiunge la questione dei matrimoni delle discendenti femminili con i cosiddetti “commoners“, persone non appartenenti alla famiglia reale che, sposandosi con le principesse, annullerebbero lo status delle compagne e quindi la possibilità di eventuali figli di salire al trono.
Pur essendo il Giappone un paese con espressioni di profonda misoginia, secondo l’agenzia di stampa nipponica “Kyodo News” l’80% di chi ha partecipato a un sondaggio condotto tra marzo e aprile scorso ha dichiarato che accetterebbe senza problemi un’imperatrice. A dimostrazione del fatto che anche il Parlamento giapponese dovrebbe iniziare a pensare a questa eventualità e rivedere la Costituzione in merito. A meno che il Paese del Sol Levante non voglia vederlo tramontare sul trono del crisantemo.
Il governatore repubblicano del Texas Greg Abbott ha annunciato la firma di una legge che modifica in senso restrittivo il diritto di aborto: da settembre 2021 in Texas non sarà più possibile abortire trascorse le sei settimane di gestazione.
The heartbeat bill is now LAW in the Lone Star State.
This bill ensures the life of every unborn child with a heartbeat will be saved from the ravages of abortion.
Sono previste eccezioni nel caso in cui la gravidanza sia frutto di incesto o stupro. La legge texana si basa sul principio del cosiddetto heartbeat bill (legge del battito cardiaco) che individua nella sesta settimana di gravidanza il momento in cui il cuore del feto inizia a funzionare autonomamente.
Nonostante negli Stati Uniti l’aborto sia legale a livello federale – in base a quanto stabilito dalla Corte Suprema nella sentenza Roe v. Wade del 1973 – ogni singolo Stato ha potere discrezionale nella determinazione dei criteri e dei limiti.
Il Texas però non è il solo: Kentucky, Mississippi, Ohio e Georgia sono solo alcuni degli Stati che prevedono le stesse regole. Secondo il Guttmacher Institute solo nel 2021 sono state introdotte più di 60 restrizioni all’accesso all’aborto in più di quindici Stati.
🚨 THIS IS NOT A DRILL. In just 4 days this week, US states enacted 28 new abortion restrictions. With over 60 restrictions so far this year, we’re on track for the worst state legislative session in at least a decade. #StopTheBans#RoevWadehttps://t.co/wdRJRbtl2T
Sempre secondo le ricerche del Guttmacher Institute, le restrizioni del diritto di aborto non corrispondono a una riduzione effettiva delle interruzioni di gravidanza: negli ultimi 30 anni le gravidanze interrotte in Paesi poco tolleranti sono state più che nei Paesi maggiormente liberali. Complessivamente, il 61% delle gravidanze indesiderate sono culminate nell’Ivg. A prescindere dalla legislazione vigente.
La domanda sorge spontanea: non si fanno più figli perché c’è l’aborto? Oppure perché le politiche sociali a favore della maternità sono ineffettive? E ancora, siamo tutte tenute a diventare madri? Forse è ora di partire da un’adeguata educazione sessuale, comprensiva di una riflessione sulla salute riproduttivadelle donne. I numeri dimostrano che quando viene garantito l’accesso ai contraccettivi, gli aborti diminuiscono. Inoltre, è il caso di eliminare la narrativa tossica che dipinge le donne che abortiscono come giovani disinibite che non vogliono assumersi la responsabilità di un’eccessiva libertà sessuale: il 59% di chi ricorre all’Ivg è già madre di almeno un figlio. La retorica non regge.
Questa è la domanda con cui i Radicali Italiani e un gruppo di associazioni lanceranno oggi, lunedì 24 maggio, a Milano con una conferenza stampa alle 11.45 nella sede dell’Associazione Enzo Tortora Radicali Milano e in diretta Facebook la loro nuova campagna, “Libera di abortire“. Per “garantire il libero accesso all’aborto“, come si legge sul sito dedicato al progetto.
Presentata qualche giorno fa anche a Roma e Pescara, l’iniziativa nasce con l’obiettivo di informare sulla pratica dell’aborto e di denunciare una situazione che in Italia vede una diffusa disinformazione sull’argomento e un numero altissimo di obiettori. A questo si aggiungono le scelte politiche di amministrazioni anti-abortiste che rendono ancora più difficile per gli/le/* cittadin* l’accesso all’aborto.
In Italia tante donne sono ancora oggi sottoposte a violenze fisiche e psicologiche, anche se, grazie alla legge 194 approvata 43 anni fa, l’aborto nel nostro Paese non dovrebbe più essere né un crimine né uno stigma.
La critica dei Radicali è rivolta all’impegno dello Stato che risulta carente nel fornire a tutti gli strumenti per vivere la propria sessualità in maniera consapevole, per conoscere e accedere all’IVG (l’Interruzione Volontaria di Gravidanza) e alle sue alternative.
E’ possibile sostenere “Libera di abortire” in due modi: finanziando uno dei manifesti che racconteranno le storie e i pensieri di attivist* che hanno subito violenze per aver scelto responsabilmente di abortire o/e firmando l’appello rivolto al Ministro della Salute Roberto Speranza.
Sul sito della campagna potete trovare maggiori informazioni. Qui invece trovate la pagina dove firmare l’appello e qui quella per cofinanziare i manifesti.
Vittoria Loffi, 22 anni, di cui 6 dedicati all’attivismo. Nel 1998 nasce a Cremona, ma studia e si forma politicamente a Milano. Qualche mese fa ha conseguito una prima laurea in “Scienze Internazionali e Istituzioni Europee” con una tesi su “La disciplina dell’aborto nei paesi BRICS” (BRICS: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, ndr). Oggi frequenta un corso di magistrale in “International Studies” a Roma, milita con i Radicali Italiani in qualità di membro del Comitato Nazionale e per loro ha ideato e conduce il podcast femminista “Tette In Su!”.
IG: @vittoriacostanzalow.fi
Com’è nato “Tette In Su!” e perché? Diciamo che è nato perché ero interessata molto non solo al femminismo intersezionale, ma ai femminismi in generale e li stavo approfondendo in modo personale, singolo. Avvicinandomi ai Radicali Italiani e alla storia di Adele Faccio (attivista politica italiana, tra le prime propugnatrici del diritto all’autodeterminazione delle donne su materie riguardanti il proprio corpo e cofondatrice del centro d’informazione sulla sterilizzazione e sull’aborto, ndr), ho cercato di proporre diverse tematiche in versione podcast. Secondo me, mancava un’analisi contemporanea, al passo coi tempi. Per esempio, si parla sempre tanto di diritto all’aborto, di sex working, di famiglie arcobaleno e persone transgender ma spesso non viene fatta un’analisi del contenitore “femminismo”. Volevo fare una sorta di “abecedario dei femminismi” per spiegarli a me, in primis, e poi agli altri. Anche se è sempre vero che studiare qualcosa significa imparare nozioni e addentrarsi in posizioni che sono magari molto lontane dalle proprie, penso a quelle del femminismo radicale. Applicare certe teorie nella vita quotidiana diventa poi tutt’altra storia. Però, secondo me, il podcast resta ugualmente uno strumento interessante per approcciarsi alle tematiche dell’oggi, in un’ottica femminista plurale. È necessario conoscere le radici dei pensieri, delle teorie, degli studi per riuscire ad esprimersi meglio. Il nome del podcast, “Tetteinsu”, è nato guardando la serie de “La fantastica signora Maisel” durante il primo lockdown. Le cose belle della pandemia! Per me, usare il termine “tette” in modo così esplicito è stato un modo per liberare il corpo femminile. Quando parliamo di qualcosa che lo riguarda sembra sempre sia necessario trovare un linguaggio in codice, come quando diciamo “le mie cose” per parlare di mestruazioni o usiamo vezzeggiatici per parlare della vagina.
Oggi si parla tanto di “femminismo” o, meglio, di “questioni di genere”. Pensi che del femminismo, in realtà, si conosca veramente poco? Che da un lato ci sia tutto quel mondo fatto di slogan mainstream e dall’altro quelli che pensano che le femministe siano solo le donne che odiano gli uomini e che non vogliono saperne di avere figli? C’è un po’ di confusione e il podcast può aiutare a fare chiarezza? Quando ho iniziato con il podcast, speravo proprio di sì e continuo a sperarlo, pure pensando a tutte le puntate che sono ancora in cantiere. E tra gli scopi del progetto c’era anche la rivendicazione del termine “femminista”. Indipendentemente da quale sia il femminismo in cui una persona si rispecchia (radicale, transescludente, post-strutturalista, ecc…), la volontà era proprio quella di riappropriarsi del termine e non parlarne solo come di questioni di genere. Perché è chiaro che il femminismo parli anche di questo ma usarlo come sinonimo di femminismo non è corretto. Anche in politica capita spesso che alcune figure femminili fondamentali, che fanno un enorme lavoro in Parlamento, rifuggono il termine “femminismo”. “Perché?”, mi chiedo. Non c’è una motivazione specifica. Effettivamente nell’opinione pubblica c’è una visione stereotipata della femminista che odia gli uomini e vorrebbe sradicarli dalla faccia della terra, ma la realtà è ben diversa. Basterebbe uno sforzo in più per capirlo e il podcast voleva anche fare questo, proporre degli spunti di approfondimento. Penso a Lorenzo Gasparrini che dice che dovremmo essere tutti femministi, riprendendo Chimamanda Ngozi Adichie. Credo sia bellissimo che lo faccia in quanto uomo e che usi proprio il termine “femminista” per sdoganarlo. Parlare semplicemente di “questioni di genere” significa, secondo me, voler negare un contenitore politico che invece è rivendicabile come è oggi definirsi “ambientalista”. L’uso del termine “femminista” dovrebbe dare subito l’idea di un insieme più ampio, “vario ed eventuale” dove ci sono tante posizioni e dove c’è anche il conflitto. Quello che mi ha stupito in questi ultimi mesi è che, parlando del ddl Zan, si è dato per scontato che all’interno del movimento ci fosse la necessità di essere tutt* d’accordo e che il fatto che alcune femministe non lo fossero sia stato indicato come un disvalore. Una situazione che è stata sfruttata per dire: “Ecco, le donne non riescono ad andare d’accordo tra loro”, ma non è così. Le donne hanno avuto un lasso di tempo troppo ristretto per sviluppare un’ideologia unitaria ed è ovvio che ci sia uno scontro tra femministe che, per me, è comunque positivo. Usare l’alternativa “questioni di genere” significa ridurre oggi il femminismo al rapporto uomo/donna ma è un rifiuto che nega una storia. Questo non significa che tutte le donne debbano essere femministe, ma riconoscere che una politica di genere è una politica che fa del femminismo.
A proposito di questo, perché ci sono tante persone che in qualche modo temono il femminismo, che dicono: “va bene, appoggio certe battaglie, ma non mi definisco femminista”? Cos’è che spaventa tanto? Secondo me, la questione centrale è il tema del privilegio. Questa tematica c’è da sempre e bisogna anche vedere l’ottica dalla quale guardarla. Se una persona guarda il privilegio con un “occhio intersezionale” vedrà che nessuno gli sta chiedendo di assumersi una colpa. Questa cosa, secondo me, non è chiara. Anche io sono una privilegiata: sono bianca, cisgender ed eterosessuale. Non sono privilegiata in quanto donna, ma per tutti gli altri fattori che compongono la mia identità. Questo privilegio però non lo sento come una colpa, ho imparato che va riconosciuto e compreso. La richiesta è prenderne atto, venirne a conoscenza. Il discorso è chiaramente molto complesso perché la nostra identità è fatta di tanti fattori: orientamento sessuale, identità di genere, etnia, status sociale, ecc… Questi fattori si intersecano e ci fanno assumere una posizione all’interno di una società strutturata. In questo senso, chiedere a una donna di prendere coscienza del suo privilegio è più difficile rispetto al chiederlo ad un uomo perché, se storicamente esiste lo “scontro” uomo/donna, nel momento in cui le altre identità, le altre voci emergono, si chiede anche alla donna bianca, cisgender, etero di ridurre il proprio privilegio davanti a una donna nera, disabile o transgender. E il fatto che ci sia questa richiesta mette la prima in difficoltà. La reazione spesso è: “Ma anche io sono donna!”, quando non si capisce il valore dell’intersezionalità. Su questo argomento è interessante il discorso che fa Nancy Fraser (filosofa e teorica femminista statunitense, ndr) sul femminismo che si è concentrato sull’abbattimento del famoso “soffitto di cristallo”. Fraser fa notare giustamente che non tutte le donne aspirano a diventare Ceo e si chiede: “Queste allora non sono soggetti validi di rivendicazione?”. Fa un’accusa parziale al femminismo liberale, quella di essersi dimenticato in parte dei problemi quotidiani delle donne. Questa è una conseguenza del non capire che tutt* partiamo da una condizione di privilegio rispetto al modo in cui la società ha sviluppato i concetti di “adeguato” e “non adeguato”. Si chiede semplicemente di prenderne atto per lavorare in un’ottica non negativa, ma propositiva. Rispetto agli uomini stessi, è giusto tentare di dialogare da pari. Anche se farlo è anche un talento. È chiaro che non sempre si riesce ma ci dovrebbe essere uno sforzo in questo senso.
Rimanendo sempre sul tema del “prendere coscienza”, possiamo inserire in questo discorso anche “not all men”, “non tutti gli uomini? Possiamo dire che le donne devono prendere coscienza all’interno del movimento, ma che c’è la necessità che questo lavoro lo facciamo anche gli uomini? Assolutamente! Secondo me, dire la famosa frase “non tutti gli uomini” è già un manifestare un privilegio, quello dell’estraniarsi da determinate dinamiche sbagliate, negative e tossiche, come quella del revenge porn, così che nessuno te ne venga a chiedere conto o che ti si richieda una maggiore partecipazione. Un uomo dovrebbe dire: “Sono in una posizione in cui la mia possibilità di essere ascoltato è maggiore, soprattutto dai miei “pari”, dal contraltare maschile” e fare lo sforzo non tanto di essere femminista, quanto piuttosto di rifiutare determinate dinamiche che hanno a che fare, banalmente, con la civiltà. Quando si parla di “cultura dello stupro”, non ci si riferisce semplicemente all’atto di stuprare concretamente una donna: la “rape culture” passa attraverso tutta una serie di pratiche sulle quali un uomo potrebbe e dovrebbe far sentire la propria voce. Per esempio, se un amico mostra una foto di nudo della propria compagna, l’uomo dovrebbe dire: “Ma che stai facendo?”. Alla frase “non tutti gli uomini”, una donna può rispondere: “Sì, però tutte le donne…” perché ognuna di noi ha sperimentato certe dinamiche, dal catcalling, le battute sessiste, alla violenza sessuale vera e propria. Per gli uomini lo sforzo dovrebbe essere quello di fare attivamente qualcosa. Che non significa necessariamente diventare un attivista, ma quanto meno cercare di frenare il più possibile questi comportamenti, almeno con la cerchia di persone più vicine, parenti e amici.
Ultima domanda, un po’ utopica: se fossimo tutti fossimo femministi, come dice Chimamanda Ngozi Adichie, a quel punto non avremmo più bisogno del femminismo. Secondo te, che mondo sarebbe se effettivamente riuscissimo a raggiungere questo traguardo? Allora, partiamo col dire che la maggior parte dei teorici che ho studiato dice che la disuguaglianza non si può eliminare del tutto, può essere ridotta soltanto al “minimo accettabile”. Se partiamo da questo presupposto, anche se fossimo tutti femministi, probabilmente le disuguaglianze non verrebbero completamente sradicate. La cosa importante però è organizzarsi collettivamente per cercare una risposta forse non efficace al 100%, ma utile per limitare la disuguaglianza. Oggi questo tentativo quasi non esiste perché quando si prova a farlo c’è sempre una gran discutere, in ogni ambito. Prendiamo di nuovo come esempio il ddl Zan, intorno al quale si sarebbe potuto costruire un bel confronto e invece si è finiti a fare un discorso fazioso. A me piacerebbe tanto vedere quest’utopia realizzata, anche se ci sarebbero appunto nuove forme di disuguaglianza. Non è facile riuscire a essere empatici a sufficienza per riconoscere le difficoltà dell’altro e ascoltare le sue istanze di riconoscimento. Dipende pure di che tipo di femminismo si parla perché, come abbiamo già detto, sono tanti e c’è una pluralità di opinioni che divergono, che propongono soluzioni diverse. Le istanze delle sex workers, per esempio, riceverebbero, a seconda dei vari femminismi, delle risposte diverse. Ma, se lo fossimo veramente tutti quanti, forse troveremmo dei meccanismi che renderebbero la risposta alla disuguaglianza immediata. E questa rimane sicuramente una speranza.
In Italia, l’interruzione di gravidanza è legale dal 1978. Tre anni dopo la sua entrata in vigore la legge 194 è stata messa in discussione. Da una parte c’erano i Radicali che chiedevano di eliminare il limite dei 90 giorni per ricorrere all’Ivg. Dall’altra, il Movimento per la Vita – di matrice cattolica – che chiedeva l’abrogazione dell’aborto o, in alternativa, che fosse limitato a necessità terapeutiche.
L’acceso dibattito nell’opinione pubblica aveva portato alle urne il popolo italiano per rispondere al quesito di due referendum. Entrambi respinti: la 194 doveva rimanere così come era stata originariamente formulata.
Negli ultimi anni è centrale il tema della pillola abortiva Ru 486 che, nonostante i vantaggi, viene osteggiata su più fronti. Anche in piena pandemia molte strutture ritengono necessario il ricovero, rendendo così il diritto di accesso all’Ivg quasi impossibile.
La nuova frontiera è la telemedicina. Con questo termine si intende l’assistenza medica in forma telematica, in cui il medico assiste la paziente online. Dopo l’assunzione della Ru 486 la donna può essere seguita con videochiamate e messaggi, evitando il rischio di essere contagiata durante la permanenza in ospedale. Cosa stiamo aspettando?
Se chiudo gli occhi posso ancora sentire sotto le dita i tuoi zigomi sodi di ragazza. Mi piaceva accarezzarti e chiederti quale fosse il tuo segreto. Nessun trucco, nessuna crema. Solo genetica. La stessa che si manifesta prepotentemente sul mio viso. Mi guardo allo specchio, e ti vedo.
Te ne sei andata in silenzio, l’ultima presa di posizione nei confronti di una vita che ti ha dato tanto e tolto altrettanto. Negli ultimi anni ti ha privata della memoria, di quei ricordi cui eri tanto affezionata.
Al collo portavi il viso del bambino che troppo presto era andato via da te, lasciandoti un vuoto enorme. Cercavi di colmarlo con un ciondolo che ogni tanto guardavi con orgoglio, gli occhi velati dalle lacrime.
Poi è stato il momento di tuo marito, anche lui all’improvviso. Portato via da un Dio della cui esistenza a tratti dubitavi.
Ma nessuno dei due ha mai lasciato davvero questa Terra. Vivi più che mai nelle tue parole.
La tua infanzia difficile, fatta di dolore e rinunce ti aveva segnata nei modi, a tratti bruschi. Ricordo i tuoi piccoli pugni battuti sul tavolo quando volevi sottolineare un concetto. Ti tradivano gli occhi, dolci e brillanti, l’opposto della forza che ostentavi. Gli stessi occhi con cui a volte guardavi spaesata il mondo che cambiava troppo velocemente per una come te, eterna ragazza anni ’50.
Abbiamo discusso, credevi che l’emancipazione femminile fosse una mia fantasia di bambina viziata. Tu eri stata fortunata. Instancabile lavoratrice e moglie devota di un uomo che ti amava e rispettava. Stavi bene così, protetta e indipendente. Tuo malgrado sei stata femminista. Hai passato 37 anni sola, senza bisogno di nessuno che non fossero i tuoi figli o i tuoi nipoti. Fiera nella solitudine che portavi come uno scialle. Troppo occupata a lavorare a macchina per piangerti addosso, ti concedevi qualche momento di malinconia.
Perdonami per averti capita fino in fondo solo ora, come chi è troppo cieco per vedere le cose prima che svaniscano.
Ti immagino in sella della tua bicicletta verde, a pedalare in un luogo in cui non esiste dolore. Finalmente non puoi più cadere.
Chiara Barison
*può sembrare un articolo atipico per questo blog, ma ho deciso di rendere omaggio a mia nonna soprattutto in quanto donna.