Shoah, Liliana Segre e la «colpa» di essere nata

«Porto il mio numero con grande onore perché è la vergogna di chi lo ha fatto. Persone odiate per la colpa di essere nate e che non avevano più diritto al loro nome diventano un numero. Il numero serve, in quella numerazione, per sapere quanti pezzi c’erano. Io sono stata un pezzo». In una delle sue ultime apparizioni pubbliche, un’intervista rilasciata a Massimo Gramellini del novembre 2019 (un anno dopo si è ritirata a vita privata), la senatrice della Repubblica italiana Liliana Segre raccontava così l’esperienza dell’Olocausto. Segre, 91 anni, è tra le ultime testimoni sopravvissute agli orrori dei campi di sterminio nazisti: in occasione della Giornata della memoria, ripercorriamo la sua storia.

Un’infanzia felice

Milano, 1930: Liliana Segre nasce il 10 settembre e cresce in corso Magenta 55, dove oggi sono posate le pietre d’inciampo dedicate al padre Alberto e ai nonni paterni, Giuseppe Segre e Olga Lövvy. La madre Lucia muore 25enne di cancro, quando sua figlia ha solo un anno di vita. Quella di Liliana Segre è tuttavia un’infanzia felice: il padre, che perde la moglie giovanissimo, ha solo 31 anni, decide di dedicarsi totalmente alla bambina, la vizia e la ama profondamente. I Segre vivono una vita agiata.

Liliana sperimenta una prima grande sofferenza a 8 anni quando, per le sue origini ebraiche, viene espulsa da scuola: è il 1938 e in Italia entrano in vigore le leggi razziali. «Mi restò per anni la sensazione di essere stata cacciata per aver commesso qualcosa di terribile, che in seguito tradussi dentro di me come “la colpa di essere nata”; perché altre colpe certo non ne avevo: ero una ragazzina come tutte le altre», ha raccontato in diverse occasioni la senatrice.

Il tentativo di fuga in Svizzera e il carcere

L’8 settembre 1943 cade il fascismo, il centro e il sud Italia vengono liberati dagli Alleati. Ma il nord del Paese rimane in mano ai fascisti e ai tedeschi. Alberto Segre capisce il pericolo che corrono gli ebrei e tenta la fuga in Svizzera con Liliana: «La storia di questa fuga grottesca la racconto sempre, quando vado a testimoniare nelle scuole, perché sulle prime mi sentivo un’eroina, sui valichi dietro Varese. Era inverno e attraversavamo i boschi, io e mio papà: passavamo il confine come clandestini, come animali sulle montagne. Eravamo liberi, pieni di speranza. Ma arrivati di là, un ufficiale svizzero tedesco ci trattò come degli imbroglioni, come delle cose orribili che capitavano proprio a lui, e ci respinse, ci consegnò agli italiani, condannandoci a morte».

I due vengono arrestati a Varese, portati nel carcere di Como, infine trasferiti in quello milanese di San Vittore. Restano per 40 giorni nel V raggio, sezione che i fascisti avevano destinato ai detenuti ebrei. Segre, all’epoca 13enne, e suo padre lasciano il carcere e Milano il 30 gennaio 1944, insieme a più di seicento persone, tra cui quaranta bambini. Dal binario 21 della Stazione Centrale inizia «il viaggio verso il nulla durato una settimana» in un vagone sprangato. Il viaggio verso Auschwitz.

Il campo di concentramento e la perdita del padre Alberto

«Ad Auschwitz un passo avanti o indietro poteva cambiare il destino. Sono anziana, ma non sono mai uscita davvero dalla me stessa di allora. E ogni anno che passa, mi chiedo “Ma come ho fatto, ma come ho fatto, ma come ho fatto?”. Potrei andare avanti all’infinito ma non ho la risposta. Uomini di qua, donne di là: quando scendemmo dal treno e ci separammo, mio padre mi disse di restare con una nostra conoscente, la signora Morais. Eppure quando la guardia mi chiese se fossi sola, ebbi l’istinto di dire di sì. Finii in una fila, la signora Morais in un’altra, e andò al gas». Liliana Segre raggiunge il campo di concentramento il 6 febbraio 1944. Arrivano ad Auschwitz 605 persone, ma in poche ore 500 ne vengono uccise con il gas. La ragazza perde in quel momento suo padre Alberto, che non rivedrà mai più: «Mi ha amato e io lo ho amato con tutta me stessa. Resta il grande nodo irrisolto della mia vita. Il dolore più grande del mondo ce lo siamo dati reciprocamente: io per la sua perdita, lui perché quando ha lasciato la mia mano sulla rampa di Auschwitz-Birkenau, non credo pensasse che ce l’avrei mai fatta». La stessa sorte sarebbe toccata nel maggio dello stesso anno anche ai nonni paterni Giuseppe e Olga, arrestati 6 mesi dopo Alberto e Liliana, e ai suoi cugini.

Liliana Segre invece vede la sua vita risparmiata ed è costretta a lavorare in una fabbrica, la “Union”, che produce munizioni, diventa 75190. Un numero diverso per ogni sopravvissuto ma per tutti il simbolo dello sterminio di 17 milioni di persone: ebrei, disabili, zingari, omosessuali, prigionieri politici. Tra le esperienze più strazianti che la senatrice ha raccontato in questi anni, c’è quella di Janine: una ragazza, ebrea francese di 12 anni, internata con Liliana Segre ad Auschwitz. Una mattina la ragazzina viene ritenuta non idonea per continuare a lavorare e destinata alla camera a gas. Soltanto perché aveva perso due dita. Resta uno dei rimpianti di Segre, quello di non averla salutata, di non averle mostrato un ultimo gesto di affetto e umanità: «Lei non serviva più, andava al gas. E io, che ero appena passata e che tutti i giorni lavoravo con lei, sono stata orribile, così ero diventata. Non mi sono voltata, non accettavo più distacchi. Ma non ci fu mai più un tempo in cui non mi ricordai di Janine».

Dopo circa un anno di lavori forzati e la chiusura del campo, Segre viene trasferita in Polonia, poi in Germania, nei campi di Ravensbrück e Malchow. È il 1° maggio del 1945 quando viene liberata dai russi. Tornerà a Milano nel 1946, fra i 25 sopravvissuti di età inferiore ai 14 anni.

Nel 1948 conosce a Pesaro, durante una vacanza al mare, Alfredo Belli Paci, il suo futuro marito. Anche lui deportato in diversi campi di concentramento nazisti per non aver aderito alla Repubblica di Salò, Alfredo conquista Liliana, colpita dalla sua somiglianza fisica e caratteriale con il padre Alberto. I due si sposano con rito cattolico nel 1951 e dalla loro unione nasceranno Alberto, Luciano e Federica.

La testimonianza per le generazioni future e l’impegno politico

Solamente nei primi anni ’90 Liliana Segre decide di rompere il silenzio in cui si era rifugiata e di diventare testimone vivente della sua prigionia. Per molti anni parla con gli studenti di varie scuole, un’attività alla quale, come lei, tanti altri sopravvissuti alla Shoah si sono dedicati con l’intenzione di educare le generazioni future, affinché cose come queste non avvengano mai più.

Il riconoscimento non è solo civile, ma anche politico: nominata prima Commendatore della Repubblica Italiana sotto il governo Ciampi, poi senatrice a vita, nel 2018, dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, “per aver illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo sociale“. Nel 2004 una medaglia d’oro dalla città di Milano e nel 2008 e 2010 due lauree ad honorem, in Legge dall’Università di Trieste, e nel 2010 in Scienze pedagogiche dall’Università di Verona. E in diversi altri momenti la cittadinanza onoraria in diverse città, tra cui Lecco, Palermo e Varese.

Nel 2020 è invitata al Parlamento europeo dal recentemente scomparso Presidente David Sassoli. Davanti ai più alti rappresentanti delle istituzioni di tutta Europa ripercorre gli orrori vissuti, meritando l’applauso commosso di tutta l’assemblea: «La forza della vita è straordinaria, è questo che bisogna trasmettere ai giovani, che sono mortificati dalla mancanza di lavoro, mortificati dai vizi che ricevono dai loro genitori molli per cui tutto è concesso Mentre la vita non è così, è una marcia. Noi non volevamo morire, eravamo pazzamente attaccati alla vita, qualunque fosse».

Qualche tempo dopo l’Università di Roma “La Sapienza” le conferisce un dottorato honoris causa in storia dell’Europa che Segre dedica al padre Alberto,“ucciso per la colpa di essere nato”. Nell’ottobre dello stesso anno l’ultimo discorso pubblico, prima di ritirarsi a vita privata. A Rondine, in provincia di Arezzo, inaugura idealmente il progetto dell’ “Arena di Janine”, dedicata alla ragazza “scartata”, la compagna di Auschwitz. In quell’occasione ha detto: «Non perdono e non dimentico, ma non odio».

Rispettando i suoi compiti da senatrice a vita, nel 2021 ha votato la fiducia al Governo Conte II e la mozione di conferimento della cittadinanza italiana onoraria al ricercatore egiziano dell’Università di Bologna Patrick Zaki, liberato l’8 dicembre scorso dopo due anni di detenzione nel carcere del Cairo. Ha partecipato anche all’elezione del futuro Presidente della Repubblica italiana nel gennaio 2022.

«C’è una bambina, tra quelli del campo di Terezin, poi deportati e uccisi ad Auschwitz per la sola colpa di essere nati, che ha disegnato una farfalla gialla che vola sopra i fili spinati. […] Questo è un semplicissimo messaggio da nonna che vorrei lasciare ai miei futuri nipoti ideali: che riescano sempre a fare una scelta, che con la loro responsabilità e coscienza siano in grado di essere sempre quella farfalla gialla che vola sopra i fili spinati», Liliana Segre.

Eleonora Panseri

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